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Le nuove cariche dello Stato cubano Il 21 dicembre, con la nomina a primo ministro di Manuel Marrero Cruz, si è conclusa la riorganizzazione delle principali cariche dello Stato. Vice primo ministro è stato designato Ramiro Valdés, ultimo rappresentante della storica generazione della rivoluzione rimasto nel governo. Secondo la nuova Costituzione approvata in aprile, Marrero - il cui mandato durerà cinque anni - controllerà non solo l'operato dei funzionari dell'amministrazione centrale, ma anche quello dei governatori provinciali. Il 10 ottobre l'Asamblea Nacional del Poder Popular aveva eletto come presidente della Repubblica Miguel Díaz-Canel Bermúdez, che fino ad allora era a capo dei Consejos de Estado y de Ministros. Il mandato di Díaz-Canel si concluderà nel 2023 come quello del suo vice, Salvador Valdés Mesa. Le figure del primo ministro e del presidente della Repubblica non esistevano dal 1976. Sempre il 10 ottobre i deputati avevano eletto Esteban Lazo Hernández presidente dell'Asamblea e del Consejo de Estado. Ana María Mari Machado e Homero Acosta Alvarez avevano assunto gli incarichi rispettivamente di vicepresidente e di segretario. Al Consejo de Estado sono demandate importanti funzioni: in particolare vigilare sul rispetto e il compimento della Costituzione, con il potere di sospendere decreti, accordi e altre disposizioni in contrasto con la Carta fondamentale. Non si arresta intanto l'offensiva dell'amministrazione Trump contro Cuba. Agli inizi di dicembre sono state annunciate nuove sanzioni contro sei bastimenti che trasportavano idrocarburi dal Venezuela all'Avana. Non è certo la prima disposizione statunitense volta a bloccare l'importazione di petrolio: da mesi l'approvvigionamento di combustibile è reso difficile a causa del blocco Usa. È l'ennesima dimostrazione dell'ossessione di Washington verso la Rivoluzione, dopo le restrizioni ai viaggi culturali ed educativi di gruppo (noti come people to people) e le limitazioni alle transazioni bancarie e all'invio delle rimesse familiari. Per non parlare della decisione del Dipartimento di Stato che in giugno aveva incluso l'isola, accanto ad Arabia Saudita, Corea del Nord, Iran, Russia e Venezuela, nella lista nera dei paesi che non fanno abbastanza per combattere la tratta di persone. "Altre menzogne e calunnie degli Usa che inseriscono Cuba nella peggiore categoria, attaccando la collaborazione medica cubana esempio di solidarietà, umanità e cooperazione nobile e legittima tra i paesi del Sud": questa la ferma dichiarazione di Díaz-Canel. Il 7 novembre la politica di Washington era stata bocciata ancora una volta (la ventottesima) dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. 187 paesi si erano espressi a favore del progetto di risoluzione dal titolo: "Necessità di porre fine al blocco economico, commerciale e finanziario imposto dagli Stati Uniti d'America contro Cuba". Colombia e Ucraina si erano astenute, mentre la Moldavia non aveva votato. Ai contrari, Stati Uniti e Israele, si era unito quest'anno il Brasile di Bolsonaro. 22/12/2019 |
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Trent'anni fa gli Usa invadevano Panama A distanza di trent’anni dalla sanguinosa invasione statunitense, il presidente Laurentino Cortizo ha dichiarato il 20 dicembre giorno di lutto nazionale "per onorare tutti gli innocenti che persero la vita e difesero l’integrità del nostro territorio". È la prima volta che il governo panamense adotta una tale decisione, venendo incontro a una richiesta dell’Associazione dei familiari e amici delle vittime. Un passo puramente simbolico: la bandiera nazionale è stata issata a mezz’asta, ma su pressione del mondo imprenditoriale fabbriche e uffici sono rimasti aperti. Si tratta comunque di una novità importante, che segna la presidenza di Cortizo, eletto nel maggio di quest’anno. Per tre decenni sugli avvenimenti del 20 dicembre 1989 è stato steso un velo di silenzio. Nessuna commemorazione ufficiale, nessuna inchiesta sull’accaduto. Solo nel 2016, dopo innumerevoli sollecitazioni dei familiari, è stata creata una commissione presieduta dal rettore universitario Juan Planells e incaricata di ricostruire la verità storica. Ma lo stesso Planells ammette che i lavori procedono a passo di lumaca e del resto i fondi sono stati sempre erogati con il contagocce. Intanto decine di corpi senza nome giacciono ancora nei cimiteri: le prime esumazioni per identificarli avverranno soltanto in gennaio. Giusta Causa: così gli Stati Uniti ribattezzarono l’invasione, effettuata con il pretesto di arrestare il generale Manuel Antonio Noriega, accusato di narcotraffico e riciclaggio. 26.000 soldati occuparono il paese mentre gli aerei bombardavano la capitale, in particolare il popoloso quartiere di El Chorrillo, uccidendo centinaia, forse migliaia di civili (il numero esatto non è mai stato determinato). "Come si può distruggere un paese per catturare un solo uomo": questo il commento del documentario Invasión, diretto nel 2014 dal panamense Abner Benaim. Allo sbarco dei marines seguirono due anni di occupazione: come presidente venne imposto l'imprenditore Guillermo Endara, che prestò giuramento in una base militare statunitense. Nel 2017 la Commissione Interamericana per i Diritti Umani aveva raccomandato al governo di Washington di "riparare integralmente le violazioni ai diritti umani tanto nell’aspetto materiale che in quello immateriale". Le autorità statunitensi si sono limitate a condannare quattro militari per l’assassinio di civili, ma continuano a celebrare il "successo" dell’operazione. Ma quale fu il vero motivo dell’invasione? La vicenda di Noriega ricorda quella di Saddam, passato da grande alleato a nemico giurato della Casa Bianca. Ex membro della Cia e giunto al potere nel 1983 con l’aiuto statunitense, Noriega aveva preso sempre più le distanze da Washington, che nel 1989 non lo considerava più funzionale ai suoi interessi. Secondo alcuni storici, il generale si era rifiutato di intervenire contro il governo sandinista del Nicaragua. Secondo un’altra ipotesi, aveva respinto una revisione dei Trattati Torrijos-Carter del 1977, grazie ai quali il Canale sarebbe tornato sotto sovranità panamense alla fine del 1999 (come poi avvenne). Al di là delle ragioni congiunturali, l’invasione di Panama segna l’avvio di una nuova fase della politica statunitense. Pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, gli Stati Uniti sostituivano in America Latina il pretesto della guerra contro il comunismo con la guerra al traffico di droga. Una politica che all’epoca ricercava l’avallo degli alleati del continente. Come si è appreso da documenti recentemente declassificati, all’alba del 20 dicembre George Bush padre contattò tre presidenti latinoamericani per avvertirli dell’inizio dell’invasione. Erano l’argentino Carlos Menem, il messicano Carlos Salinas de Gortari e il venezuelano Carlos Andrés Pérez. I tre Carlos erano di stretta osservanza neoliberista e di incondizionata fedeltà a Washington: il governo di Menem teorizzerà le "relazioni carnali" con gli Usa; quello di Salinas firmerà il Tlcan, il Tratado de Libre Comercio de América del Norte; il secondo mandato di Pérez si era già contraddistinto, nel febbraio di quell’anno, per il massacro di migliaia di persone che protestavano contro l’aumento del costo della vita (il cosiddetto Caracazo). Al termine della loro presidenza, tutti e tre finiranno indagati per corruzione e Salinas anche per narcotraffico. 20/12/2019 |
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L'Uruguay svolta a destra Per soli 30.000 voti Luis Lacalle Pou, candidato del Partido Nacional, si è imposto nel ballottaggio del 24 novembre su Daniel Martínez, del Frente Amplio. Proprio questa piccola differenza ha reso necessario procrastinare di qualche giorno la proclamazione ufficiale per procedere a un ricontrollo delle schede. Il nuovo capo dello Stato, che assumerà le sue funzioni il primo marzo, è figlio del presidente Luis Alberto Lacalle (1990-1995). Parlamentare dal 2002, prima come deputato poi come senatore, Lacalle Pou si è sempre opposto ai progetti di legge presentati dal centrosinistra, dall'aborto al matrimonio egualitario, dai diritti delle persone transessuali alla regolamentazione della marijuana, dalle norme a favore dei braccianti a quelle per le lavoratrici domestiche. Come primo provvedimento ha già preannunciato la riduzione delle spese statali per abbassare il deficit fiscale senza aumentare le tasse, il che si tradurrà inevitabilmente in tagli a sanità, istruzione e programmi sociali. Su che cosa si è fondato il successo della destra? Innanzitutto sull'appoggio dei principali media, che hanno sottolineato ogni lacuna dei quindici anni di gestione del Frente Amplio, tacendo sistematicamente i tanti aspetti positivi. In particolare al centro della campagna è stato posto il tema dell'insicurezza, in un paese che pure è tra i più sicuri della regione. E, in contrasto con le previsioni, non ha fatto alcuna presa sull'elettorato la gravissima crisi economica e sociale prodotta nella vicina Argentina dalla presidenza di Mauricio Macri, la cui politica Lacalle minaccia di emulare. A metà dicembre il presidente eletto ha presentato il suo futuro governo, composto da ministri dei diversi partiti della coalizione. Il Partido Nacional si è riservato il controllo della maggior parte dei dicasteri, che saranno affidati a suoi esponenti. Tra questi il senatore Jorge Larrañaga, promotore del progetto di riforma costituzionale sull'impiego dei militari in compiti di pubblica sicurezza. La proposta non era riuscita a raggiungere il quorum ed era stata dunque bocciata dall'elettorato, ma Larrañaga è stato comunque premiato con l'importante Ministero dell'Interno. La senatrice Irene Moreira, moglie dell'ex candidato presidenziale di estrema destra Guido Manini Ríos (Cabildo Abierto), si occuperà degli Alloggi, mentre titolare degli Esteri sarà un altro ex candidato presidenziale, Ernesto Talvi (Partido Colorado). Quest'ultimo ha già chiarito quali saranno le direttrici della sua politica: sulla situazione boliviana ha parlato di "rottura istituzionale" riferendosi non al colpo di Stato del 10 novembre, ma alla "elezione fraudolenta" che aveva sancito la vittoria di Evo Morales. 17/12/2019 |
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"La Colombia ha perso la paura" "La Colombia ha perso la paura". Questa frase, scritta sui cartelli dei manifestanti, sintetizza efficacemente quanto sta avvenendo nel paese, dove uno straordinario movimento di protesta contesta da oltre due settimane la politica neoliberista del presidente Duque. Nel mirino in particolare le misure dettate dal Fondo Monetario e che il governo vorrebbe applicare: precarizzazione del lavoro, riforma della previdenza e riforma tributaria a favore dei redditi più alti. La prima grande mobilitazione è avvenuta il 21 novembre, con uno sciopero generale promosso dalle organizzazioni sindacali. Un milione le persone scese in piazza in diverse città: oltre a un cambiamento della politica governativa chiedevano la protezione per i leader sociali, sempre più bersaglio dei gruppi paramilitari, e la piena attuazione degli accordi di pace con le Farc. In gran parte i cortei si sono svolti in maniera pacifica anche se in alcuni casi, come a Bogotá, la presenza di provocatori ha fornito il pretesto per un violento intervento della polizia. E in altre località gli scontri hanno provocato la morte di tre manifestanti. Le proteste non si sono fermate quel giorno: cortei, blocchi del trasporto pubblico, cacerolazos sono diventati quotidiani, sfidando la selvaggia reazione dell'Escuadrón Móvil Antidisturbios (Esmad) e il coprifuoco decretato nella capitale. Come in Ecuador e in Cile, anche qui il governo ha responsabilizzato degli incidenti cittadini stranieri venuti a "fomentare il caos", decidendo l'espulsione di 24 venezuelani (altre espulsioni seguiranno nei giorni successivi). Sono stati segnalati anche casi di saccheggio cui non sarebbero estranee le stesse forze di sicurezza, come risulta da alcuni video che mostrano uomini incappucciati scendere da automezzi della polizia. La repressione attacca indiscriminatamente qualsiasi manifestazione, anche le più pacifiche. Il 23 novembre a Bogotá il diciottenne Dilan Cruz viene colpito alla testa da un agente dell'Esmad; il giovane morirà due giorni dopo e il suo nome diventerà un simbolo della protesta. Il 27 novembre e il 4 dicembre due nuovi scioperi generali registrano massicce adesioni: decine di migliaia di persone si mobilitano nuovamente in tutto il paese e nella capitale confluiscono anche i rappresentanti delle comunità indigene. I tentativi di Duque di frenare la rivolta con qualche piccola concessione non ottengono l'effetto sperato; le richieste non si limitano più al ritiro delle riforme contestate, ma chiedono le dimissioni del capo dello Stato e la convocazione di un'Assemblea Costituente. E l'8 dicembre decine di migliaia di persone, in gran parte giovani, seguono il concerto itinerante Un canto x Colombia, organizzato da innumerevoli artisti e interpreti per manifestare, una volta di più, il malcontento popolare e mostrare che il movimento non dà segni di cedimento. 9/12/2019 |
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Messico, il primo anno di governo di Amlo Domenica primo dicembre oltre 250.000 persone si sono date convegno nello Zócalo di Città del Messico per festeggiare il primo anno di governo di Andrés Manuel López Obrador. Un anno che ha visto l’avvio di quella Quarta Trasformazione tra i cui obiettivi vi è anche l’avvio di una serie di programmi sociali. Proprio per garantire che tale politica assistenziale continui anche dopo il termine dell’attuale mandato, è stata inviata alla Camera una proposta governativa che prevede l’inserimento in Costituzione dell’obbligo di istituire un sistema sanitario nazionale per le persone a basso reddito, un sistema previdenziale per portatori di handicap e anziani privi di pensione contributiva e appoggi economici per gli studenti poveri di ogni ordine e grado. Un altro cambiamento fondamentale riguarda l’atteggiamento nei confronti dei movimenti di protesta: Amlo ha tenuto fede alla promessa di non utilizzare metodi repressivi e gli accampamenti dei vari gruppi sociali che per diverse ragioni stazionano davanti al Palacio Nacional non sono stati sgomberati. Il presidente si è più volte incontrato con i familiari dei 43 studenti di Ayotzinapa scomparsi nel 2014, anche se la sua crociata per la verità e la giustizia si scontra con ancora troppe sacche di impunità. Diminuzione della povertà e dell’emarginazione, riduzione della disoccupazione e dell’abbandono scolastico: sono questi gli strumenti evocati da López Obrador per combattere la criminalità organizzata, che trova terreno fertile nei giovani privi di prospettive per il futuro. Si tratta di un cambiamento netto di strategia rispetto alla guerra al narcotraffico dichiarata dai precedenti governi, che aveva portato a decine di migliaia di vittime senza minimamente intaccare il potere dei cartelli della droga. Ma non è una soluzione miracolistica: si spiega così la mancanza di risultati visibili in questi primi dodici mesi. E continuano anche gli omicidi di giornalisti, ambientalisti, attivisti sociali. In luglio viene uccisa nel Michoacán Zenaida Pulido Lombera, militante della lotta per la ricerca dei desaparecidos. In agosto nell'Estado de México è assassinata Nancy Flores García, della Comisión Nacional de los Derechos Humanos. In ottobre nello Stato di Chihuahua viene incontrato il corpo senza vita di Cruz Soto Caraveo, membro di un collettivo di famiglie sfollate a causa della delinquenza: era stato sequestrato pochi giorni prima. La stessa sorte è riservata in novembre ad Arnulfo Cerón, dirigente del Frente Popular de la Montaña nello Stato del Guerrero. Sul tema dell’insicurezza insistono le opposizioni per parlare di fallimento dell’attuale presidenza. Già da tempo infatti la destra interna e internazionale è scesa in campo contro il governo di López Obrador. La recente sortita di Donald Trump, che ha annunciato l’intenzione di dichiarare i cartelli della droga "organizzazioni terroristiche", rappresenta solo l’ultimo di una serie di attacchi, più o meno velati, contro le istituzioni messicane. Un tale provvedimento non si limiterebbe ai confini statunitensi: sappiamo come la lotta al terrorismo abbia giustificato, fin dai tempi dell’amministrazione di George W. Bush, ogni tipo di intervento armato in paesi sovrani. Tanto per chiarire la portata della sua minaccia, Trump ha aggiunto di aver proposto ad Amlo "di lasciarci entrare e ripulire tutto, ma per il momento lui ha respinto l’offerta". "Il Messico non ammetterà mai nessuna azione che significhi la violazione della sua sovranità", è stata la ferma risposta del ministro degli Esteri Marcelo Ebrard. Resta però l’incognita di una serie di sanzioni economiche che Washington potrebbe adottare, accusando il governo messicano di non fare abbastanza per combattere le attività terroristiche. Sanzioni che costringerebbero il paese a parziali concessioni, come già avvenuto in giugno con la questione dei migranti. Il pretesto addotto dal presidente statunitense per questo aperto atto di ingerenza è la presunta incapacità del governo messicano di affrontare con successo la lotta ai narcos. Due episodi hanno fornito supporto a questa accusa. Il primo: il fermo e successivo rilascio del figlio del Chapo Guzmán, il boss del cartello di Sinaloa attualmente in carcere negli Usa. La cattura il 17 ottobre a Culiacán, capitale dello Stato di Sinaloa, di Ovidio Guzmán López aveva scatenato la rivolta del cartello e un sanguinoso scontro con le forze di sicurezza, con il bilancio di otto morti e sedici feriti. Per evitare ulteriori spargimenti di sangue, in cui sarebbe rimasta coinvolta la popolazione civile, le autorità avevano deciso la liberazione del fermato. Un indubbio fallimento per lo Stato, di cui López Obrador si era assunto la responsabilità. Nella ricostruzione dell’accaduto rimangono però punti oscuri, che hanno indotto alcuni commentatori a parlare di una sorta di trappola costruita ad arte per indebolire la posizione del governo. In particolare viene citata la misteriosa visita a Culiacán, qualche settimana prima, di alti funzionari della Dea e dell’ambasciata statunitense e il loro incontro con il governatore priista dello Stato, Quirino Ordaz. Ancora più grave il secondo episodio, l’imboscata del 4 novembre nello Stato di Sonora contro due automezzi in cui viaggiavano alcuni membri della famiglia LeBarón, appartenente alla comunità mormone e dalla doppia nazionalità messicano-statunitense. Nove persone, tre adulti e sei bambini, venivano uccise. Un agguato dai motivi ancora oscuri (un errore dei killer o una provocazione?) che comunque ha dato fiato a quanti negli Usa chiedono un intervento oltre frontiera, da The Wall Street Journal a una serie di congressisti repubblicani, al sottosegretario per la Sicurezza Nazionale David Glawe. Quanto all’opposizione interna, è scesa in piazza anche questo primo dicembre con una contromanifestazione, mentre prosegue attraverso i media e nelle reti sociali la diffusione di fake news con cui si cerca di delegittimare e screditare il governo, secondo un piano già messo in atto con successo in altri paesi. Tra le decisioni contestate dalla destra, l’aver concesso asilo politico a Evo Morales, costretto a dimettersi dopo l’ennesimo golpe in Bolivia. Vi è poi da registrare il discorso, dai toni apertamente golpisti, pronunciato il 22 ottobre dal generale Carlos Gaytán Ochoa (un militare ora a riposo, che nel suo curriculum ha anche un corso di specializzazione presso la tristemente nota School of Americas). "Viviamo oggi in una società politicamente polarizzata perché l’ideologia dominante, quando non maggioritaria, si sostiene su presunte correnti di sinistra, che durante gli anni hanno accumulato un grande risentimento", ha affermato Gaytán tra gli applausi degli alti vertici dell’esercito e dell’aviazione. Pur ammettendo che l’attuale presidente rappresenta legittimamente circa trenta milioni di messicani (tanti i voti ottenuti da Amlo il primo luglio 2018), l’oratore ha aggiunto: "I fragili meccanismi di contrappeso esistenti hanno permesso un rafforzamento dell’esecutivo che sta favorendo decisioni strategiche che, per dirla con moderazione, non hanno convinto tutti". E ancora: "Questo ci preoccupa dal momento che tutti noi qui presenti siamo stati formati con valori che si scontrano con il modo in cui il paese è oggi diretto". Un attacco, da parte di un militare alle istituzioni civili, senza precedenti nella storia del Messico postrivoluzionario. Anche se nei giorni successivi altri alti ufficiali (il titolare del Ministero della Difesa Nazionale, generale Luis Cresencio Sandoval, e quello della Marina, ammiraglio Rafael Ojeda Durán) hanno ribadito la loro lealtà al presidente López Obrador, le dichiarazioni di Gaytán restano un segnale preoccupante dell’esistenza di tendenze eversive all’interno delle forze armate. 2/12/2019 |
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Bolivia, la resistenza indigena contro il golpe Dagli altipiani centinaia di contadini con i ponchos rojos, di uomini e donne con le bandiere whipala sono giunti a La Paz dando vita a massicce manifestazioni e subendo la violenta repressione della polizia. A Sacaba, nel dipartimento di Cochabamba, i sostenitori di Morales sono stati selvaggiamente attaccati dalle forze di sicurezza. In tutto il paese si registrano già una trentina di morti e centinaia di feriti. È il tragico bilancio del golpe razzista e classista attuato dall'élite bianca, che non ha mai digerito un presidente aymara. Intanto il governo de facto cerca di imporre l'ordine della dittatura concedendo l'impunità ai militari per le azioni compiute nel corso della repressione. E per non lasciare dubbi sulla sua collocazione internazionale, il nuovo esecutivo ha rotto le relazioni diplomatiche con Venezuela e Cuba e ha ritirato la Bolivia dall'Alba e dall'Unasur. In America Latina la Bolivia ha il triste primato del maggior numero di colpi di Stato (ben 188). Il 189° è avvenuto il 10 novembre: Evo Morales costretto a rinunciare di fronte alla violenza scatenata dai gruppi di estrema destra, che hanno trovato l'appoggio di una polizia in rivolta per ragioni economiche e la complicità dei militari. Sono stati questi ultimi, attraverso un comunicato letto da Williams Kaliman, comandante delle forze armate, a sollecitare le dimissioni del presidente dando l'avallo al golpe. Da qui la decisione di Morales di abbandonare la Casa del Pueblo (la nuova sede del governo) per evitare una guerra civile. "Il colpo di Stato si è consumato", ha commentato il vicepresidente García Linera, anch'egli dimissionario. Fin da quando il voto del 20 ottobre aveva ratificato il trionfo di Morales, l'opposizione aveva rifiutato di riconoscere il responso delle urne denunciando presunti brogli. I blocchi stradali, le serrate, gli assalti alle abitazioni di esponenti del Mas, le aggressioni contro chiunque avesse tratti indigeni, i saccheggi non venivano fermati neppure dalla decisione dell'esecutivo di accettare un ricontrollo del processo elettorale da parte dell'Organización de los Estados Americanos (non certo sospetta di simpatie verso i governi progressisti). A Cochabamba la grande manifestazione promossa dalla Confederación de Mujeres Campesinas Bartolina Sisa veniva attaccata da squadracce in moto. E Patricia Arce, sindaca di Vinto, veniva aggredita da oppositori che, dopo averla picchiata, le buttavano addosso pittura rossa e le tagliavano i capelli. Era solo il preludio di quanto sarebbe accaduto dopo la presa del potere da parte dei golpisti. Il nucleo più estremista è raccolto intorno al Comité Cívico Pro Santa Cruz il cui leader, l'ultraconservatore Luis Fernando Camacho, ha eclissato la figura di Carlos Mesa, l'avversario battuto da Morales nelle consultazioni. Da Santa Cruz, culla dell'opposizione, Camacho ha portato la violenza in tutto il paese, fino a La Paz dove oggi appare il protagonista indiscusso di questo ennesimo attentato alla democrazia. Ma chi c'è dietro il colpo di Stato? Un blocco eterogeneo: settori civili, imprenditoriali, religiosi alleati ai vertici della polizia e delle forze armate. E naturalmente complicità internazionali, in particolare da parte del governo statunitense. La posta in gioco è il litio, di cui la Bolivia possiede enormi giacimenti: lo sfruttamento di questa ricchezza non sarà più destinato a migliorare le condizioni di vita della popolazione, ma finirà ancora una volta nelle mani di qualche transnazionale. Mentre i golpisti tentavano di costruire una finzione costituzionale con la proclamazione a presidente ad interim di Jeanine Añez, già seconda vicepresidente del Senato, in un'Asamblea Legislativa priva di quorum, Evo Morales giungeva a Città del Messico dove López Obrador gli aveva offerto asilo politico. Il suo era stato un viaggio complicato: il governo di Martín Vizcarra aveva impedito al velivolo dell'aviazione messicana, che trasportava in esilio l'ex presidente insieme al suo vice Linera, di atterrare in territorio peruviano per rifornirsi di carburante e quello di Lenín Moreno aveva proibito il sorvolo dello spazio aereo ecuadoriano. Tutto in ossequio alla posizione statunitense: Donald Trump aveva infatti celebrato la "rinuncia" di Morales come un ritorno alla democrazia. Sulla stessa linea il segretario generale dell'Oea, Almagro, che era arrivato ad affermare: "In Bolivia c'è stato un colpo di Stato il 20 ottobre, quando Morales ha commesso i brogli". Più pilatesca la dichiarazione dell'alta rappresentante dell'Unione Europea per gli Affari Esteri, Federica Mogherini: senza alcuna parola di condanna per la rottura dell'ordine costituzionale, si era limitata ad auspicare che "tutte le parti esercitino moderazione e responsabilità e portino pacificamente e tranquillamente il paese a nuove e credibili elezioni". 19/11/2019 |
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Brasile, Lula torna in libertà L'8 novembre si sono aperti i cancelli e Lula è tornato ad abbracciare il suo popolo, dopo 580 giorni di ingiusta prigionia. Il giorno precedente il Supremo Tribunal Federal, per sei voti contro cinque, aveva riconosciuto che secondo la Costituzione un condannato ha diritto a rimanere in libertà fino a che non si siano esauriti tutti i gradi di giudizio. A far propendere i giudici verso la liberazione di Lula era stata anche la rivelazione, da parte del sito The Intercept, delle manovre illegali attuate nell'ambito dell'inchiesta Lava Jato per arrivare all'imprigionamento dell'ex presidente. Le informazioni fornite dal sito web sulla base di chat registrate, audio e video, hanno rappresentato un vero e proprio terremoto nella politica brasiliana: minando la credibilità del giudice Sérgio Moro hanno dimostrato come il vero obiettivo della sua tanto celebrata lotta alla corruzione fosse in realtà la detenzione di Lula per permettere la vittoria di Bolsonaro alle presidenziali del 2018. E mentre Lula era in cella, il governo Bolsonaro si lanciava all'attacco di tutte le conquiste degli ultimi anni: riforma del lavoro e delle pensioni in senso neoliberista, offerta al miglior offerente del pré-sal (i giacimenti petroliferi delle profondità marine), via libera alla devastazione dell'Amazzonia da parte di grandi coltivatori, commercianti di legname e compagnie minerarie. La distruzione provocata nel "polmone del pianeta" dagli incendi di questa estate hanno suscitato allarme in tutto il mondo. E ancora una volta è stato The Intercept a gettar luce sui veri interessi in gioco dietro questi roghi. Tra i massimi responsabili della deforestazione figurano l'impresa Hidrovias do Brasil e la finanziaria Patria Investimentos, che puntano alla costruzione di una gigantesca autostrada e di un porto per facilitare l'esportazione di soia. E investigando i veri proprietari di entrambe si arriva al gruppo Blackstone il cui cofondatore e direttore generale è Stephen Schwarzman, grande amico di Donald Trump. Insieme alla popolarità di Moro, anche quella di Jair Bolsonaro sta colando a picco. Nei mesi scorsi gli studenti sono scesi in piazza a più riprese contro i suoi tagli all'istruzione, ampi strati di lavoratori hanno aderito allo sciopero generale contro la sua riforma pensionistica, le sue dichiarazioni omofobe sono state condannate da tre milioni di persone nel corso del Gay Pride di São Paulo, il movimento indigeno ha manifestato contro la sua "politica genocida" e decine di migliaia di donne si sono mobilitate nella tradizionale Marcha das Margaridas per ripudiare le sue affermazioni misogine. La liberazione di Lula avviene dunque in un momento di risveglio della combattività popolare. All'indomani della scarcerazione, parlando dalla sede del sindacato dei metalmeccanici di São Paulo davanti a una grande folla, l'ex presidente ha detto di sentirsi come un "leone", pronto a lottare contro Bolsonaro e contro la politica economica del suo ministro Paulo Guedes, un neoliberista che collaborò in Cile con la dittatura di Pinochet. Quanto a Trump, Lula lo ha invitato con tono colorito a occuparsi dei problemi dei suoi concittadini lasciando in pace i latinoamericani, dal momento che "non è stato eletto per essere lo sceriffo del mondo". 9/11/2019 |
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Uruguay, verso il ballottaggio Per conoscere il nome del nuovo presidente uruguayano bisognerà attendere il secondo turno: il 27 ottobre Daniel Martínez, della coalizione di centrosinistra Frente Amplio, pur avendo ottenuto la maggioranza dei voti si è fermato al 39,2%. Martínez, esponente del Partido Socialista ed ex intendente (sindaco) di Montevideo, propone la continuazione di un modello che in quindici anni ha migliorato la situazione socioeconomica del paese, aumentando di oltre il 55% il salario reale e diminuendo la povertà dal 40 all'8%, e ha introdotto importanti innovazioni in materia di diritti civili (legalizzazione dell'aborto, matrimonio egualitario, legislazione a favore delle persone transessuali, regolamentazione della produzione e del commercio della marijuana) e di diritti del lavoro (normativa sulla giornata lavorativa dei braccianti e tutela delle lavoratrici domestiche). Progressi che si vedono ora minacciati da un'eventuale vittoria del conservatore Luis Lacalle Pou, del Partido Nacional. Lacalle, che il 24 novembre sarà l'avversario di Martínez, al primo turno ha ottenuto il 28,6% dei suffragi, ma al ballottaggio potrà contare sull'appoggio del terzo e del quarto classificato, l'economista neoliberista Ernesto Talvi del Partido Colorado (12,3%) e l'ex comandante in capo dell'esercito Guido Manini Ríos, del movimento di estrema destra Cabildo Abierto (10,9%). Un panorama complicato per il candidato del Frente, che deve fronteggiare un diffuso malcontento per la stagnazione economica, l'opposizione dei grandi media e la presenza sempre più rilevante delle sette evangeliche. La coalizione inoltre ha perso in queste elezioni la maggioranza parlamentare con cui aveva governato prima con Tabaré Vázquez, poi con José Mujica e di nuovo con Tabaré Vázquez. Il Frente infatti ha conquistato solo 42 deputati (su 99) e 13 senatori (su 31). Ancora più preoccupante la possibilità di una definitiva battuta d'arresto in materia di diritti umani. Come ha sottolineato nel corso di un'intervista radiofonica Macarena Gelman, nipote del poeta argentino Juan Gelman e figlia di desaparecidos, "le politiche dei governi che non appartenevano al Frente Amplio hanno sempre bloccato la ricerca degli scomparsi". Con la Ley de Caducidad tuttora in vigore (neanche il Frente è riuscito a derogarla), le alte gerarchie militari continuano a osservare il patto del silenzio. Un convinto difensore dell'impunità è proprio Manini Ríos: in marzo venne destituito dal presidente Tabaré Vázquez per non aver denunciato alla giustizia la confessione, resa davanti al Tribunale d'Onore dell'Esercito, del repressore José Gavazzo, che nel 1973 aveva fatto scomparire il corpo del guerrigliero tupamaro Roberto Gomensoro gettandolo nel Río Negro. Nella stessa giornata elettorale gli uruguayani erano chiamati a decidere su una riforma costituzionale, promossa dal senatore del Partido Nacional Jorge Larrañaga, che prevedeva tra l'altro l'impiego di duemila militari nelle strade con compiti di pubblica sicurezza. Il referendum non ha raggiunto il quorum richiesto, ottenendo solo il 46% dei voti. 29/10/2019 |
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L'elettorato argentino licenzia Mauricio Macri Il 27 ottobre l'Argentina ha voltato pagina, abbandonando il fallimentare modello neoliberista di Mauricio Macri e della sua coalizione Cambiemos per scegliere come presidente Alberto Fernández, del Frente de Todos, accompagnato alla vicepresidenza da Cristina Fernández. La presenza di quest'ultima ha contribuito potentemente al successo della formula. Lasciata la presidenza dopo due mandati con un'ampia popolarità, Cristina in maggio aveva fatto un passo indietro proponendo per la massima carica dello Stato un personaggio più moderato, con l'obiettivo di costruire un ampio fronte contro il macrismo. Scommessa riuscita: nel Frente de Todos sono confluiti diversi settori del peronismo, il Frente Renovador di Sergio Massa, Proyecto Sur di Pino Solanas, Somos di Victoria Donda, partiti e movimenti di ispirazione radicale e socialista. E Alberto ha vinto al primo turno con il 48% (per evitare il ballottaggio la legge prescrive che il candidato abbia ottenuto almeno il 45% dei voti), contro il 40,4 del presidente in carica. Al terzo posto si è classificato Roberto Lavagna, di Consenso Federal, con il 6,2%. Nella stessa giornata Cambiemos ha perso anche la provincia di Buenos Aires, la più popolosa del paese, dove la governatrice María Eugenia Vidal è stata sconfitta da Axel Kicillof, ex ministro dell'Economia nel secondo governo di Cristina Fernández. Il presidente eletto, che si insedierà il 10 dicembre, è già stato ricevuto da Mauricio Macri con cui ha discusso i termini della transizione. Ma "l'irresponsabilità politica, che si estende al disordine nella gestione economica, non abbandona il governo Macri neppure negli ultimi giorni - scrive Alfredo Zaiat su Página/12 - Dietro il marketing delle buone maniere con invito al dialogo nel corso di una colazione e dietro l'indulgenza della stampa asservita, l'alleanza Cambiemos ha utilizzato milionarie risorse in pesos e in dollari dello Stato per una strategia elettorale nella quale è stata sconfitta. Il conto della campagna politica più cara della storia delle elezioni in Argentina sarà pagata con una crisi di grandi proporzioni, che dovrà essere affrontata dal governo di Alberto Fernández-Cristina Fernández de Kirchner". 29/10/2019 |
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Colombia, alle amministrative sconfitta per Uribe Il 27 ottobre si è votato per rinnovare le amministrazioni locali. La nuova sindaca di Bogotá è l'indipendente Claudia López, femminista e lesbica, nota per la sua battaglia anticorruzione e per la sua denuncia del paramilitarismo. Anche a Cartagena ha vinto la lotta alla corruzione, con William Jorge Dau e il suo movimento civico. Due ex combattenti delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, Guillermo Torres ed Edgardo Figueroa, hanno conquistato i municipi di Turbaco e Puerto Caicedo. Il grande sconfitto di questa giornata elettorale è Alvaro Uribe Vélez. Il suo partito, il Centro Democrático (cui appartiene l'attuale capo dello Stato, Iván Duque), è stato battuto non solo a Bogotá, ma anche a Medellín, Cali, Bucaramanga, Santa Marta, Cúcuta, Montería, César, Boyacá, Manizalez e Caquetá. Decisamente un periodo nero per l'ex presidente, che in questi stessi giorni è chiamato a difendersi davanti alla Corte Suprema de Justicia. Accusato dal senatore Iván Cepeda, del Polo Democrático Alternativo, di coinvolgimento nella creazione e nell'attività criminale dei gruppi paramilitari, Uribe aveva denunciato l'avversario, sostenendo che le testimonianze contro di lui erano state costruite appositamente per incastrarlo. Ma la Corte ha deciso di non procedere contro Cepeda e di accusare invece Uribe di aver esercitato pressioni sui testimoni per ottenere dichiarazioni a suo favore. Il voto del 27 ottobre si è svolto in una relativa calma, ma la campagna elettorale era stata segnata da episodi di violenza. Il più grave: l'assassinio di Karina García Sierra, candidata liberale al comune di Suárez, uccisa insieme alle cinque persone che la accompagnavano. Continua anche la strage di attivisti sociali: in luglio, nel municipio di El Copey, era stata colpita a morte da due killer Tatiana Posso Espitia, "impegnata nell'aiuto umanitario a persone vulnerabili e vittime del conflitto armato", come afferma un comunicato della Red Nacional en Democracia y Paz. E la pace è ancora lontana. In un video diffuso in rete a fine agosto Iván Márquez, ex numero due della disciolta guerriglia delle Farc, aveva annunciato la decisione di riprendere le armi. "È cominciata la seconda Marquetalia - aveva dichiarato Márquez riferendosi al luogo che fu la culla della ribellione - sotto la tutela del diritto universale, che assiste tutti i popoli del mondo, di alzarsi in armi contro l'oppressione". A Márquez si erano aggiunti altri due ex comandanti guerriglieri: Jesús Santrich ed Hernán Darío Velásquez El Paisa. 28/10/2019 |
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Bolivia, Evo Morales rieletto presidente Dopo un lungo e contrastato scrutinio delle schede, Evo Morales è stato riconosciuto vincitore delle presidenziali di domenica 20. Secondo i dati del Tribunal Supremo Electoral, Morales ha ottenuto il 47% dei suffragi contro il 36,5 di Carlos Mesa, candidato di Comunidad Ciudadana. La legge elettorale stabilisce che vince al primo turno chi ottiene il 50% più uno dei voti o raggiunge il 40%, ma con una differenza di almeno dieci punti rispetto al secondo. L'opposizione di destra non accetta però la sconfitta e continua a gridare ai brogli: attraverso blocchi stradali, assalti alle sedi dei tribunali elettorali locali, incendi e distruzioni di schede cerca di rovesciare con la forza il verdetto delle urne. È in atto un tentativo di colpo di Stato, ha denunciato Morales, appellandosi agli organismi internazionali perché difendano la democrazia boliviana. Il 23 ottobre migliaia di persone hanno manifestato nel centro di La Paz il proprio sostegno al capo dello Stato. A favore delle richieste degli oppositori si è schierata invece l'Organización de los Estados Americanos, che ha chiesto comunque la realizzazione del ballottaggio adducendo mancanza di trasparenza e di imparzialità nelle operazioni di voto (posizione condivisa dall'Unione Europea). L'elettorato ha dunque rinnovato la sua fiducia a Morales, che nei suoi primi tre mandati ha ottenuto importanti progressi in campo economico e sociale. Nell'ultimo decennio la Bolivia è il paese latinoamericano che ha registrato la maggiore crescita. E questa ha beneficiato non una ristretta élite, ma la grande maggioranza della popolazione. Nel 2005 era povero il 60,6% dei boliviani, nel 2018 tale percentuale era scesa al 36,4; nello stesso periodo l'estrema povertà era passata dal 38,2% al 15,2. E dal primo marzo è entrata in vigore la legge che estende l'assistenza sanitaria gratuita anche a quegli strati della popolazione finora esclusi: contadini, lavoratori autonomi, negozianti. Nonostante gli indubbi successi, la popolarità di Evo Morales è apparsa in declino in questi ultimi anni: una conseguenza del'usura degli anni di governo, ma anche del fatto che, come sostiene l'analista Katu Arkonada, "si sono costruiti milioni di consumatori non politicizzati, o meglio, politicizzati dai mezzi di comunicazione, che sono stati sul punto di essere i distruttori del processo di cambiamento boliviano, in maniera simile a quanto avvenuto in Argentina nel 2015". Si spiega così come Mesa, vicepresidente all'epoca di Gonzalo Sánchez de Lozada (responsabile dei massacri durante la Guerra del Gas) e poi presidente dal 2003 al 2005, abbia potuto raccogliere oggi il 36,5% dei voti. E che al terzo posto si sia classificato un personaggio misogino e omofobo come il pastore evangelico Chi Hyun Chung, il "Bolsonaro boliviano". 26/10/2019 |
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Cile, oltre un milione di persone in piazza contro il governo Erano oltre un milione le persone in piazza a Santiago il 25 ottobre, in quella che è subito apparsa come la più grande manifestazione della storia cilena. È stata questa la risposta alla sanguinosa repressione con cui il presidente Piñera ha cercato di soffocare la mobilitazione popolare in corso dal 18 ottobre. Il bilancio è tragico: decine di morti e alcune centinaia di feriti. La decisione delle autorità di dichiarare l'estado de emergencia e di chiamare l'esercito a riportare l'ordine ha mostrato l'intransigenza di un governo che si rifiuta di ascoltare le ragioni dei suoi concittadini. Per la prima volta dal ritorno della democrazia i militari sono tornati a pattugliare le strade e a controllare i punti nevralgici della capitale, dove è stato decretato il coprifuoco (poi esteso a gran parte del paese). Migliaia gli arrestati, mentre crescono le desapariciones e le denunce di torture e di abusi sessuali nei confronti delle persone detenute. Intervistato dal Financial Times, Sebastián Piñera aveva recentemente definito il Cile "una vera oasi in questa America Latina in preda ad agitazioni". La realtà si è incaricata di smentirlo clamorosamente: è bastato l'annuncio dell'ennesimo rincaro del biglietto della già carissima metropolitana di Santiago. La protesta, inizialmente limitata al costo dei trasporti e che vedeva studenti e studentesse come principali protagonisti, si è ben presto trasformata in rivolta contro un sistema economico che - secondo uno studio della Banca Mondiale - fa del Cile insieme al Ruanda uno dei dieci paesi più disuguali al mondo. E questa disuguaglianza è rafforzata da una Costituzione che nelle sue grandi linee è ancora quella imposta da Pinochet. Le mobilitazioni e i cacerolazos si sono intensificati coinvolgendo ampi strati di popolazione e il ritiro dell'aumento del biglietto non è servito a riportare la calma. Non sono mancati incendi, atti di vandalismo e saccheggi che fanno pensare all'opera di provocatori. Piñera, sull'esempio del suo collega ecuadoriano Lenín Moreno, ha attribuito ogni responsabilità all'influenza del castro-madurismo e in modo irresponsabile ha dichiarato: "Siamo in guerra contro un nemico potente e implacabile". In pratica una giustificazione a qualsiasi violenza dei soldati contro manifestanti disarmati. Che hanno comunque mostrato di essere pronti a sfidare il coprifuoco e di non essere disposti a lasciare la piazza. In discussione è il perfetto modello neoliberista impiantato dalla dittatura, che i governi del periodo democratico non hanno modificato. L’acqua, la sanità, l’istruzione, la sicurezza sociale: tutto è privatizzato e per avere accesso a questi beni fondamentali le famiglie sono costrette a indebitarsi pesantemente. Dopo la prima reazione minacciosa, Piñera ha cercato di correre ai ripari convocando una riunione di tutti i partiti politici. Tra le schiere dell'opposizione poche sono state però le adesioni: Frente Amplio, socialisti e comunisti hanno declinato l'invito. E il pacchetto di misure annunciato dal presidente è stato considerato dai dimostranti solo un palliativo. 26/10/2019 |
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Ecuador, vittoria parziale della rivolta popolare Regna una calma tesa in Ecuador dopo l'accordo tra governo e movimento indigeno che ha posto fine, per il momento, a undici giorni di mobilitazioni e di sanguinosa repressione, con il tragico bilancio di otto morti e 1.340 feriti (oltre a migliaia di arrestati). La protesta popolare era stata scatenata all'inizio di ottobre dall'annuncio del decreto esecutivo 883, che togliendo il sussidio ai combustibili e liberalizzandone il prezzo aveva provocato aumenti fino al 123%. Era uno dei provvedimenti imposti al paese dal Fondo Monetario Internazionale, che in marzo aveva concesso un prestito di 4 miliardi e 200 milioni di dollari, di cui 900 milioni già versati: il resto nei prossimi tre anni, condizionato all'osservanza delle draconiane misure pattuite. Il prestito era stato contestato a suo tempo da alcuni economisti, secondo i quali la richiesta rispondeva in realtà a motivi politici. Andrés Arauz, autore (insieme a Mark Weisbrot) del rapporto Obstáculos al crecimiento: El programa del FMI en Ecuador, afferma che "in questo momento non esiste una congiuntura per stabilire trattati di libero commercio, come pretendono gli Stati Uniti. Allora, davanti alla minaccia di un ritorno di governi progressisti, cercano di condizionare la politica economica, basata su modelli neoliberisti". Nel caso ecuadoriano, ribadisce Arauz, "non c'era un'economia in recessione, né la necessità di effettuare questo tipo di accordo con il Fondo Monetario". I primi a sollevarsi contro il rincaro dei combustibili erano stati taxisti e trasportatori, ma ben presto la rivolta si era estesa e aveva coinvolto l'intera popolazione, con mobilitazioni e blocchi stradali in tutto il territorio nazionale. In particolare era scesa in campo la Conaie, la Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador, sfidando l'estado de excepción (la sospensione delle garanzie costituzionali) e poi il coprifuoco decretati dal presidente Moreno. L'8 ottobre un gruppo di manifestanti aveva fatto irruzione nell'edificio dell'Asamblea Nacional, da cui era stato respinto dalla polizia con un fitto lancio di gas lacrimogeni. Il giorno successivo la capitale, abbandonata dal governo che si era trasferito a Guayaquil, era diventata l'epicentro dello sciopero generale promosso da sindacati, movimenti indigeni, collettivi femministi e organizzazioni studentesche. Una protesta corale, in cui la base aveva scavalcato i propri dirigenti. Di fronte alla rivolta generalizzata, Moreno ha colpevolizzato il suo predecessore Rafael Correa e i dirigenti di Revolución Ciudadana, accusati di orchestrare un tentato golpe in alleanza con il presidente venezuelano Maduro. Un tentativo di trovare capri espiatori che non sembra abbia trovato molta presa nella popolazione. Alla fine il capo dello Stato ha dovuto accettare di sedersi al tavolo delle trattative con il movimento indigeno. Il dialogo è stato mediato da rappresentanti di Naciones Unidas Ecuador e della Conferenza Episcopale e ha portato all'abrogazione del famigerato decreto 883. Anche se è stato subito festeggiato come un trionfo, l'accordo raggiunto costituisce una vittoria parziale. Innanzitutto perché prevede l'istituzione immediata di una commissione che proceda all'elaborazione di un nuovo decreto in sostituzione del precedente (e si teme che il governo cerchi di reintrodurre, con altri termini, un provvedimento analogo). Poi perché non si è parlato delle altre misure proposte dall'esecutivo, come l'eliminazione dell'imposta sul reddito e soprattutto una riforma del lavoro che riduce i diritti e apre la strada a licenziamenti di massa nel settore pubblico e alla privatizzazione della sicurezza sociale. E soprattutto esiste in questo scenario un elemento di debolezza: le divergenze tra il movimento indigeno e il correismo, accusato dai primi di aver centrato lo sviluppo del paese sul modello estrattivo. Nel corso delle trattative il presidente della Conaie, Jaime Vargas, ha assecondato il discorso di Moreno sulle responsabilità dei disordini, chiedendo addirittura l'intervento della giustizia contro Correa (posizione contraddetta da un altro dirigente indigeno, Leonidas Iza). il capo dello Stato ha saputo trarre profitto da questa spaccatura dell'opposizione scatenando una persecuzione contro i dirigenti di Revolución Ciudadana: la parlamentare Gabriela Rivadeneira ha dovuto rifugiarsi nell'ambasciata del Messico, mentre l'ex sindaca Alexandra Arce e la prefetta di Pichincha, Paola Pabón, sono state arrestate. 15/10/2019 |
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Venezuela, si prepara l'intervento armato? "Il territorio venezuelano si è trasformata in rifugio, con la compiacenza del regime illegittimo, di organizzazioni terroristiche e di gruppi armati illegali come l'Ejército de Liberación Nacional, Grupos Armados Organizados Residuales e altri - afferma la risoluzione approvata il 23 settembre da sedici dei paesi firmatari del Tiar, il Tratado Interamericano de Asistencia Recíproca. "Il complesso di queste attività criminali - si legge ancora nel documento - associato alla crisi umanitaria generata dal deterioramento della situazione politica, economica e sociale della República Bolivariana de Venezuela rappresenta una minaccia al mantenimento della pace e della sicurezza nel continente". Queste le motivazioni che giustificano, secondo i governi di destra della regione, l'attivazione di un patto difensivo che contempla una serie di reazioni sempre più dure, fino all'intervento armato. Da notare che tra le sedici nazioni figura anche il Venezuela, che pur aveva abbandonato il trattato nel 2012 insieme a Bolivia, Ecuador e Nicaragua, ma che adesso vi è rientrato su istanza del sedicente presidente Guaidó. Sarà sufficiente allora il minimo pretesto – e Maduro ha già denunciato che episodi di provocazione sono in preparazione nella vicina Colombia – per giustificare un’invasione: un attacco a soldati colombiani da parte di mercenari mascherati da militari venezuelani darebbe a Bogotá la scusa per chiedere l’aiuto della potenza statunitense. Le comparse per questa messinscena sono facilmente reperibili: basti pensare ai legami che Guaidó intesse con i narcoparamilitari colombiani. Le fotografie che lo ritraggono in atteggiamento amichevole con i capi de Los Rastrojos, gruppo criminale noto per le sue azioni sanguinarie, mostrano chiaramente quali siano gli alleati dell'autoproclamato presidente. E proprio Los Rastrojos, che controllano parte della frontiera tra Colombia e Venezuela, il 22 febbraio garantirono a Guaidó di attraversare tranquillamente il confine per recarsi a Cúcuta, dove erano stati concentrati gli "aiuti umanitari" in funzione antichavista (lo denuncia il difensore dei diritti umani Wilfredo Cañizares, direttore della colombiana Fundación Progresar). Per ora i sedici paesi hanno deciso di adottare una serie di sanzioni contro quei dirigenti del governo di Caracas che - a loro dire - sono incorsi in attività illecite, corruzione o violazione dei diritti umani. Ma non tutte le nazioni della regione si sono allineate a questa politica ispirata da Washington. Ferma la reazione del Messico, uscito dal Tiar nel 2002, all'invocazione del trattato: in un comunicato il governo di Città del Messico ha affermato di considerare "inaccettabile utilizzare un meccanismo che contempla l’uso della forza militare”, aggiungendo che con questo passo "ci avviciniamo pericolosamente a un punto di non ritorno". E l'Uruguay ha deciso di ritirarsi dal trattato dopo aver votato contro la risoluzione del 23 settembre che, nelle parole del ministro degli Esteri Rodolfo Nin Novoa, "costituisce un gravissimo precedente in materia di diritto internazionale, in particolare per quanto riguarda il principio di soluzione pacifica delle controversie e il principio di non intervento". Ancora prima delle prese di posizione guerrafondaie della destra regionale, gli Stati Uniti avevano aumentato la pressione economica su Caracas. Agli inizi di agosto un ordine esecutivo firmato dal presidente Trump decretava il congelamento di "tutti i beni e gli interessi del governo del Venezuela che si trovano negli Stati Uniti", minacciando di colpire anche le imprese straniere che avessero osato fornire merci e servizi al paese sudamericano. Di fronte a questo ennesimo attacco, rafforzato dalle minacciose dichiarazioni dell'allora consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton (silurato da Trump in settembre), il Venezuela aveva annunciato che non avrebbe inviato alcuna delegazione a Barbados, al nuovo ciclo di colloqui previsto con l'opposizione. Il dialogo era ripreso infatti in maggio, a Oslo, dopo il fallimento dell'azione eversiva del 30 aprile guidata da Guaidó. I contatti non avevano fatto però grandi passi avanti per l'intransigenza degli antichavisti, fermi sulla richiesta della rinuncia di Maduro. E in giugno veniva scoperto un nuovo tentativo di golpe, che si proponeva di assassinare il capo dello Stato per proclamare al suo posto il generale a riposo Raúl Isaías Baduel, attualmente in carcere per corruzione. In luglio il rapporto elaborato dall'Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Michelle Bachelet, dopo la sua visita in Venezuela riconosceva come presidente legittimo Nicolás Maduro, ma accusava il governo di gravi violazioni ai diritti dei cittadini. Il documento "ignora quasi totalmente l'informazione fornita dallo Stato e tiene conto soltanto di quella ottenuta da portavoce dell'opposizione e da fonti di stampa", ribatteva il viceministro degli Esteri William Castillo sottolineando come, su 558 interviste, 460 erano state realizzate fuori dal paese. Ma le speranze di una soluzione pacifica al conflitto in corso non sono completamente svanite. Il 16 settembre Caracas ha annunciato il raggiungimento di un accordo con quattro formazioni politiche dell'opposizione (Mas, Cambiemos, Soluciones para Venezuela e Avanzada Progresista). Tale accordo prevede tra l'altro il ritorno dei deputati del Psuv nell'Asamblea Nacional, la riforma del Consejo Nacional Electoral e la condanna delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Tra i primi segni di distensione la liberazione del vicepresidente della stessa Assemblea, Edgar Zambrano del partito Acción Democrática, che era stato arrestato per aver participato al fallito colpo di Stato del 30 aprile. 25/9/2019 |
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Nuovi attacchi Usa contro l'America Latina Le elezioni statunitensi si avvicinano e Donald Trump ha bisogno di mostrare agli elettori qualche risultato della sua politica muscolare. Si spiegano così i rinnovati attacchi contro quei governi che in America Latina hanno osato rivendicare indipendenza e sovranità. Il primo nemico giurato di Washington è naturalmente Cuba. Nei suoi confronti assistiamo a sempre nuove misure di inasprimento del blocco, con le conseguenti difficoltà di approvvigionamento di alimenti, combustibili, pezzi di ricambio. A questo consueto scenario si aggiunge l’inserimento dell’isola nella peggiore categoria del Rapporto 2019 sulla Tratta delle Persone. Secondo gli Stati Uniti, che si arrogano il diritto di assegnare ogni anno un giudizio sugli sforzi degli altri paesi per combattere questo flagello, l’isola "non compie pienamente con gli standard minimi per l’eliminazione della tratta". Non solo. Il Dipartimento di Stato attacca anche l’aiuto fraterno che, con l’invio di migliaia di medici, l’Avana offre ai paesi in via di sviluppo, curando gratuitamente milioni di persone. Accuse ridicole, che però trovano ampia eco nei media mainstream. Un assedio economico simile a quello che da decenni colpisce Cuba è stato posto in essere contro il Venezuela. Ma l’iniziativa più preoccupante è venuta dall’Organización de los Estados Americanos: l’invocazione - da parte di dodici Stati membri - del Tratado Interamericano de Asistencia Recíproca (Tiar). Uno strumento che apre la strada a misure ancora più pesanti, non escluso l’intervento armato. Sarà sufficiente allora il minimo pretesto - e Maduro ha già denunciato che episodi di provocazione sono in preparazione nella vicina Colombia - per giustificare un’invasione: un attacco a soldati colombiani da parte di mercenari mascherati da militari venezuelani darebbe a Bogotá la scusa per chiedere l’aiuto della potenza statunitense. E le comparse per questa messinscena sono facilmente reperibili: basti pensare ai legami che Juan Guaidó intesse con i narcoparamilitari colombiani. Le fotografie che lo ritraggono in atteggiamento amichevole con i capi de Los Rastrojos, gruppo criminale noto per le sue azioni sanguinarie, mostrano chiaramente quali siano gli alleati del sedicente presidente. Sono chiari dunque gli attori che si muovono sullo scacchiere latinoamericano, in consonanza con il desiderio della Casa Bianca di recuperare il controllo sul Venezuela (e il suo petrolio) e su Cuba, che da sessant’anni si ostina a rappresentare il cattivo esempio per tutta la regione. Per unificare i due obiettivi, niente di meglio che raccontare della presenza di migliaia di militari cubani in territorio venezuelano, a sostegno dell’odiato Nicolás Maduro. Del resto la battaglia politica nel secolo XXI si gioca soprattutto sulla propaganda e le armi preferite sono le fake news. Una "guerra umanitari" può essere accettata dall’opinione pubblica internazionale solo dipingendo i governanti nemici come dittatori sanguinari, che affamano il loro popolo per sete di potere. La risposta non può che essere un’opera paziente di controinformazione e di contrasto alle falsità che giornali, radio e tv non fanno che ripetere. 20/9/2019 |
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Argentina, Mauricio Macri sconfitto alle primarie Alberto Fernández, candidato del Frente de Todos, ha ottenuto un vero e proprio trionfo nelle primarie dell'11 agosto, superando Mauricio Macri di ben 15 punti percentuali. "L'Argentina oggi sta partorendo un altro paese; nel paese di cui parlava Cristina l'unico nostro impegno è far sì che gli argentini recuperino la felicità": queste le prime dichiarazioni di Fernández, che si profila come il probabile vincitore delle presidenziali del 27 ottobre. Ma la situazione che il futuro capo dello Stato erediterà è drammatica, come avevano denunciato a fine luglio i partecipanti alla giornata di lotta contro la fame. Dopo aver attraversato il centro della capitale, centinaia di migliaia di manifestanti erano confluiti in Plaza de la República, dove si innalza l'obelisco simbolo della città; qui era stato organizzato un polentazo per sfamare i tantissimi senzatetto. Le previsioni di una sconfitta del governo in carica hanno acutizzato la crisi economica: all'indomani del clamoroso risultato delle primarie, la Borsa di Buenos Aires ha registrato un crollo di quasi il 38% e la quotazione del dollaro ha toccato i 65 pesos. Pochi giorni dopo il titolare delle Finanze, Nicolás Dujovne, principale negoziatore dell'enorme debito (57 miliardi) con il Fmi, si è dimesso, subito sostituito da Hernán Lacunza. Quest'ultimo si è visto costretto, a fine mese, ad ammettere l'impossibilità di far fronte agli impegni assunti. "Il 28 agosto 2019 sarà ricordato come il giorno in cui il governo Macri riconobbe che, dopo aver guidato il più vertiginoso ciclo di indebitamento della storia argentina, non è in grado di rispettare le scadenze di capitale e interessi alle condizioni pattuite - scrive l'economista Alfredo Zaiat su Página/12 - Il ministro delle Finanze ha informato che ci sarà una ristrutturazione ampia delle scadenze a breve e a lungo termine, compreso il prestito del Fondo Monetario Internazionale". E il titolo del quotidiano così riassume: "Macri si accommiata dichiarando il default del debito". 29/8/2019 |
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Guatemala, il conservatore Giammattei eletto presidente Alejandro Giammattei, un medico di 63 anni candidato della formazione Vamos, è il nuovo presidente eletto del Guatemala. Ha trionfato nel ballottaggio dell’11 agosto superando con un ampio margine la sua avversaria Sandra Torres, del partito Unidad Nacional de la Esperanza, che pure si era piazzata in testa nel primo turno del 16 giugno. A vincere questa tornata è stata però soprattutto l’astensione: su otto milioni di aventi diritto al voto, cinque milioni hanno disertato le urne, a dimostrazione della profonda sfiducia dell’elettorato nella politica. Sfiducia accresciuta dai sospetti brogli registrati nel voto di giugno: la formazione contadina Movimiento para la Liberación de los Pueblos ha dichiarato di non riconoscere i risultati "di fronte all'evidente frode elettorale". Il movimento presentava come candidata presidenziale la leader indigena della comunità mam Thelma Cabrera Pérez, da sempre attiva nella difesa dei diritti umani e della Pachamama. Ancora prima delle consultazioni era stata esclusa dalla competizione l'ex procuratrice Thelma Aldana, del Movimiento Semilla, che era data per favorita. Il motivo dell'esclusione: presunte irregolarità nello svolgimento delle sue funzioni, un'accusa che l'ha costretta a rifugiarsi all'estero. Aldana aveva ricevuto riconoscimenti internazionali per la sua lotta contro la criminalità organizzata in collaborazione con la Comisión Internacional Contra la Impunidad en Guatemala (Cicig) e il suo operato era stato fondamentale per portare in carcere l'ex presidente Otto Pérez Molina e la sua vice, Roxana Baldetti. Giammattei, che prenderà possesso della carica nel gennaio 2020, è un convinto conservatore, fautore della pena di morte e contrario all’aborto e ai matrimoni omosessuali. Ha ottenuto la vittoria promettendo lotta dura contro la corruzione, dopo gli scandali che hanno caratterizzato la presidenza del suo predecessore, Jimmy Morales. Il nuovo capo dello Stato diresse, dal 2005 al 2007, il sistema penitenziario. Durante la sua gestione, nel 2006, un nutrito contingente di poliziotti e soldati fu incaricato di riportare l’ordine nel carcere di Pavón, che era passato sotto il controllo dei detenuti. L’operazione portò alla morte di sette reclusi: una vera e propria esecuzione, come fu provato in seguito. Per questo Giammattei, insieme ad altri funzionari, fu denunciato e incarcerato: tornò in libertà dopo dieci mesi grazie alla chiusura del caso. 12/8/2019 |
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Wanda Vázquez nuova governatrice di Puerto Rico Wanda Vázquez Garced è la nuova governatrice di Puerto Rico. Ha prestato giuramento il 7 agosto, dopo che il Tribunale Supremo all’unanimità aveva dichiarato incostituzionale la nomina di Pedro Pierluisi, il successore designato da Ricardo Rosselló. È il terzo cambiamento, in meno di un mese, al vertice dell’isola. Rosselló era stato costretto ad annunciare le dimissioni il 25 luglio, in seguito alla diffusione delle sue chat con alcuni stretti collaboratori: in queste conversazioni venivano espressi giudizi pesantemente omofobi e sessisti e ci si burlava delle vittime dell’uragano María, che nel 2017 aveva devastato il paese provocando quasi 3.000 morti. Le chat avevano inoltre messo a nudo casi di appropriazione indebita di fondi pubblici da parte di alti funzionari dell’amministrazione. Le rivelazioni avevano suscitato l’indignazione popolare: per due settimane migliaia di persone avevano riempito le piazze, chiedendo a gran voce la rinuncia del governatore. Alle proteste avevano partecipato artisti di fama internazionale, come il cantante Ricky Martin e l’attore Benicio del Toro. Anche Wanda Vázquez, che come Rosselló fa parte del Partido Nuevo Progresista (formazione di destra), non è immune da critiche: come segretaria del Dipartimento della Giustizia si sarebbe rifiutata di indagare su sospetti episodi di corruzione nella distribuzione degli aiuti alla popolazione colpita dall’uragano. Le manifestazioni di luglio non hanno comunque messo in discussione lo statuto di Puerto Rico, la sua condizione di Estado Libre Asociado in base alla quale gli abitanti sono cittadini statunitensi di serie B: possono entrare senza necessità di visto negli Stati Uniti e naturalmente servire nell'esercito, ma non hanno voce né voto nel Congresso e non partecipano all'elezione del presidente. L'isola soffre da tempo di una grave crisi economica: il suo reddito annuale medio è di 19.775 dollari, contro i 42.009 del pur povero Mississippi. Con due referendum (nel 2012 e nel 2017) i portoricani hanno chiesto la trasformazione del loro paese nel 51° Stato dell'Unione. Ma questo non rientra certo nei piani nordamericani, specie in considerazione dell'attuale ondata di razzismo verso la componente ispanica. Washington d'altra parte si è sempre opposta con violenza alle aspirazioni indipendentiste, per ora minoritarie, non intendendo rinunciare a un territorio di grande importanza strategica per il controllo militare sui Caraibi. 8/8/2019 |
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Plan Cóndor, 24 ergastoli al processo d'appello 24 condanne all'ergastolo. Così si è concluso a Roma il processo d'appello contro altrettanti ex militari e politici che, nell'ambito del Plan Cóndor (il coordinamento tra le dittature del Cono Sur negli anni Settanta), sequestrarono, torturarono e fecero scomparire 43 oppositori: sei argentini, quattro cileni e 33 uruguayani. I condannati dovranno anche pagare le spese del giudizio e risarcire i familiari delle vittime. "Finalmente una sentenza che ci rende davvero giustizia", ha commentato María Paz Venturelli, figlia dell'ex sacerdote e docente universitario cileno Omar Venturelli Leonelli, desaparecido nel 1973. E Néstor Gómez, fratello di Celica Elida Gómez Rosano che venne sequestrata nel 1978 mentre lavorava presso l'agenzia argentina di notizie Telam, ha affermato: "È stato un grande sollievo per noi sapere che per una volta le cose sono state prese seriamente e non sono stati lasciati liberi i militari. La sentenza precedente ci aveva demoralizzato". Il primo grado di giudizio, nel 2017, si era concluso con otto condanne e ben diciannove assoluzioni. I condannati sono sette cileni, tredici uruguayani, un boliviano e tre peruviani: alcuni di essi sono già detenuti in patria per altri reati. Già due anni fa non era stato possibile procedere contro sei imputati perché morti nel frattempo. Altri otto repressori sono deceduti prima della sentenza d'appello. Come nel 2017 l'unico a comparire in aula è stato Jorge Néstor Troccoli, che aveva sperato di sfuggire alla giustizia uruguayana riparando nel nostro paese e sfruttando la sua cittadinanza italiana. Assolto in primo grado, questa volta è stato riconosciuto colpevole e l'unica speranza che gli resta per evitare il carcere a vita è il ricorso in Cassazione. Al procedimento ha assistito il viceministro boliviano Diego Jiménez che, intervistato da Página/12, ha ribadito la convinzione che il Plan Cóndor sia ancora attivo nel continente: "Crediamo che le forze reazionarie che sono presenti in America Latina, privilegiando gli interessi dell'imperialismo nordamericano, non abbiano cessato la loro attività, nonostante ci siano stati progressi da parte di molti paesi che hanno avuto governi progressisti. In America del Sud oggi c'è una corrente molto aggressiva, molto calunniatrice e nemica dei processi sociali. E questo significa che i livelli di coordinamento sono ancora lì. Per questo processi simili, che rinfrescano la memoria di quanto è avvenuto, sono importanti. Non possiamo permettere che accada di nuovo. Le nuove generazioni devono capire tutto il male provocato dai governi dittatoriali". 8/7/2019 |
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Honduras, dieci anni fa il golpe In un Honduras militarizzato è stato ricordato, il 28 giugno, il decimo anniversario del golpe che - con il sostegno degli Stati Uniti - depose il legittimo presidente Manuel Zelaya. Come spiega in un'intervista a Página/12 Xiomara Castro, nel 2013 candidata presidenziale dell'opposizione, da allora "hanno approfondito sempre più un modello neoliberista che ha privatizzato tutti i servizi pubblici, le risorse naturali e adesso vogliono privatizzare anche salute ed educazione. E a partire da questo si è stabilita una dittatura dove non c'è diritto di protesta, dove possono entrare nella tua casa senza un ordine giudiziario, sequestrarti i beni, arrestarti. Sei colpevole finché non dimostri il contrario. Dunque il paese e il popolo sono totalmente indifesi". Sfidando il grande spiegamento di forze la gente è scesa in piazza contro il presidente Juan Orlando Hernández, al potere grazie ai clamorosi brogli elettorali del 2013 e del 2017 e con forti legami con il traffico di droga (il fratello Juan Antonio Hernández è in carcere negli Usa, accusato di essere a capo di una rete di narcotrafficanti). A Tegucigalpa i manifestanti si sono concentrati a migliaia nel Parque Central, dove si è tenuto anche un concerto. In precedenza le forze di sicurezza avevano impedito l'omaggio alle vittime del colpo di Stato, programmato dal Partido Libertad y Refundación (Libre) nella piazza Isis Obed Murillo, intitolata a un ragazzo ucciso nel 2009. A San Pedro Sula si sono verificati scontri con la polizia, intervenuta per rimuovere le barricate erette dai manifestanti. Massicce proteste contro il presidente Hernández erano avvenute anche in gennaio, nel primo anniversario dell'insediamento del capo dello Stato per il suo secondo mandato, quando i cosiddetti chalecos rojos avevano bloccato le principali arterie del paese al grido di Fuera JOH, Fuera Dictadura. Alla fine di aprile maestri, studenti, medici e infermieri avevano dato vita a imponenti manifestazioni contro le riforme che aprivano la strada alla privatizzazione di sanità e istruzione. Cortei, assemblee, scioperi e blocchi stradali erano continuati per tutto il mese di maggio. In giugno agli insegnanti e ai medici in lotta si erano aggiunti i taxisti e altri lavoratori del settore trasporti e in seguito anche gli agenti di polizia, cosa che aveva costretto il governo a ricorrere all'esercito. Il bilancio di questi mesi di repressione è di diversi morti. Decine i feriti; tra questi gli studenti colpiti dai proiettili della polizia militare, entrata il 24 giugno nel campus dell'Universidad Autónoma de Honduras violando l'autonomia universitaria. 29/6/2019 |
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Colombia, 700 dirigenti sociali assassinati dal 2016 Un video drammatico sta facendo il giro delle reti sociali colombiane. Mostra il cadavere di María del Pilar Hurtado, assassinata la mattina del 21 giugno a Tierralta, nel dipartimento di Córdoba. Accanto al corpo della madre uno dei figli, di dodici anni, urla disperato. Giorni prima Hurtado aveva denunciato di essere stata minacciata dai paramilitari delle Autodefensas Gaitanistas de Colombia. Faceva parte di un gruppo di senzatetto che si erano insediati su alcuni terreni per costruirvi le proprie case e aveva condotto le trattative con i proprietari: questo l'aveva esposta come leader comunitaria. Secondo il senatore Iván Cepeda, del Polo Democrático Alternativo, "stiamo assistendo a un'azione sistematica per frustrare il processo di pace e le riforme e i cambiamenti che porta con sé". I numeri parlano chiaro: dopo la firma degli accordi tra governo e Farc nel novembre 2016, sono stati assassinati almeno 700 dirigenti sociali. Il presidente Duque fin dall'inizio si è dichiarato ostile alla pace e in marzo ha annunciato una serie di proposte volte a modificare la giurisdizione speciale creata per giudicare i crimini commessi durante il conflitto. Tra i punti contestati dal capo dello Stato, quello relativo all'estradizione di persone per reati successivi agli accordi. Una questione che riguarda in particolare l'ex comandante delle Farc Jesús Santrich, arrestato nell'aprile 2018 e accusato dagli Stati Uniti di narcotraffico. Santrich è tornato in libertà a fine maggio su ordine della Corte Suprema de Justicia, che gli ha riconosciuto l'immunità come parlamentare, e in giugno ha potuto occupare il suo seggio nel Congresso. Su di lui pende però il mandato di cattura internazionale emesso dagli Usa. La persecuzione giudiziaria contro Santrich ha contribuito ad approfondire la spaccatura all'interno del partito nato dalle Farc, la Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común. L'ex comandante guerrigliero Iván Márquez ha affermato in maggio che "è stato un grave errore aver consegnato le armi a uno Stato menzognero, confidando nella buona fede della controparte". Per queste ragioni Márquez ha rinunciato al suo seggio di senatore e ha fatto perdere le sue tracce. Fredda la risposta del leader della formazione, Rodrigo Londoño: "Che un piccolo gruppo di ex comandanti dell'organizzazione affermi ora che fu uno sbaglio tener fede alla nostra parola significa solo che individualmente rinnegano le grandi decisioni adottate dal collettivo". In queste condizioni, ha aggiunto Londoño, "con profondo rammarico devo riconoscere la necessità di prendere le distanze". Le preoccupazioni per i continui attacchi alla pace da parte del governo Duque sono in realtà pienamente giustificate. Oltre cinquanta persone sono rimaste ferite nella violenta repressione contro la Minga por la Defensa de la Vida, el Territorio, la Democracia, la Justicia y la Paz, lanciata in marzo nel dipartimento di Valle del Cauca. La mobilitazione indigena chiedeva il compimento degli accordi sottoscritti dallo Stato con le comunità locali e la fine delle ripetute aggressioni da parte di forze armate e gruppi paramilitari. Il 21 marzo uno scoppio in un villaggio, dove si stava tenendo una riunione in appoggio alla protesta, ha provocato otto morti. Le autorità hanno respinto la tesi dell'attentato cercando di addossare la colpa alle stesse vittime, che avrebbero maneggiato incautamente materiale esplosivo. E a conferma delle posizioni di Duque, degno erede di Alvaro Uribe, le promozioni concesse agli inizi di giugno ai vertici militari. Compreso quel generale Nicacio de Jesús Martínez Espinel che il New York Times di maggio indicava come il promotore di una riedizione dei "falsi positivi", l'uccisione di civili inermi presentati come guerriglieri caduti in combattimento, al fine di ottenere riconoscimenti e premi in denaro (l'autore dell'articolo era stato poi costretto a lasciare il paese per le minacce ricevute da settori del Centro Democrático, il partito di governo). Del resto il generale Martínez conosce bene questa pratica: come riporta il quotidiano spagnolo El País, tra il 2004 e il 2006 comandò una brigata accusata di aver perpetrato almeno 283 esecuzioni sommarie. Ma tutto questo non ha impedito il voto favorevole del Senato al suo avanzamento, con il plauso incondizionato del capo dello Stato. 23/6/2019 |
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La scomparsa di Marta Harnecker Marta Harnecker "ha continuato il lavoro iniziato da Marx senza timore di arricchirlo, tenendo permanentemente conto delle novità nella realtà del mondo, del capitalismo, dell’imperialismo, delle lotte, rinnovando in tal modo i concetti, le proposte teoriche e quelle relative alle strategie d’azione". Così scriveva nel 2009 l'economista egiziano Samir Amin, aggiungendo che Harnecker "ha aiutato a dare al marxismo quella dimensione universale che deve essere sua; ha fatto sì che fosse udito dalla grande maggioranza dei popoli del mondo, che sono quelli dei tre continenti. È riuscita a far uscire il marxismo da una chiusura eurocentrica mortale". La grande intellettuale cilena si è spenta il 15 giugno a Vancouver, in Canada. Nata a Santiago nel 1937 da una famiglia di origine austriaca, negli anni Sessanta Harnecker studiò a Parigi sotto la guida di Louis Althusser. Tornata in patria, insegnò Materialismo Storico ed Economia Politica presso l’Universidad de Chile, diresse il settimanale Chile Hoy e collaborò con il governo di Salvador Allende. Esiliata a Cuba in seguito al golpe di Pinochet, divenne direttrice del Centro de Investigaciones "Memoria Popular Latinoamericana" dell’Avana. Dopo la Rivoluzione Bolivariana fu consigliera del presidente Hugo Chávez e fece parte della direzione del Centro Internacional Miranda a Caracas. Era membro della Red de Intelectuales y Artistas en Defensa de la Humanidad, il movimento nato nel 2003 per opporsi a ogni forma di dominazione ed esclusione. Sono oltre ottanta gli scritti di Marta Harnecker, a cominciare dal libro Conceptos elementales del materialismo histórico (1969), che ha visto innumerevoli edizioni; molti militanti di sinistra del continente si formarono su quelle pagine. Ricordiamo poi: El capital: conceptos fundamentales (1971), Cuba: ¿dictadura o democracia? (1975), Pueblos en armas (1983), La revolución social (Lenin y América Latina) (1985), ¿Qué es la sociedad? (1986), Indígenas, cristianos y estudiantes en la revolución (1987), América Latina: Izquierda y crisis actual (1990), Haciendo camino al andar (1995), Haciendo posible lo imposible: La izquierda en el umbral del siglo XXI (1999), Reconstruyendo la izquierda (2006), Un mundo a construir (nuevos caminos) (2013). Per quest’ultima opera Harnecker intervistò oltre cento dirigenti politici e sociali latinoamericani e fu insignita a Caracas del Premio Libertador al Pensamiento Crítico. 16/6/2019 |
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Messico, la destra internazionale all'attacco di López Obrador Sono passati solo sei mesi dall'inizio della presidenza di Andrés Manuel López Obrador, ma la destra internazionale lo sta già dipingendo come un leader antidemocratico, preparando gli strumenti mediatici per minarne la credibilità. In prima fila in questa campagna denigratoria lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa che agli inizi di giugno, in un articolo sul quotidiano spagnolo El País, lo definisce "un dirigente impregnato di populismo" e sostiene che gli intellettuali messicani avvertono in lui "la presenza del caudillo tradizionale latinoamericano, volontaristico e dispotico che, proprio perché è molto popolare, si crede al disopra delle leggi e delle regole democratiche". Mostrando di ignorare i clamorosi brogli che hanno contrassegnato le elezioni messicane da Salinas in poi, Vargas Llosa aggiunge: "i governi di questi ultimi decenni sono stati eletti in consultazioni genuine e la loro politica internazionale ha corrisposto in questi anni a quella del cosiddetto Grupo de Lima". Il Messico di Amlo invece se ne è differenziato, non riconoscendo l'autoproclamato Guaidó come legittimo presidente venezuelano e adoperandosi per una soluzione politica alla crisi del paese. Una posizione di neutralità che lo scrittore liquida con disprezzo: "come se si potesse essere neutrali davanti alla peste bubbonica". Questo intervento non fa che fornire la base ideologica agli attacchi degli ambienti più conservatori, legati ai vecchi governi e alla loro politica neoliberista. Al fronte di questa opposizione, che chiede la rinuncia di López Obrador, si sono posti gli ex presidenti Fox e Calderón. Nei cortei, che non hanno visto finora una grande partecipazione, non sono mancati slogan razzisti e la composizione sociale (in gran parte classe medio-alta) ricorda quella delle mobilitazioni in Brasile contro Dilma Rousseff prima del golpe del 2016 o quella del Venezuela antichavista. Tra i motivi delle proteste spiccano, curiosamente, l'insicurezza e la violenza. I manifestanti sembrano aver dimenticato che nel 2017, in pieno governo Peña Nieto, un rapporto dell'International Institute for Strategic Studies di Londra segnalava il Messico come la nazione più violenta al mondo dopo la Siria. Una pesante eredità delle precedenti amministrazioni, che ha alla base miseria e disuguaglianza, aggravate da corruzione e impunità. Nell'ambito della guerra alla corruzione il governo si è posto come primo obiettivo quello di porre un freno al furto di combustibile, detto huachicoleo, che con la complicità di alti funzionari di Pemex ha procurato all'impresa statale perdite miliardarie. Sempre collegate a Pemex sono le accuse all'ex direttore generale Emilio Lozoya, che avrebbe ricevuto cospicue tangenti in cambio di appalti alle costruttrici Odebrecht e Ohl. L'attenzione posta sulla compagnia petrolifera rientra nel proposito di López Obrador di recuperare l'indipendenza energetica e la sovranità sulle risorse del paese. Un caso emblematico di lotta all'impunità è quello dell'ex governatore priista dello Stato di Puebla, Mario Marín, raggiunto da un mandato di cattura. Marín è accusato di arresto arbitrario e tortura nei confronti della giornalista Lydia Cacho, che nel 2005 aveva denunciato una rete internazionale di pedofili in cui erano coinvolti personaggi eccellenti. Ai familiari dei 40.000 desaparecidos il presidente ha promesso che il Sistema Nacional de Búsqueda de Personas, recentemente rilanciato, sarà dotato di ampie risorse e che ogni tre mesi verranno valutati i progressi della ricerca. Il primo passo sarà l'identificazione degli oltre 26.000 cadaveri senza nome finora rinvenuti e che non trovano più posto negli obitori. "Mai più situazioni tanto deplorevoli come tenere i corpi in rimorchi, in camion - ha dichiarato Amlo - È dantesco e inumano". Per combattere la violenza si punta sulla Guardia Nacional: una decisione controversa, condannata da alcuni organismi per i diritti umani che vedono con preoccupazione il crescente protagonismo delle forze armate nel nuovo governo. La battaglia si preannuncia lunga perché criminalità organizzata e gruppi paramilitari continuano a colpire. I bersagli preferiti sono i giornalisti (già dieci morti negli ultimi sei mesi) e i leader comunitari che difendono l'ambiente e il territorio. Il numero maggiore di vittime si registra in Guerrero, dove si susseguono gli attacchi armati ai villaggi della Montaña Baja nell'ambito dello scontro tra bande rivali, e in Chiapas, dove molti dirigenti sociali sono stati assassinati dall'inizio dell'anno: tra questi Estelina López Gómez, dell'organizzazione Luz y Fuerza del Pueblo. Forti proteste a livello nazionale ha suscitato l'uccisione in Morelos di Samir Flores Soberanes, che attraverso Radio Amiltzinko si opponeva alla costruzione della centrale termoelettrica di Huexca. Il suo omicidio è avvenuto proprio alla vigilia di una consultazione popolare sul progetto promossa dal governo federale: i sì hanno prevalso, ma l'avversione della comunità locale si è manifestata nella massiccia astensione. Tra i provvedimenti accolti con favore dall'opinione pubblica vi è l'amnistia ai prigionieri politici (ambientalisti, attivisti contro la riforma dell'educazione di Peña Nieto, ecc.): sedici sono stati liberati in gennaio, altre decine sono in attesa della revisione dei loro casi. E in marzo López Obrador ha annunciato la declassificazione dei documenti dei servizi d'informazione presenti nell'Archivo General de la Nación, oggi ospitato nell'ex carcere di Lecumberri. Un'imponente mole di dati sulla vita, le idee, l'attività di esponenti della cultura, dell'arte, della politica (Amlo compreso), che abbraccia quasi novant'anni di storia messicana. "Non rimarrà più alcun archivio segreto": questa la decisione del capo dello Stato. Sulla questione dei migranti, agli inizi di giugno Amlo ha dovuto cedere al ricatto di Trump, che aveva annunciato l'introduzione di dazi sui prodotti messicani se non si fosse posto un freno al passaggio dei tanti disperati che dal Centro America cercano di raggiungere gli Stati Uniti. La minaccia Usa aveva fatto crollare il peso e la borsa di Città del Messico e López Obrador si è visto costretto a rafforzare i controlli alla frontiera sud, schierando seimila effettivi della Guardia Nacional. Da parte di Washington non sono state prese in considerazione le proposte alternative avanzate dal governo di López Obrador per diminuire il flusso migratorio: un Piano di Sviluppo Integrale rivolto a El Salvador, Guatemala, Honduras e regioni meridionali del Messico, o la cancellazione dell'Iniciativa Mérida di cooperazione militare contro il narcotraffico, per impiegare quelle risorse nella creazione di attività produttive e posti di lavoro. 12/6/2019 |
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Dieci anni fa il "no" di Cuba all'Oea Dieci anni fa, esattamente il 3 giugno 2009, con un gesto di dignità Cuba rifiutava l’offerta di rientrare in seno all’Organización de los Estados Americanos, da cui era stata cacciata nel 1962 per volere degli Stati Uniti. Questa offerta "non modifica per nulla ciò che Cuba pensava ieri, l’altro ieri e oggi", affermava l’allora presidente dell’Asamblea Nacional del Poder Popular, Ricardo Alarcón, che comunque definiva "una grande vittoria" la decisione dell’Organizzazione di riaprire le porte al governo dell’Avana. Una vittoria perché sanciva il ribaltamento dello scenario regionale, in cui Cuba non era più isolata: era stata infatti la maggioranza dei paesi latinoamericani a premere sugli Usa per far dichiarare "senza effetto" la risoluzione del 1962. Ad apparire isolata era questa volta la posizione statunitense. Tanto è vero che l’anno successivo veniva creata la Celac, la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños che raggruppava tutti i paesi del continente a eccezione di Canada e Stati Uniti. La riunione dell’Oea si era tenuta nella località honduregna di San Pedro Sula ed era stato proprio il presidente del paese ospitante, Manuel Zelaya, a proclamare: "La Guerra Fredda è terminata. Dico al comandante Fidel Castro: oggi la storia ti ha assolto". Ma alla fine di quello stesso mese, il 28 giugno, gli Stati Uniti partivano al contrattacco promuovendo un golpe proprio contro Zelaya. Un golpe di nuovo tipo, in cui a fare il lavoro sporco non erano più le forze armate, ma il Parlamento, la Corte Suprema, i media, tutti uniti contro il tentativo di Zelaya di convocare un’Assemblea Costituente per cambiare i rapporti di forza nel paese, il più povero del Centro America. I militari honduregni si limitavano a sequestrare il capo dello Stato e a metterlo su un aereo diretto in esilio (facendo scalo, guarda caso, nella base Usa di Palmerola). Da allora si susseguivano altri golpe istituzionali, attuati con la regia occulta degli Usa e la complicità delle oligarchie locali: in Paraguay contro Fernando Lugo (2012), in Brasile contro Dilma Rousseff (2016). E in quest’ultimo caso al colpo di Stato seguiva l’arresto e poi la detenzione di Lula, condannato senza prove da quel giudice Sérgio Moro che negli Stati Uniti è di casa: oltre ai suoi frequenti viaggi per ricevere ordini ha partecipato a seminari su temi giuridici promossi dal Dipartimento di Stato. In questo millennio dunque non serve più la School of Americas, che istruiva i militari latinoamericani nelle tecniche di repressione e tortura: meglio insegnare ai magistrati della regione come liberarsi degli oppositori costruendo contro di loro false accuse e distruggendone la reputazione. Lo stesso sistema viene utilizzato in questi giorni in Argentina contro la ex presidente Cristina Fernández, chiamata in giudizio con vari pretesti proprio nell’anno delle elezioni presidenziali. E contro Rafael Correa in Ecuador, al quale Washington non perdona di aver chiuso la base militare di Manta: grazie al clamoroso voltafaccia del suo successore Lenín Moreno, Correa è ora un esiliato politico in Belgio e il vice di Moreno, Jorge Glas, colpevole di non aver voluto seguire le orme del traditore, è in carcere con accuse infamanti. In dieci anni la regione ha cambiato volto e ben poche nazioni si sottraggono oggi al controllo Usa. L’obiettivo della Casa Bianca è adesso rappresentato dal Venezuela e - ancora una volta - da Cuba, il chiodo fisso di ogni amministrazione statunitense, il "cattivo esempio" per tutta l’America Latina. In Venezuela Washington sta tentando di tutto, dal riconoscimento di un presidente fantoccio agli appelli alla Fuerza Armada Nacional Bolivariana perché si rivolti contro Maduro, dal tentativo di introdurre nel paese falsi "aiuti umanitari" al boicottaggio del sistema elettrico e alle pesantissime sanzioni economiche. E a Cuba si rimprovera di aver inviato truppe e di effettuare operazioni militari in appoggio al "dittatore Maduro", pretesto fin troppo scoperto per giustificare un eventuale futuro intervento. 3/6/2019 |
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Argentina, il lawfare come strumento politico Il presidente Macri non riesce più a nascondere la drammatica crisi economica in atto. Proteste, cortei, mobilitazioni si susseguono da mesi contro l'incremento vertiginoso delle tariffe, l'aumento dell'inflazione, la chiusura di piccole e medie industrie, la crescita della povertà e della disoccupazione. E intanto l'Argentina continua a indebitarsi con il Fondo Monetario Internazionale, ponendo una pesante ipoteca sullo sviluppo futuro. L'opposizione alla politica del governo è apparsa chiara nello sciopero generale del 29 maggio, il quinto della gestione Macri e quello che ha mostrato la maggiore forza e compattezza paralizzando tutto il paese. L'astensione dal lavoro ha coinciso con il 50° anniversario del Cordobazo, la rivolta popolare della città di Córdoba durante il regime di Juan Carlos Onganía. Un altro anniversario, il 43° dall'inizio della più sanguinosa dittatura della storia del paese, era stato ricordato il 24 marzo con una grandiosa manifestazione: non solo un omaggio alle decine di migliaia di desaparecidos, ma la riaffermazione della necessità della memoria contro un governo che celebra l'oblio. Intanto l'Argentina è già entrata in pieno clima elettorale. Il primo turno delle presidenziali è fissato per il 27 ottobre, ma Macri è da tempo impegnato in una campagna per la rielezione in cui utilizza l'appoggio di magistrati collusi e organi di stampa complici. L'obiettivo è liberarsi della sua più temibile avversaria, Cristina Fernández, inventando una causa dopo l'altra. Tra le "prove" presentate dagli inquirenti, le fotocopie di alcuni quaderni che sarebbero stati scritti dall'ex autista di un funzionario governativo e che proverebbero episodi di corruzione nella costruzione di opere pubbliche durante le presidenze di Cristina e del marito, Néstor Kirchner. Il fatto che l'autista abbia ammesso di aver distrutto quegli stessi quaderni, e che quindi sia impossibile visionare gli originali, getta molte ombre sulle indagini. Tra i più accaniti persecutori della ex presidente vi è il giudice Claudio Bonadio, chiamato anche "il Sérgio Moro argentino", che non ha mai nascosto la sua ostilità verso l'accusata. La causa più grave riguarda la supposta protezione ai funzionari iraniani sospettati dell'attentato contro la sede dell'Amia, l'Asociación Mutual Israelita Argentina di Buenos Aires, che nel 1994 costò la vita a 85 persone. Nonostante la mancanza di prove, i servizi segreti statunitensi e israeliani puntarono subito il dito contro l'Iran e più volte è stata chiesta la carcerazione preventiva di Cristina Fernández perché il suo governo aveva raggiunto un accordo con Teheran per poter interrogare i presunti colpevoli (l'accordo era stato regolarmente approvato dal Congresso e comunque non entrò mai in vigore). A 25 anni di distanza da quella strage, rimasta impunita, a fine febbraio una sentenza ha comunque messo a nudo le manovre politiche e giudiziarie che permisero allora di sviare le indagini. Tra gli imputati figurava Carlos Menem, capo dello Stato al momento dell'attentato, che avrebbe esercitato pressioni sugli inquirenti perché abbandonassero la pista siria, che puntava verso un cittadino di origine siriana amico di famiglia. Il tribunale ha condannato a sei anni di carcere l'ex giudice Juan José Galeano, che pagò il testimone Carlos Telleldín perché indicasse in una decina di agenti di polizia della provincia di Buenos Aires i collegamenti locali con i terroristi (gli agenti vennero prosciolti una decina di anni dopo). Oltre a Galeano sono stati condannati a pene minori gli ex procuratori Eamon Mullen e José Barbaccia, l'allora capo dei servizi segreti Hugo Anzorreguy, il suo vice Carlos Anchezar e il commissario Carlos Castañeda, ex capo della divisione Protección del Orden Constitucional, mentre sono stati assolti sia Menem che l'ex titolare della Delegación de Asociaciones Israelita-Argentina, Rubén Beraja (che pure era gravemente indiziato). I familiari delle vittime dell'Amia hanno accolto la sentenza come un appoggio alla loro ricerca di verità e giustizia, pur considerando troppo lievi le pene comminate e contestando l'assoluzione di Menem e Beraja. Ai ripetuti tentativi di escluderla dalla competizione elettorale per via giudiziaria, Cristina Fernández ha risposto con una mossa a sorpresa: il 18 maggio ha annunciato che concorrerà alla vicepresidenza, proponendo come candidato alla massima carica dello Stato l'avvocato Alberto Fernández. La decisione è legata anche alla necessità di costruire un fronte più ampio contro il macrismo, scegliendo un personaggio che può ottenere l'appoggio del peronismo moderato. Ex capo di gabinetto di Kirchner, Alberto Fernández aveva avuto dei contrasti con Cristina, cui si è riavvicinato solo l'anno scorso. "Alberto Fernández presidente e Cristina Fernández vicepresidente è una concessione, una sconfitta in una battaglia per guadagnare la guerra. La sicurezza di un governo di salvezza nazionale contro la possibilità di un governo che amplifichi l'eredità kirchnerista", scrive Katu Arkonada su La Jornada del 25 maggio. La scelta di Cristina nasce dall'esigenza di opporsi alla narrazione macrista, che giustifica l'austerità e la riduzione dei diritti sociali responsabilizzando i governi kirchneristi della crisi del paese. Per questo tale scelta "fa esplodere la strategia politico-mediatica macrista e costruisce un binomio pensato più per governare che per la campagna. Un binomio che vuole essere il pilastro di un grande Frente Patriótico, un ritorno al nazional-popolare (sebbene questa volta più nazionale che popolare), in una coalizione ampia che includa dal kirchnerismo all'80% del peronismo, passando per il sindacalismo e la piccola e media impresa". 30/5/2019 |
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Perù, ex presidenti sotto accusa L'ex sindaca di Lima, Susana Villarán, è stata raggiunta da un ordine di carcerazione preventiva per riciclaggio, associazione a delinquere e corruzione, accuse per cui rischia più di vent'anni di carcere. Le imprese costruttrici Odebrecht e Oas (entrambe brasiliane) avrebbero finanziato segretamente le sue campagne elettorali per ottenere in cambio appalti da parte della municipalità della capitale. Dopo aver ripetutamente negato ogni addebito, recentemente Villarán - messa alle strette dalle prove a suo carico - ha ammesso di aver ricevuto fondi occulti per quattro milioni di dollari dalle due imprese per la propaganda elettorale contro una richiesta di revoca a metà mandato. Si è giustificata affermando che di quel denaro non intascò neppure un centesimo e che fu tutto impiegato per evitare che "le mafie organizzate che avevano promosso la revoca dell'incarico impedissero le riforme". Gli inquirenti però sostengono che le somme ricevute ammontarono a dieci milioni di dollari e che riguardarono anche un'altra campagna in cui l'ex sindaca tentò inutilmente di essere rieletta. Nonostante Villarán si sia da tempo allontanata dalle posizioni progressiste, la destra peruviana ha cercato di sfruttare il caso per screditare la sinistra nel suo complesso. Un tentativo grossolano di far dimenticare come la classe politica che ha governato negli ultimi decenni il paese debba rispondere di pesanti accuse di corruzione: agli ex presidenti Alejandro Toledo, Ollanta Humala, Pedro Pablo Kuczynski si aggiunge la leader del fujimorismo Keiko Fujimori. E mentre l'ex dittatore Alberto Fujimori, dopo l'annullamento di tutte le leggi a suo favore, a gennaio tornava in cella, un altro ex presidente, Alan García, si sottraeva alla prigione suicidandosi: il 17 aprile, agli agenti giunti ad arrestarlo, diceva di voler chiamare il suo avvocato e, chiusosi nella sua stanza, si sparava alla tempia. 16/5/2019 |
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Panama, vittoria di Cortizo (Prd) alle presidenziali L'imprenditore Laurentino Nito Cortizo Cohen, candidato del Partido Revolucionario Democrático fondato da Omar Torrijos, è il nuovo presidente eletto di Panama: nel voto del 5 maggio ha superato per uno stretto margine Rómulo Roux, di Cambio Democrático (la formazione di destra dell'ex capo di Stato Ricardo Martinelli, attualmente agli arresti per un'accusa di intercettazioni illegali). Al terzo posto l'indipendente Ricardo Lombana, seguito da José Blandón, appartenente al Partido Panameñista del presidente uscente Juan Carlos Varela. Sempre il 5 maggio è stata rinnovata l'Asamblea Nacional, dove il Prd ha conquistato la maggioranza relativa. Tra le promesse di campagna del nuovo capo dello Stato, che assumerà le sue funzioni il primo luglio, vi è il recupero dell'alto tasso di crescita economica registrato in anni precedenti e la lotta contro la povertà e le disuguaglianze sociali. Cortizo ha annunciato anche l'intenzione di combattere la corruzione e di sviluppare le relazioni con Pechino (solo nel 2017 Panama ha riconosciuto la Repubblica Popolare Cinese, rompendo con Taiwan). Un ulteriore impegno della nuova amministrazione è il miglioramento dell'immagine internazionale del paese, divenuto il luogo simbolo dell'evasione fiscale, delle società offshore e del riciclaggio con lo scandalo dei Panama Papers. Cambierà la politica del paese dopo questo voto? Il sociologo Marco A. Gandásegui hijo non nutre grandi speranze: "Cortizo non modificherà i rapporti di forza per beneficiare gli esclusi. Non ci saranno cambiamenti e non ha proposto piani per trasformare le enormi entrate del paese in leve per lo sviluppo nazionale". Solo due annunci del presidente eletto, a detta di Gandáseguy, si discostano dalle tendenze neoliberiste degli ultimi trent'anni: "Da una parte ha promesso di rivedere il trattato di libero commercio con gli Stati Uniti che ha rovinato la campagna panamense (e di passaggio il settore industriale). Gli agricoltori del paese sostengono che le importazioni di prodotti sovvenzionati dagli Stati Uniti (riso, mais, verdure e altri) rappresentano una concorrenza sleale. D'altra parte ha dichiarato che in politica estera rivedrà le posizioni di estrema destra degli ultimi sei governi panamensi per avvicinarsi maggiormente alla visione socialdemocratica di rispetto all'autodeterminazione dei popoli". 9/5/2019 |
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Venezuela, nuovo fallimento di Guaidó Continua l'offensiva statunitense contro il Venezuela in appoggio alle frange più estreme dell'opposizione. Dopo i ripetuti sabotaggi al sistema elettrico che hanno contrassegnato buona parte dei mesi di marzo e aprile, con pesanti ripercussioni sui trasporti, sulle comunicazioni e soprattutto sulla rete idrica, all'alba del 30 aprile Leopoldo López, fino a quel momento agli arresti domiciliari, è comparso in un video insieme a Juan Guaidó e a poche decine di militari per incitare alla ribellione. Il video, sostenevano López e Guaidó, era stato girato nell'importante base aerea de La Carlota. Il bluff è stato presto scoperto: la base è rimasta tutto il tempo in mano alle forze bolivariane e il piccolo gruppo di soldati e ufficiali che si era schierato a fianco dell'autoproclamato presidente è stato presto disperso con i gas lacrimogeni dalle truppe leali al governo. Visto il fallimento del piano eversivo, alcuni golpisti si sono rifugiati nell'ambasciata brasiliana, mentre López e famiglia sono stati accolti nella residenza dell'ambasciatore spagnolo. Intanto il movimento chavista si era mobilitato: migliaia di persone si erano raccolte intorno a Miraflores per respingere il colpo di Stato. Il giorno successivo trascorreva in una calma tesa: la manifestazione a favore del governo raccoglieva un'enorme adesione, dimostrando la capacità di convocazione del chavismo, mentre l'opposizione appariva in forte crisi. In serata Trump, in un'intervista, ribadiva che nei confronti di Caracas restavano aperte "molte opzioni" e accusava Cuba e Russia di sostenere il presidente Maduro, che a suo dire stava perdendo il controllo della situazione. Per tutta risposta il 2 maggio il capo dello Stato venezuelano parlava agli alti comandi delle forze armate riuniti nel Fuerte Tiuna, una delle principali installazioni militari del paese, invitando alla battaglia "per la difesa della nostra dignità, del nostro onore, del diritto a esistere della nostra Repubblica e della nostra identità nazionale". Accanto a Maduro il ministro della Difesa Padrino López, che smentiva così le voci secondo le quali era passato dalla parte di Guaidó. Rimane l'interrogativo di fondo: come si è giunti a un'azione golpista così mal congegnata, destinata a sgonfiarsi in poco tempo? Nel tentativo di dare una spiegazione, John Bolton, consigliere per la Sicurezza Nazionale statunitense, ha affermato che vari dirigenti e ufficiali di alto livello si erano detti disponibili al golpe, ma poi non erano passati dalle parole ai fatti. Ed Elliot Abrams, rappresentante speciale per il Venezuela, è arrivato a dire che i chavisti con cui aveva negoziato "avevano spento i cellulari". Se i progetti eversivi sono finora falliti, le sanzioni contro il Venezuela decise da Washington nell'agosto del 2017 e inasprite nel gennaio di quest'anno stanno devastando l'economia e provocando drammatiche conseguenze sugli strati più vulnerabili della popolazione, colpiti dalla ridotta disponibilità di alimenti e farmaci. Lo rivela lo studio degli economisti statunitensi Mark Weisbrot e Jeffrey Sachs Economic Sanctions as Collective Punishment: The Case of Venezuela, reso noto in aprile. "Riteniamo che le sanzioni abbiano inflitto, e infliggano in maniera crescente, danni molto seri alla vita e alla salute umana, compresi oltre 40.000 decessi dal 2017-2018", scrivono gli autori. Tali sanzioni "rientrerebbero nella definizione di punizione collettiva della popolazione civile, come riportata sia nella convenzione internazionale di Ginevra che in quella dell'Aia, di cui gli Stati Uniti sono firmatari. Queste sanzioni sono illegali anche in base alla legge e ai trattati internazionali che gli Usa hanno sottoscritto e sembrerebbero violare la stessa legislazione statunitense". 3/5/2019 |
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Prosur, il blocco che guarda a Nord Si chiamerà Prosur, ma molti sostengono che il nome più adatto sarebbe Pronorte. È la proposta di costituzione di un nuovo blocco avanzata dai governi di destra della regione. Il Foro para el Progreso de América del Sur è stato formalmente lanciato il 22 marzo a Santiago del Cile dai presidenti di Argentina, Brasile, Colombia, Cile, Ecuador, Paraguay e Perù, tutti uniti nella difesa del libero mercato e nell'allineamento alle posizioni di Washington. Dall'incontro era stato escluso il Venezuela: per questo i capi di Stato di Bolivia, Uruguay, Guyana e Suriname non si sono presentati, limitandosi a inviare rappresentanti. L'America del Sud rinnega dunque il tentativo di affrancarsi dalla tutela statunitense che era stato alla base della creazione dell'Unión de Naciones Suramericanas nel 2008. L'Unasur è stata svuotata dall'interno prima con la mancata designazione del nuovo segretario generale nel 2017, al termine del mandato di Ernesto Samper, poi con la sospensione della partecipazione dei governi di Buenos Aires, Brasilia, Santiago, Asunción, Lima e con il ritiro definitivo di Bogotá lo scorso anno. Il 14 marzo l'Ecuador ha seguito le orme colombiane, con il pretesto della trasformazione del blocco "in una piattaforma politica che ha distrutto il sogno dell'integrazione". Lenín Moreno ha anche dichiarato che l'edificio di Quito, sede dell'organismo, sarà destinato a ospitare l'Universidad Indígena e che la statua del primo segretario generale Néstor Kirchner, attualmente posta all'ingresso, verrà rimossa. E in aprile la decisione di abbandonare l'Unasur è stata formalizzata, nell'ordine, da Argentina, Paraguay, Brasile, Cile. Sempre in aprile un altro colpo all'integrazione latinoamericana è venuto dalla sospensione dell'elezione diretta dei membri del Parlasur, il Parlamento del Mercosur con sede a Montevideo. La decisione, frutto di un accordo tra i paesi del mercato comune e giustificata con la necessità di risparmiare risorse di bilancio, è stata annunciata dal ministro degli Esteri paraguayano Luis Alberto Castiglioni. In realtà l'attacco al Parlasur si inquadra nella politica della destra regionale di annullare tutti gli organismi rappresentativi non allineati con gli interessi statunitensi. 23/4/2019 |
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Trump inasprisce il blocco contro Cuba Nuovo giro di vite nel blocco contro Cuba. Il 2 maggio entrerà in vigore il capitolo III della legge Helms-Burton, in base al quale i proprietari di beni confiscati dopo la Revolución potranno citare davanti ai tribunali Usa le imprese o i privati, anche stranieri, che traggano profitto dalla gestione di tali beni. Lo ha annunciato il 17 aprile John Bolton, consigliere per la Sicurezza Nazionale, in un incontro a Miami con i veterani del fallito tentativo di sbarco a Playa Girón. Immediata la condanna da parte dell'Avana. Il capitolo III "viola la legislazione internazionale consentendo cause contro entità cubane o straniere che 'traffichino' con proprietà nazionalizzate per decisione sovrana e attenendosi alla legalità", scrive Cubadebate, aggiungendo che il governo cubano aveva raggiunto accordi di indennizzo con paesi le cui imprese erano state espropriate (Gran Bretagna, Canada, Spagna, Svizzera, Italia, Francia), ma che Washington aveva rifiutato le condizioni offerte perché già programmava l'invasione dell'aprile 1961. Dal 1996, data dell'approvazione della legge Helms-Burton, tutti i presidenti statunitensi avevano ogni sei mesi decretato la sospensione del capitolo III per il timore di scatenare una valanga di casi giudiziari e soprattutto per l'opposizione della comunità internazionale. Il provvedimento potrebbe infatti colpire le imprese di paesi alleati operanti sull'isola. Ma la politica dell'amministrazione Trump verso Cuba, ormai chiaramente dettata dagli anticastristi di Miami, sembra non voler prendere in considerazione le proteste di Unione Europea e Canada, che hanno subito manifestato la loro contrarietà ripromettendosi di proteggere gli interessi dei propri cittadini davanti all'Organizzazione Mondiale del Commercio. Intanto il 10 aprile è stata ufficialmente proclamata, nel corso di una seduta solenne dell'Asamblea Nacional del Poder Popular, la nuova Costituzione, approvata nel referendum del 24 febbraio dall'86,85% degli elettori. "La Costituzione che oggi proclamiamo garantisce la continuità della Rivoluzione e l'irrevocabilità del nostro socialismo. Sintetizza le aspirazioni di tutti coloro che, in oltre 150 anni, hanno lottato per una Cuba libera, indipendente, sovrana e di giustizia sociale - ha detto Raúl Castro - Con questo nuovo testo si istituzionalizza e si rafforza lo Stato rivoluzionario, a cui si chiede un'azione trasparente e conforme alla legge. Se qualcosa in particolare lo distingue è il rispetto alla piena dignità della donna e dell'uomo e l'uguaglianza dei cubani, senza alcun tipo di discriminazione, e questi sono precisamente i pilastri su cui si fonda questa società". 18/4/2019 |
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L'Ecuador revoca l'asilo politico ad Assange Era da tempo che Lenín Moreno desiderava liberarsi di Julian Assange, rifugiato nell'ambasciata ecuadoriana di Londra: una scomoda presenza, visto il desiderio del presidente ecuadoriano di ingraziarsi i favori di Washington. L'11 aprile l'asilo politico, che Rafael Correa aveva concesso al fondatore di WikiLeaks, è stato revocato e alla polizia britannica è stato permesso di entrare nella sede diplomatica e di procedere all'arresto di Assange, che ora rischia l'estradizione negli Stati Uniti. Con questa decisione Moreno si libera dell'ultima eredità del suo predecessore, di cui ha tradito tutta la politica, allineandosi agli Stati Uniti su vari fronti (dall'attacco al Venezuela alla demolizione degli organismi di integrazione regionale), smantellando lo Stato sociale secondo i dettami neoliberisti, facendo ricorso ai prestiti del Fondo Monetario e di altre istituzioni finanziarie internazionali. E proprio la consegna di Assange, secondo The New York Times, sarebbe stata posta come condizione da parte di Washington per l'approvazione di un nuovo prestito del Fmi all'Ecuador. Senza contare il desiderio dello stesso capo dello Stato di vendicarsi delle recenti rivelazioni di WikiLeaks su casi di corruzione che lo vedono implicato. Ma le prospettive per Moreno non appaiono affatto rosee. Secondo un sondaggio reso pubblico in marzo dal Centro Estratégico Latinoamericano de Geopolítica (Celag), la sua popolarità è in caduta libera e solo poco più del 25% degli intervistati pensa che sia veramente lui a detenere le leve del potere. Il 45% afferma che il paese è in mano ai grandi gruppi economici, mentre il 26% sostiene che sono gli Stati Uniti a guidare le scelte del governo. Cresce invece l'immagine positiva di Rafael Correa, superata di poco da quella dell'esponente della destra Jaime Nebot, sindaco uscente di Guayaquil. Anche le elezioni amministrative del 24 marzo hanno dimostrato che il tentativo di cancellare Correa dalla scena politica è fallito. A pochi giorni dal voto le autorità elettorali avevano tentato di introdurre nuove regole che avrebbero facilitato l'eliminazione del Consejo de Participación Ciudadana, l'organismo di controllo degli altri poteri dello Stato voluto proprio dall'ex presidente. La manovra non è riuscita: la maggioranza dei votanti si è pronunciata a favore del mantenimento del Consejo, di cui faranno parte tre esponenti del correismo. Non solo: il nuovo sindaco di Quito, Jorge Yunda, è considerato vicino alle posizioni di Correa e la prefettura di Pichincha è stata conquistata da Paola Pabón, importante dirigente del Movimiento Revolución Ciudadana. 12/4/2019 |
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Brasile, dirigenti sociali e oppositori nel mirino Il 22 marzo a Tucuruí, nello Stato del Pará, è stata assassinata Dilma Ferreira Silva, del Coordinamento Regionale del Mab (Movimento dos Atingidos por Barragens, Movimento dei Danneggiati dalle Dighe). Dilma è stata uccisa insieme al marito e a un amico di famiglia. La centrale idroelettrica di Tucuruí, costruita durante la dittatura militare, si trova sul fiume Tocantins a 310 km. dalla capitale del Pará, Belém. Oltre 30.000 persone furono obbligate ad abbandonare le loro abitazioni per la costruzione della diga e da più di trent’anni lottano per vedere riconosciuti i loro diritti. L'uccisione di Dilma Ferreira avviene a meno di due mesi di distanza dal disastro di Brumadinho, nello Stato di Minas Gerais, dove il 25 gennaio il bacino che conteneva le scorie di lavorazione della compagnia mineraria Vale ha ceduto, seppellendo centinaia di persone. I morti finora accertati sono 212, ma 93 persone mancano ancora all'appello. Un disastro annunciato: nel 2017 l'Agência Nacional de Aguas registrava l'esistenza nel paese di 24.000 dighe, di cui solo 4.500 periodicamente controllate. Nel caso di Brumadinho sono i grafici della Vale che mostrano con chiarezza le responsabilità: negli ultimi cinque anni l'impresa ha aumentato i profitti e diminuito i costi per la sicurezza. Dopo la catastrofe ha promesso risarcimenti alle famiglie colpite, ma non ha ancora versato un real. Accanto alla tragedia umana, quella ecologica. Era già avvenuto nel 2015 a Barra Longa (sempre nello Stato di Minas Gerais), dove la rottura dello sbarramento costruito dalla Samarco per i residui dell'estrazione del ferro aveva provocato la morte di una ventina di persone e contaminato in modo irreversibile il Rio Doce. Dopo aver seminato morte a Brumadinho, i fanghi tossici hanno raggiunto il fiume São Francisco che attraversa cinque Stati passando per una regione molto arida, dove rappresenta l'unica fonte idrica. Un danno irreparabile per l'agricoltura e l'allevamento della zona. La violenza contro oppositori e dirigenti sociali, di cui l'assassinio di Dilma Ferreira è un esempio, è il tratto distintivo del Brasile odierno. Con uno dei suoi primi decreti, il presidente Bolsonaro ha reso più libero l'acquisto delle armi "per garantire il legittimo diritto alla difesa". È consentito l'acquisto di un massimo di quattro armi, con la possibilità di aumentare il proprio arsenale se le circostanze lo giustificano (come nel caso dei latifondisti che vedono le loro proprietà minacciate dai conflitti agrari). Del resto i grandi fazendeiros non hanno certo aspettato le nuove norme per respingere con il crimine le occupazioni di terre. Nel dicembre scorso nello Stato di Paraíba due militanti del Movimento Sem Terra, Rodrigo Celestino e José Bernardo da Silva, sono stati uccisi da una banda di sicari. La loro colpa: aver coordinato l'attività di 450 famiglie contadine che dal 2017 si erano stabilite su alcuni terreni lasciati incolti dai proprietari. In gennaio la deputata dell'Assembleia Legislativa di Rio de Janeiro, Martha Rocha del Partido Democrático Trabalhista, è scampata a un attentato molto simile a quello che il 14 marzo dello scorso anno era costato la vita a Marielle Franco e al suo autista: numerosi colpi sono stati esplosi contro l'auto su cui Martha viaggiava e il conduttore è rimasto ferito. Nello Stato di Rio spadroneggiano le milícias, i gruppi paramilitari a cui Bolsonaro e il suo clan sono strettamente legati. In marzo sono stati arrestati i presunti autori materiali dell'uccisione di Marielle: farebbero parte dell'organizzazione Escritório do Crime. Uno dei fondatori di tale impresa criminale è l'ex poliziotto Adriano Magalhães da Nóbrega, ora ricercato: lo stesso personaggio che Flávio Bolsonaro, quando era parlamentare statale, fece insignire della massima onorificenza. Sempre Flávio aveva contrattato come assistenti nel suo gabinetto la moglie e la madre di Magalhães. Questi è inoltre amico di Fabrício Queiroz, indagato per sottrazione di fondi pubblici: sono venuti alla luce ripetuti depositi di denaro (probabilmente a fini di riciclaggio) da parte della madre di Magalhães sul conto di Queiroz, che a sua volta avrebbe versato cospicue somme sui conti non solo di Flávio, ma dell'attuale first lady, Michelle de Paula. 24/3/2019 |
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Venezuela, il fallimento di Guaidó L'offensiva golpista contro la Repubblica Bolivariana, senza tregua da quando Juan Guaidó si è autoproclamato presidente, non sembra aver raggiunto finora i suoi obiettivi. Il 24 gennaio la mozione a favore di Guaidó otteneva solo i voti di 16 dei 35 membri dell'Organización de los Estados Americanos. Due giorni dopo, nella riunione d'emergenza del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, numerosi paesi (tra questi Russia, Cina, Cuba, Bolivia) esprimevano il loro sostegno a Maduro. E anche l'Unione Europea non assumeva una posizione unanime: se il Parlamento di Strasburgo riconosceva come "legittimo presidente ad interim" l'autonominato capo di Stato e alcuni governi, a partire da quelli di Madrid, Londra e Parigi, si allineavano alle posizioni di Washington, Roma si richiamava al principio di non interferenza e dichiarava di voler evitare in Venezuela "lo stesso errore che è stato commesso in Libia". Intanto l'amministrazione Trump decideva nuove e più dure sanzioni economiche, congelando beni della Pdvsa e della sua filiale in territorio statunitense, la Citgo (di cui la Russia possiede quasi la metà delle azioni). Proprio la compagnia petrolifera statale è uno dei principali obiettivi degli antichavisti come risulta dalle linee guida, approvate agli inizi di febbraio dall'Asamblea Nacional presieduta da Guaidó, per la fase di transizione dopo l'eventuale vittoria del golpe. Il documento prevede non solo lo smantellamento della rete di protezione sociale, ma il controllo e la privatizzazione di Pdvsa. E non c'è solo il petrolio o il gas su cui mettere le mani: il Venezuela è ricchissimo anche di oro, ferro, diamanti, coltan. Le intenzioni della Casa Bianca sono state ben evidenziate dalla decisione di conferire a Elliott Abrams l'incarico di rappresentante speciale per il Venezuela con il compito di "restaurare la democrazia". Abrams è un personaggio già tristemente noto nella regione dai tempi di Ronald Reagan, quando aveva coperto le atrocità dei regimi alleati degli Stati Uniti in Guatemala e in Salvador e sostenuto le operazioni dei contras in Nicaragua. Per finanziare questi ultimi era stato coinvolto nello scandalo Iran-Contras, la vendita illegale di armi a Teheran i cui proventi andavano ai gruppi armati controrivoluzionari e alle loro azioni antisandiniste. In appoggio ai tentativi golpisti non è mai mancato il massiccio sostegno dei media occidentali che quasi senza eccezione hanno presentato un quadro distorto della situazione, amplificando ogni iniziativa dell'opposizione e passando sotto silenzio le mobilitazioni filogovernative. Come quella, imponente, del 2 febbraio, con cui la Rivoluzione Bolivariana ha celebrato i vent'anni dall'arrivo di Hugo Chávez alla presidenza. In quell'occasione Maduro si è dichiarato una volta di più disposto al dialogo promosso da Messico e Uruguay, cui si sono aggiunti ora la Bolivia e i paesi della Comunità dei Caraibi (Caricom). Ma Guaidó e i suoi sponsor statunitensi puntano allo scontro: la giornata scelta era quella del 23 febbraio, in cui veniva annunciato con grande clamore l'ingresso nel paese degli "aiuti umanitari". La vigilia era contrassegnata da due concerti contrapposti che avevano radunato decine di migliaia di persone al confine con la Colombia. In territorio venezuelano il Concierto por La Paz contro ogni ingerenza esterna; sull'altro lato il Venezuela Aid Live, organizzato dal miliardario Richard Branson in appoggio all'entrata di una carovana di automezzi ufficialmente carichi di alimenti e medicinali provenienti dagli Usa. Verso la fine di quest'ultimo spettacolo Guaidó faceva un'apparizione a sorpresa accompagnato da tre presidenti latinoamericani (il colombiano Duque, il cileno Piñera e il paraguayano Abdo), nonché dal segretario generale dell'Oea, Almagro. Nonostante tutti questi appoggi, l'azione si è risolta in un clamoroso fallimento. Il giorno fatidico è trascorso in mezzo a vani tentativi di abbattere con la forza lo sbarramento alla frontiera. Le tanto attese defezioni all'interno della Fanb, la Fuerza Armada Nacional Bolivariana, non si sono prodotte e l'unico fatto degno di nota è stato l'incendio di due camion. I seguaci di Guaidó hanno subito incolpato del rogo i chavisti, smentiti da un video che mostra chiaramente come il fuoco venga appiccato dalle molotov lanciate dal lato colombiano. Lo confermerà in seguito anche The New York Times. Lo stesso quotidiano statunitense riporterà quanto è stato scoperto una volta domate le fiamme: i mezzi non contenevano cibo o farmaci, ma equipaggiamento per la guerriglia urbana. L'insuccesso del 23 febbraio ha spinto i paesi latinoamericani ed europei ad adottare una posizione più prudente, ribadendo la contrarietà a un intervento militare. Anche il Brasile, per bocca del vicepresidente Mourão, ha escluso azioni esterne. Gli ultimi avvenimenti hanno infatti mostrato chiaramente che Guaidó ha ben pochi appoggi in patria (anche una parte consistente dell'opposizione non lo sostiene): la sua unica forza sono i governi di destra del continente. In particolare gli Stati Uniti, decisi a ricorrere a ogni mezzo per abbattere il "dittatore" Maduro. La mossa seguente è stata l'attacco informatico alla rete elettrica venezuelana, che ha provocato un gigantesco apagón in buona parte del paese a partire dal pomeriggio del 7 marzo. Le conseguenze si sono protratte per quasi una settimana, creando innumerevoli disagi: mancanza di illuminazione, di refrigerazione, di acqua, di comunicazioni. Ma ancora una volta i calcoli si sono dimostrati sbagliati: la prevista sollevazione popolare contro il governo, che avrebbe dovuto servire da pretesto per l'intervento, non si è verificata. Anzi, due giorni dopo l'inizio dell'apagón, due manifestazioni opposte dimostravano ancora una volta la maggiore capacità di convocazione del chavismo rispetto agli avversari. E mentre Washington inaspriva ulteriormente le sanzioni contro Caracas, il governo bolivariano annunciava il 23 marzo la scoperta di una nuova cospirazione organizzata da Guaidó e dal suo partito, Voluntad Popular. Sicari contrattati dal Salvador, dal Guatemala e dall'Honduras, con lo scopo di realizzare attentati e sabotaggi, sarebbero già entrati nel paese e ora sono attivamente ricercati; un capo paramilitare colombiano, Wilfrido Torres Gómez, è stato catturato. Nel complotto è coinvolto uno stretto collaboratore di Guaidó, Roberto Marrero, arrestato nella sua abitazione dove sono state trovate numerose armi. Proprio il cellulare di Marrero ha fornito numerose prove del progetto eversivo. 24/3/2019 |
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Costa Rica, assassinato leader indigeno Sergio Rojas Ortiz, membro fondatore del Frenapi (Frente Nacional de Pueblos Indígenas), è stato assassinato a colpi d'arma da fuoco la sera del 18 marzo, nella sua casa posta nel territorio di Salitre (sud del paese). Proprio quel giorno Rojas aveva denunciato per l'ennesima volta davanti alla Procura le minacce e le aggressioni sofferte dall'etnia bribri, cui apparteneva. La legge del Costa Rica, che stabilisce l'inalienabilità e la non trasferibilità dei territori indigeni, è in gran parte disattesa. Dopo aver chiesto innumerevoli volte per vie legali la sua appIicazione, il popolo bribri ha iniziato a riprendersi i terreni usurpati dai latifondisti, che hanno risposto con intimidazioni e violenze. Nel 2015 la Commissione Interamericana per i Diritti Umani ha sollecitato il governo di San José ad adottare le misure necessarie per proteggere la popolazione nativa. Ma da parte delle autorità non sono state avviate adeguate indagini e non sono stati condannati i responsabili dei continui attacchi alle comunità. "Sergio Rojas era un difensore dei diritti indigeni dedicato al recupero delle terre e della cultura bribri", afferma in un comunicato la Defensoría de los Habitantes, ricordando "il suo abbraccio forte, il suo sorriso sincero e le sue parole veementi". Nonostante avessero già attentato alla sua vita, non gli era stata fornita alcuna protezione. In un comunicato sottoscritto dalla Coordinadora de Lucha Sur Sur e da altre organizzazioni si responsabilizza il governo di Carlos Alvarado e quelli che lo hanno preceduto per la morte di Rojas e per non aver garantito "l'integrità fisica e territoriale dei popoli originari del Costa Rica". 20/3/2019 |
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8 marzo: giornata di lotta in America Latina Una giornata non di festa, ma di lotta. L'8 marzo 2019 ha registrato in America Latina una mobilitazione senza precedenti. Milioni di donne sono scese in piazza in tutto il continente contro la violenza e i femminicidi e per contrapporre, all'ondata reazionaria in corso, la battaglia per diritti e uguaglianza. In Argentina, nell'ambito dello sciopero delle donne, un imponente corteo si è mosso dal Congresso verso Plaza de Mayo. In testa le militanti della campagna per l'aborto legale, gratuito e sicuro: nell'agosto 2018 la legge, già approvata dalla Camera, è stata bocciata per pochi voti al Senato. Migliaia e migliaia di manifestanti di tutte le età portavano al collo un fazzoletto verde, il colore della battaglia per l'interruzione volontaria della gravidanza. Una battaglia che si scontra con il fanatismo religioso di quanti proprio in questi giorni, nella provincia di Tucumán, hanno impedito a una bambina di undici anni che era stata violentata di accedere all'aborto, nonostante fosse uno dei casi previsti dalla legge, e le hanno imposto un cesareo (la neonata è comunque morta pochi giorni dopo il parto). Al termine del corteo è stato letto un documento delle associazioni e dei movimenti che avevano convocato la mobilitazione: "Scioperiamo perché siamo tutte e tutti lavoratrici e lavoratori; siamo la classe contro cui va il capitalismo nel mondo, il neoliberismo nella nostra regione e il macrismo nel nostro paese, attraverso i passi avanti della destra e dell'imperialismo in tutta la nostra America Latina. In questo sciopero raccogliamo la storia di tutti gli scioperi storici del movimento femminista e la facciamo nostra, perché siamo in prima fila contro le destre reazionarie, i piani neoliberisti e l'ingerenza dei governi imperialisti". In Brasile i grandi cortei che hanno attraversato Rio de Janeiro, São Paulo e Brasilia hanno avuto come bersaglio polemico il presidente Jair Bolsonaro, famoso per le sue batture misogine e razziste. Tra le richieste la verità sull'uccisione della consigliera comunale di Rio e militante per i diritti umani Marielle Franco, assassinata il 14 marzo 2018. Migliaia di donne, e tra queste moltissime giovani e giovanissime, sono scese in piazza in Cile, soprattutto a Santiago e a Valparaíso: sugli striscioni scritte contro il machismo, per una educazione non sessista e per chiedere giustizia per Macarena Valdés, la militante mapuche che si batteva contro la realizzazione di una centrale idroelettrica nella Región de los Ríos. Macarena, che aveva ricevuto ripetute minacce dall'impresa transnazionale RP Global, costruttrice della centrale, è stata trovata impiccata il 22 agosto del 2016: i segni trovati sul suo corpo smentiscono la tesi del suicidio, troppo frettolosamente accettata dagli inquirenti. Tantissime anche le manifestanti che hanno attraversato il centro di Montevideo, in Uruguay: tra queste la vicepresidente Lucía Topolansky, che ha sottolineato come il problema prioritario del paese sia la violenza domestica. Topolansky nel settembre del 2017, come senatrice più votata, aveva sostituito il dimissionario Raúl Sendic. In Messico ampie mobilitazioni si sono svolte in almeno tredici città per dire no alla violenza e ai femminicidi e per chiedere la depenalizzazione dell'aborto. Su questo tema la situazione è molto diversa da regione a regione: se a Città del Messico l'interruzione volontaria della gravidanza è legale, altrove viene punita con la reclusione e lo Stato di Nuevo León ha appena riformato la Costituzione per garantire il diritto alla vita del feto. Nella capitale si è svolta una manifestazione di contadine, con alla testa la ministra di Gobernación, Olga Sánchez Cordero. 9/3/2019 |
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El Salvador, Nayib Bukele è il nuovo presidente L'imprenditore Nayib Bukele, ex sindaco della capitale, è il nuovo presidente del Salvador. È stato eletto il 3 febbraio al primo turno con il 53,1% dei voti contro il 31,7% di Carlos Calleja, di Arena, e il 14,4% di Hugo Martínez, del Fmln. Nato in una famiglia di origine palestinese (il padre era stato rappresentante della comunità araba del paese), che durante la guerra civile aveva offerto rifugio ad alcuni dirigenti della guerriglia, Bukele aveva iniziato la sua carriera politica con il Frente Farabundo Martí, da cui era stato però espulso per condotta contraria alla morale del partito. Nella sua ambiziosa corsa verso la massima carica dello Stato aveva prima fondato il movimento Nuevas Ideas, poi si era avvicinato al piccolo partito Cambio Democrático, che però era stato eliminato dalla contesa elettorale in seguito a una sentenza costituzionale. A poche ore dalla chiusura delle liste si era dunque iscritto come candidato del raggruppamento di centrodestra Gana. La sua campagna politica è stata incentrata su una generica lotta alla corruzione. Un tema particolarmente sentito nel paese, dopo le accuse contro l'ex presidente Antonio Saca (Arena) che lo scorso anno di fronte ai giudici si è dichiarato colpevole. E nel 2016 un altro ex capo dello Stato esponente di Arena, Francisco Flores, rinviato a giudizio per appropriazione indebita era morto prima della sentenza. Sempre nel 2016 Mauricio Funes, presidente dal 2009 al 2014 con l'appoggio del Fmln, si era rifugiato in Nicaragua evitando un processo per arricchimento illecito. Bukele ha sedotto l'elettorato giovane grazie alla sua età (ha 37 anni), al suo abbigliamento informale e al suo uso disinvolto delle reti sociali. Ha fatto grandi promesse: un nuovo aeroporto, una linea ferroviaria lungo la costa del Pacifico, un mega ospedale, che difficilmente potrà onorare. L'insediamento avverrà il primo giugno, ma già il presidente eletto ha indicato quale via intende seguire in politica estera. Ha annunciato infatti che intende riconsiderare i rapporti con il Venezuela sulla base della posizione dell'Oea e ha definito Maduro "un dittatore". La sua vittoria è stata favorita dalla crisi in cui versa il Frente Farabundo Martí, al governo dal 2009 senza aver potuto introdurre un vero cambiamento perché il potere resta saldamente nelle mani di una ristretta oligarchia. Nonostante alcuni progressi nelle condizioni di vita della popolazione, la gestione del Fmln ha suscitato forti delusioni in quanti avevano sperato in una svolta. Questo spiega perché l'elettorato gli abbia voltato le spalle affidandosi a un politico che si presenta come antisistema, ma che incarna gli interessi dell'élite di sempre. 6/2/2019 |
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Colombia, rottura del negoziato di pace con l'Eln Un duro colpo alla pace: il 17 gennaio, a Bogotá, un'autobomba contro la scuola dei cadetti della polizia provocava la morte di 22 persone e il ferimento di più di 60. Il giorno seguente il presidente Iván Duque annunciava la rottura delle trattative con l'Ejército de Liberación Nacional (il negoziato, avviato dal febbraio 2017 prima a Quito e poi all'Avana, era del resto già sospeso dal giorno dell'insediamento di Duque nell'agosto scorso). I fautori di una soluzione militare hanno subito approfittato dell'accaduto per attaccare anche gli accordi raggiunti nel 2016 con le Farc, accordi che lo stesso capo dello Stato aveva dichiarato di voler "correggere". Il 21 gennaio il comandante Pablo Beltrán, leader della delegazione dell'Eln presente all'Avana, in una dichiarazione a Prensa Latina negava qualsiasi legame dei negoziatori con quanto avvenuto a Bogotá, ribadendo l'impegno a portare avanti il dialogo con il governo. Ma il giorno dopo un comunicato della dirigenza nazionale dell'organizzazione guerrigliera rivendicava l'attentato come un'azione di guerra, definendo la scuola dei cadetti un'installazione militare. Un'azione, al di là del giudizio morale, fortemente criticata da sinistra anche sul piano politico, perché ha fornito al capo dello Stato il pretesto per abbandonare definitivamente le trattative e ha provocato la sospensione di alcune manifestazioni di protesta già programmate nella capitale. In particolare proprio quel giorno gli studenti avevano deciso di scendere in piazza contro i brutali metodi repressivi dell'Escuadrón Móvil Antidisturbios, l'unità antisommossa della polizia. Anche il governo dell'Avana si è pronunciato duramente contro la strage alla scuola dei cadetti: "Cuba respinge e condanna tutte le azioni, i metodi e le pratiche di terrorismo in tutte le forme e manifestazioni". Le autorità cubane hanno comunque respinto la richiesta di Bogotá di catturare ed estradare i rappresentanti dell'Eln. Una richiesta irricevibile perché il governo dell'isola è tenuto ad applicare, in caso di rottura del dialogo, i protocolli stabiliti che garantiscono la sicurezza dei negoziatori, come del resto farà la Norvegia, altro paese garante dei colloqui. L'esplosione del 17 gennaio ha avuto pesanti ripercussioni sulla politica colombiana. Il presidente Duque, facendo appello all'unità nazionale contro il terrorismo, ha saputo sfruttare l'ondata di indignazione per aumentare la sua popolarità: un ottimo mezzo per far passare in secondo piano le critiche alla politica economica governativa e i tanti casi di corruzione che coinvolgono i più alti funzionari dello Stato. La domenica successiva all'attentato, la destra ha promosso cortei in diverse città per esprimere appoggio alle forze di polizia e condannare la violenza. Una condanna a senso unico: chi ha tentato, come è avvenuto a Medellín, di ricordare anche i continui omicidi di leader sociali è stato sommerso da insulti e minacce. Intanto lo stillicidio continua: l'11 gennaio è stato rinvenuto il cadavere di Faiber Manquillo Gómez, dirigente contadino del dipartimento del Cauca, che era stato sequestrato in dicembre. E il 24 gennaio è morta in ospedale Maritza Ramírez Chaverra, presidente della Junta de Acción Comunal de Aguas Claras del municipio di Tumaco (dipartimento di Nariño): giorni prima era stata selvaggiamente picchiata da sconosciuti. 25/1/2019 |
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Venezuela, in marcia un tentativo di golpe Un tentativo di golpe sta avvenendo in Venezuela con il sostegno aperto di Washington. Dopo la decisione dell'Asamblea Nacional di dichiarare Maduro "usurpatore", il suo presidente Juan Guaidó, del partito Voluntad Popular, si è autoproclamato capo dello Stato ed è stato subito riconosciuto da Stati Uniti, Canada e paesi del Grupo de Lima, Messico escluso. Un copione studiato a tavolino nella speranza di scatenare la sollevazione delle forze armate. Che però (tranne limitati episodi) non si sono prestate: otto generali, a capo di regioni strategiche del paese, hanno ribadito la loro "lealtà assoluta" al governo bolivariano. E il ministro della Difesa Vladimir Padrino, affiancato dai vertici militari, ha parlato alla stampa avvertendo che "si sta attuando un colpo di Stato contro le istituzioni, contro la democrazia, contro la nostra Costituzione, contro il presidente legittimo Nicolás Maduro". Il 23 gennaio, anniversario della fine della dittatura di Marcos Pérez Jiménez, è stato scelto dal golpista Guaidó per il suo "giuramento" come presidente ad interim di fronte a una folla di sostenitori nella zona est di Caracas; contemporaneamente, intorno al palazzo presidenziale di Miraflores, si riuniva una moltitudine in difesa del governo. Nel suo discorso Maduro ha annunciato la rottura di ogni relazione diplomatica con gli Usa, invitando i rappresentanti nordamericani ad abbandonare il paese entro 72 ore. In giornata sono avvenuti scontri e atti di violenza che hanno provocato una quindicina di morti. La tensione rimane alta e la polarizzazione esistente potrebbe scatenare una sanguinosa guerra civile. Un'eventualità che non preoccupa certo chi soffia sul fuoco per riportare il Venezuela nell'orbita statunitense. La nuova offensiva antibolivariana aveva preso come pretesto l'inizio, il 10 gennaio, di un secondo mandato di Nicolás Maduro. Già giorni prima i membri del Grupo de Lima avevano dichiarato che non avrebbero riconosciuto il nuovo governo di Caracas. Solo il Messico di López Obrador si era rifiutato di allinearsi a questa posizione. Quanto all'Oea aveva approvato, con 19 voti a favore, una risoluzione che dichiarava illegittimo l'insediamento di Maduro e chiedeva nuove elezioni. Contrari, oltre al Venezuela, la Bolivia, il Nicaragua, Saint Vincent and the Grenadines, Dominica e Suriname; otto gli astenuti, tra cui Messico e Uruguay. E mentre il Paraguay rompeva le relazioni con Caracas, l'Unione Europea si affiancava a questa aggressione diplomatica con una dichiarazione in cui deplorava l'avvio di un mandato nato da elezioni "non democratiche". L'escalation di attacchi contro la Repubblica Bolivariana non aveva impedito che alla data stabilita Maduro ricevesse l'investitura dal presidente del Tribunal Supremo de Justicia, Maikel Moreno, giurando di adoperarsi per "difendere l'indipendenza assoluta della patria, portare alla prosperità economica il popolo e costruire il socialismo del XXI secolo". Alla cerimonia erano presenti i capi di Stato di Bolivia, Cuba, El Salvador e delegazioni ad alto livello di Cina, Russia e Turchia. Da Mosca e da Pechino è venuto in queste ore pieno sostegno al presidente Maduro. In un comunicato il Ministero degli Esteri russo afferma che la creazione premeditata di un dualismo di poteri "porta direttamente al caos e alla distruzione delle basi dello Stato venezuelano", vede nelle azioni di Washington "una nuova dimostrazione di disprezzo totale delle norme e dei principi del diritto internazionale" e di fronte alle dichiarazioni di alcuni paesi, che non escludono un intervento militare esterno, avverte che "simili avventure possono avere conseguenze catastrofiche". E la portavoce del dicastero degli Esteri di Pechino ha dichiarato che "la Cina appoggia gli sforzi del governo del Venezuela per mantenere la propria sovranità, indipendenza e stabilità". 24/1/2019 |
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Guatemala, in piazza contro il governo Morales Il 14 gennaio, mentre il presidente Jimmy Morales teneva il suo terzo informe di governo, organizzazioni contadine, sindacati e movimenti sociali manifestavano nella capitale e massicci blocchi stradali venivano effettuati nei dipartimenti di Alta Verapaz, Quiché, Quetzaltenango, Totonicapán, Chiquimula, Petén. Le proteste erano rivolte contro la politica del capo dello Stato e contro la sua decisione di cacciare dal paese la Comisión Internacional contra la Impunidad en Guatemala (Cicig). Già due giorni prima migliaia di persone erano scese in piazza contro la corruzione e per esprimere appoggio alla Cicig. L'organismo delle Nazioni Unite aveva denunciato nel 2016 un figlio e un fratello di Morales perché coinvolti in una truffa e l'anno successivo aveva chiesto che venisse revocata l'immunità allo stesso presidente, sospettato di finanziamento illecito nel corso della sua campagna elettorale. In quell'occasione Morales era stato salvato dal Congresso, che aveva evitato l'apertura di un'indagine. La fine dell'accordo del 2006 che aveva portato alla creazione della Commissione era stata notificata il 7 gennaio dalla ministra degli Esteri, Sandra Jovel, ma il segretario generale dell'Onu aveva respinto la decisione, invitando il governo guatemalteco a rispettare i suoi impegni internazionali. Nel frattempo si svolgeva un braccio di ferro tra l'esecutivo e la Corte Costituzionale, che interveniva per permettere l'ingresso nel paese di uno degli inviati della Commissione, Yilen Osorio Zuluaga, bloccato in aeroporto dalle autorità migratorie. La Corte si pronunciava inoltre contro l'interruzione unilaterale della missione della Cicig. Non è la prima volta che Morales tenta di liberarsi della presenza scomoda dell'organismo dell'Onu. Lo aveva già fatto nel 2017 ordinando l'espulsione del titolare, il colombiano Iván Velásquez: anche allora un intervento della Corte Costituzionale aveva reso nullo il provvedimento. L'anno successivo il capo dello Stato aveva manifestato la decisione di non rinnovare il mandato della Cicig per presunte violazioni alle leggi nazionali. L'annuncio era stato fatto nel corso di una conferenza stampa mentre, in un chiaro atto di intimidazione, veicoli militari prendevano posizione di fronte alla sede dell'organismo. E di nuovo, a bloccare il tentativo del presidente, era intervenuto il massimo tribunale. Massicce manifestazioni in diverse città avevano mostrato il malcontento della popolazione nei confronti della corrotta classe politica. Non si arresta intanto la strage di ambientalisti e difensori dei diritti umani. Tra le ultime vittime i fratelli Neri e Domingo Esteban Pedro, assassinati in dicembre: si battevano contro la costruzione di una centrale idroelettrica nella regione di Ixquisis (Huehuetenango). A fine luglio era stata uccisa Juana Raymundo, della comunità ixil: il suo corpo era stato ritrovato con segni di tortura a Nebaj, nel Quiché. Juana faceva parte del Movimiento para la Liberación de los Pueblos e del Comité de Desarrollo Campesino, una delle principali organizzazioni rurali del Guatemala. E in settembre, sempre a Nebaj, veniva colpita a morte dai killer la dirigente della Red de Mujeres Ixiles Juana Ramírez Santiago. 15/1/2019 |
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Cuba, sessant'anni fa trionfava la Revolución Il primo gennaio 1959 segnava il trionfo dell'insurrezione contro il dittatore Batista. Sessant'anni dopo la ricorrenza è stata festeggiata con particolare solennità a Santiago de Cuba, la cuna de la Revolución. Nel suo discorso Raúl Castro ha sottolineato gli sforzi compiuti da varie generazioni di cubani per conquistare la definitiva indipendenza del paese. E Díaz-Canel ha scritto, in un messaggio su Twitter: "Sì alla celebrazione, all'allegria, alla difesa instancabile di tutto ciò che abbiamo costruito e abbiamo edificato insieme". Il sessantesimo anniversario trova gli abitanti dell'isola impegnati nella discussione sul progetto di nuova Costituzione, destinata a trasformare i lineamenti, fortemente centralisti, dell'ordinamento del 1976. In luglio l'Asamblea Nacional del Poder Popular aveva approvato una prima bozza di riforma, che era stata poi sottoposta alla consultazione popolare. In seguito oltre 133.000 riunioni avevano portato a più di 700.000 proposte di modifiche o eliminazioni. Il 22 dicembre i deputati hanno ratificato il testo risultante, che sarà oggetto di un referendum in febbraio. Nel progetto è stata reinserita l'aspirazione al comunismo, cancellata nella precedente bozza, e rimane intatto il ruolo del Pc cubano. In campo economico, al sistema socialista pianificato si affianca il riconoscimento delle nuove forme di proprietà collettiva e privata. Un punto su cui si è molto dibattuto riguarda il cambiamento della definizione di matrimonio, non più tra un uomo e una donna, ma tra due persone. Si apre così uno spiraglio verso l'introduzione del matrimonio egualitario, come richiesto dalla comunità lgbt. A metà dicembre era terminato il rientro in patria dei medici provenienti dal Brasile, dopo la decisione del governo dell'Avana di ritirare gli oltre 8.000 professionisti che lavoravano nel paese sudamericano nell'ambito del programma Mais Médicos, realizzato attraverso l'Organización Panamericana de la Salud. Il ritiro era stato disposto in seguito alle critiche avanzate dal presidente brasiliano Bolsonaro (non ancora insediato), che aveva messo in dubbio la preparazione degli specialisti cubani e ne aveva condizionato la permanenza alla convalida dei titoli e alla stipula di contratti individuali. Tali modifiche "impongono condizioni inaccettabili e vengono meno alle garanzie concordate all'inizio del programma, che erano state ratificate nel 2016", ha risposto il Ministero della Sanità Pubblica dell'Avana. In cinque anni erano stati assistiti oltre 113 milioni di pazienti delle zone più povere e impervie del Brasile, che in precedenza non avevano mai goduto di alcuna assistenza sanitaria. E in gennaio si è scoperta la verità sui presunti attacchi acustici contro funzionari delle ambasciate di Stati Uniti e Canada, che avevano provocato gravi crisi diplomatiche. l colpevoli non erano agenti segreti cubani o russi, come si era ipotizzato, ma grilli della specie caraibica Anurogryllus celerinictus, il cui canto è particolarmente penetrante. Lo ha rivelato una ricerca scientifica condotta dall'Università di Berkeley, in California, e da quella di Lincoln, in Gran Bretagna. In realtà tale risultato era già stato reso noto più di un anno prima da scienziati cubani, ma è stato necessario attendere uno studio angloamericano perché i media di tutto il mondo riportassero la notizia. 8/1/2019 |
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Colombia, una pace sempre più minacciata È terminata il 3 gennaio la tregua proclamata dall'Ejercito de Liberación Nacional, a partire dal 23 dicembre, "per generare un clima di tranquillità durante il Natale e l'Anno Nuovo". Il gruppo guerrigliero aveva voluto così venire incontro alle richieste della popolazione che soffre per il conflitto. Nessuna sospensione delle ostilità invece era stata decisa dal governo, che non ha fatto nulla per favorire il dialogo. Fin dall'inizio del suo mandato Duque ha posto come condizioni preliminari alla ripresa delle trattative che l'Eln sospenda unilateralmente ogni azione militare, liberi tutte le persone sequestrate e accetti di ritirarsi in una determinata zona sotto supervisione internazionale. Condizioni che la guerriglia ha respinto perché disconoscono gli accordi presi in precedenza. In novembre il governo colombiano aveva sollecitato a Cuba la cattura e l'estradizione del leader dell'Eln Nicolás Rodríguez Gabino. Una sorta di provocazione, visto che l'isola è la sede dei colloqui di pace, interrotti con l'ascesa al potere di Iván Duque. E a Cuba rimane la delegazione guerrigliera. "Abbiamo ripetuto a più riprese che non ci alzeremo dal tavolo delle trattative - ha spiegato in una recente intervista a Telesur il comandante Pablo Beltrán - Stiamo mostrando con chiarezza che non disperiamo, stiamo trattando nel frattempo di fare tutto ciò che possiamo da qui, dall'Avana, per la pace in Colombia". Il 24 novembre 2016 avveniva la firma degli accordi tra il governo e le Farc. Da allora sono oltre ottanta gli ex guerriglieri assassinati. In ottobre due ex comandanti, Iván Márquez (che fu anche capo negoziatore) e Oscar Montero El Paisa, in una lettera alla Comisión de Paz del Senato avevano denunciato il "tradimento" di quanto accordato, affermando che le modifiche al testo originale "hanno trasformato questo patto in un mostruoso Frankenstein". Si riferivano in particolare ai cambiamenti apportati dal Congresso al sistema di giustizia, chiamato a giudicare i crimini commessi da entrambe le parti nel corso del conflitto. "Ingenuamente abbiamo creduto nella parola e nella buona fede del governo, nonostante Manuel Marulanda Vélez ci avesse sempre avvertito che le armi erano l'unica garanzia sicura del compimento di eventuali accordi". E secondo un rapporto presentato a metà dicembre dalla Defensoría del Pueblo, nel 2018 sono stati assassinati 164 dirigenti sociali e comunitari. L'elenco non è completo: alla vigilia di Natale è stato colpito a morte da membri dell'esercito Luis Eduardo Garay, dell'Asociación de Campesinos del Sur de Córdoba. Il 29 dicembre, nel dipartimento del Chocó, è stato trovato il corpo della giovanissima leader della popolazione embera Maye Sarco Dogirama: era stata uccisa a colpi d'arma da fuoco. Anche il 2019 è iniziato all'insegna della violenza: in sei giorni si contano già altrettante vittime. Tra queste l'afro-discendente Maritza Quiroz Leiva, che guidava la lotta delle donne sfollate di Santa Marta (dipartimento di Magdalena), assassinata dai sicari nella sua abitazione. Gli ultimi mesi dell'anno sono stati caratterizzati da massicce manifestazioni, in tutto il paese, contro la politica economica del presidente Duque. Il movimento, iniziato dagli universitari che chiedevano più fondi per gli atenei pubblici, ha visto scendere in piazza maestri, pensionati, indigeni, contadini. Alle mobilitazioni hanno aderito le principali centrali sindacali, in lotta contro la proposta di riforma tributaria dell'esecutivo. A metà dicembre gli studenti hanno ottenuto una prima vittoria: il governo si è impegnato a garantire le risorse richieste per l'istruzione superiore. 6/1/2019 |
Latinoamerica-online.it a cura di Nicoletta Manuzzato |