Latinoamerica-online.it

 

La drammatica marcia dei migranti centroamericani  (17/12/2018)

Michelle Bachelet alta commissaria per i Diritti Umani dell'Onu  (13/8/2018)

Muore impunito il terrorista Posada Carriles  (24/5/2018)

Colpo mortale all'integrazione sudamericana?  (21/4/2018)

Senza gli Usa nasce il nuovo accordo transpacifico  (8/3/2018)

L'arma giuridica contro i movimenti progressisti  (8/2/2018)

 

Argentina

Due nuove vittime della repressione  (26/11/2018)

Il Senato boccia la legalizzazione dell'aborto  (9/8/2018)

"No alla militarizzazione dell'Argentina"  (27/7/2018)

Paro general contro il Fmi  (27/6/2018)

Di nuovo in piazza contro il governo  (25/3/2018)

 

Bolivia

Niente accesso al mare per la Bolivia  (3/10/2018)

Muore l'ex dittatore García Meza  (30/4/2018)

 

Brasile

L'estrema destra al potere attraverso il voto  (29/10/2018)

Con Lula in prigione si conclude il golpe  (8/4/2018)

L'uccisione di Marielle Franco  (17/3/2018)

 

Cile

Mapuche ucciso da agenti antiterrorismo  (19/11/2018)

La lunga lotta contro l'inquinamento  (21/10/2018)

Pensionati e studenti scendono in piazza  (17/5/2018)

 

Colombia

Quorum mancato per la Consulta Anticorrupción  (27/8/2018)

Vince il candidato di Uribe  (18/6/2018)

La Colombia aderisce alla Nato  (28/5/2018)

Nuovi attacchi al processo di pace  (12/4/2018)

160 leader sociali assassinati dal 2016  (17/3/2018)

 

Costa Rica

Sconfitto l'oscurantismo religioso  (2/4/2018)

 

Cuba

L'Onu chiede nuovamente la fine dell'embargo  (3/11/2018)

Díaz-Canel succede a Raúl Castro  (20/4/2018)

 

Ecuador

"Moreno ha trattato sottobanco con la Chevron"  (8/9/2018)

Vittoria (parziale) di Moreno  (6/2/2018)

 

El Salvador

Il Fmln perde le elezioni legislative  (12/3/2018)

 

Guatemala

Disastro naturale e inefficienza governativa  (11/6/2018)

La morte dell'ex dittatore Ríos Montt  (2/4/2018)

 

Honduras

Giustizia a metà per Berta Cáceres  (30/11/2018)

Insediamento tra le proteste  (28/1/2018)

 

Messico

Verso la quarta trasformazione  (3/12/2018)

Il trionfo di López Obrador  (4/7/2018)

Verso il voto tra violenza e crisi economica  (28/2/2018)

 

Nicaragua

Gli appelli al dialogo non fermano gli scontri  (6/6/2018)

Migliaia in piazza contro la riforma  (27/4/2018)

 

Paraguay

Un governo sempre più a destra  (24/4/2018)

 

Perù

Schiacciante vittoria di Vizcarra al referendum  (10/12/2018)

Fujimori si salva dal carcere con una legge ad personam  (12/10/2018)

Travolto dagli scandali Kuczynski si dimette  (22/3/2018)

 

Venezuela

Fallisce attentato contro Maduro  (9/8/2018)

Nicolás Maduro rieletto presidente  (24/5/2018)

La destra del continente all'attacco del Venezuela  (15/4/2018)

 


La drammatica marcia dei migranti centroamericani

Aveva sette anni la bimba guatemalteca Jakelin Caal Maquin, morta mentre era sotto la custodia delle guardie di frontiera statunitensi, che si sono disinteressate delle sue condizioni di salute fino a quando non è stato troppo tardi. A ucciderla sembra sia stata la disidratazione conseguente a shock settico. E il giorno di Natale la stessa sorte è toccata a un ragazzino di otto anni, Felipe Gómez Alonzo, anche lui guatemalteco: portato all'ospedale il giorno prima, gli era stato diagnosticato un semplice raffreddore ed era stato dimesso. Sono le vittime della drammatica crisi dei migranti centroamericani che in migliaia, a partire dal 12 ottobre, hanno percorso chilometri e chilometri fuggendo dalla miseria e dalla violenza delle maras. Ad attenderli al confine con gli Stati Uniti hanno però trovato l'esercito, incaricato di respingere "l'invasione".

La brutalità delle autorità nordamericane del resto è notoria: in giugno aveva destato scandalo l'immagine dei tanti bambini separati dai familiari e rinchiusi in grosse gabbie perché colpevoli di essere entrati illegalmente nel paese. Un provvedimento inumano che aveva destato indignazione nel mondo intero, obbligando l'amministrazione statunitense a fare (parzialmente) marcia indietro. Ma non tutti i piccoli sono stati poi restituiti ai genitori: alcuni si sono persi nei meandri della burocrazia, che in questa occasione si è rivelata estremamente inefficiente.

I migranti di questi mesi non sono certo i primi ad aver intrapreso il lungo viaggio inseguendo il sogno americano; a differenza del passato, però, non si sono incamminati alla spicciolata, ma in grandi gruppi per evitare le tante insidie del cammino, le estorsioni dei funzionari e la violenza delle bande criminali. La loro vicenda è stata sfruttata ampiamente da Donald Trump per contenere il previsto calo di consensi nelle elezioni di medio termine del 6 novembre. A tal fine non ha esitato a definire la situazione una "emergenza nazionale", denunciando la presenza nelle carovane di "criminali e sconosciuti provenienti dal Medio Oriente". Come rappresaglia ha poi ridotto gli aiuti economici a Guatemala, Salvador e Honduras, che - ha scritto in Twitter - non hanno impedito l'emigrazione dei loro concittadini. Quanto al governo del presidente uscente Peña Nieto, dietro pressione statunitense ha accolto i migranti con agenti antisommossa e lancio di gas lacrimogeni. E a fine ottobre, mentre insieme agli altri tentava di passare la frontiera tra Messico e Guatemala, un giovane honduregno è stato mortalmente ferito alla testa da una pallottola di gomma.

Nel corso della loro lunga marcia le carovane hanno spesso incontrato la solidarietà e l'aiuto della popolazione locale. Ben diversa la situazione una volta a Tijuana, città al confine con gli Stati Uniti, dove gli abitanti hanno accolto con ostilità l'arrivo di queste masse di disperati. Davanti alla prospettiva di passare mesi prima di ottenere dalle autorità Usa una risposta alla loro richiesta di asilo, a fine novembre alcuni migranti hanno tentato di superare gli sbarramenti che li separavano dalla meta, ma sono stati respinti con la forza. Posti di fronte alla realtà, molti hanno intrapreso tristemente la via del ritorno con l'aiuto delle rispettive ambasciate. Altri si sono fermati in Messico, sperando nell'impiego promesso da un progetto statale in collaborazione con imprese private. La maggioranza si è rassegnata all'attesa, a due passi dalla "terra promessa".

17/12/2018


Perù, schiacciante vittoria di Vizcarra al referendum

Il presidente Vizcarra ha ottenuto una schiacciante vittoria nel referendum del 9 dicembre su una serie di riforme costituzionali. La consultazione era stata promossa dallo stesso capo dello Stato e oltre l'85% degli elettori ha seguito le sue indicazioni, votando Sì ai primi tre quesiti (introduzione del divieto di due mandati consecutivi per i parlamentari, controllo sul finanziamento dei partiti politici e delle campagne elettorali, riforma giudiziaria con l'istituzione di un nuovo organismo incaricato di designare e destituire giudici e procuratori) e No al quarto (ritorno a un Parlamento bicamerale). Su quest'ultimo punto Vizcarra aveva deciso per la bocciatura dopo che la proposta era stata snaturata dagli emendamenti introdotti, in sede di discussione, dalla maggioranza fujimorista.

Con il suo voto l'elettorato ha voluto punire i responsabili dei casi di corruzione emersi recentemente, che hanno coinvolto politici fujimoristi e apristi e magistrati collusi. Per i grandi sconfitti, Keiko Fujimori e il suo alleato, l'ex presidente Alan García, i problemi non si fermano qui. La figlia del dittatore, arrestata una prima volta il 10 ottobre e liberata una settimana dopo, a fine mese è stata raggiunta da un nuovo mandato di carcerazione preventiva per riciclaggio e finanziamento illegale della campagna elettorale del 2011. Non va molto meglio al padre: Alberto Fujimori è ancora ricoverato in una clinica, ma potrebbe tornare in prigione appena dimesso, perché Vizcarra non ha promulgato la legge che gli garantiva la scarcerazione per limiti di età. E con Keiko in galera, il partito fujimorista è entrato in profonda crisi: divisioni interne e defezioni stanno mettendo in forse il suo potere nel Congresso.

Quanto ad Alan García, accusato di aver ricevuto tangenti dall'impresa brasiliana Odebrecht per la costruzione della metropolitana di Lima durante il suo secondo mandato (2006-2011), si è rifugiato nella residenza dell'ambasciatore uruguayano chiedendo asilo e proclamandosi perseguitato politico. Già alla fine della sua prima presidenza era riuscito a sottrarsi alla giustizia, che lo sospettava di corruzione, cercando protezione presso la rappresentanza diplomatica colombiana. Questa volta però gli è andata male: il governo di Montevideo ha respinto la sua richiesta. Anche per lui sembra dunque finita quell'impunità che lo ha accompagnato per decenni.

10/12/2018


Il Messico verso la quarta trasformazione

"Oggi non inizia solo un nuovo governo, oggi comincia un cambiamento di regime politico. A partire da ora si avvierà una trasformazione politica e ordinata, ma al tempo stesso profonda e radicale". Con queste parole, pronunciate alla Camera il primo dicembre all'atto dell'insediamento, Andrés Manuel López Obrador ha indicato che il suo governo intende voltare pagina, dando il via a quella quarta trasformazione del paese (dopo la lotta per l'indipendenza, le riforme in senso laico e modernizzatore di Benito Juárez, la Rivoluzione del 1910) che aveva promesso in campagna elettorale.

Non lo aspetta un compito facile. La guerra al narcotraffico, scatenata dalla presidenza Calderón, ha portato a decine di migliaia di omicidi solo nel sessennio di Peña Nieto, mentre i poteri dei cartelli della droga si sono estesi a tutto il territorio nazionale. Nel macabro elenco dei caduti figurano numerosi leader comunitari: tra le ultime vittime Julián Carrillo, difensore della sierra tarahumara, e Noel Castillo, del Comité por la Defensa de los Derechos Indígenas di Oaxaca, assassinati in ottobre. Moltissimi anche i giornalisti, tanto che il Messico è considerato uno dei paesi più pericolosi per questa professione. Proprio il giorno dell'insediamento è stato trovato il corpo senza vita di Jesús Alejandro Márquez Jiménez, direttore del settimanale Orión Informativo ed ex candidato di Morena a regidor del municipio di Tuxpan. E la spirale di violenza è alimentata dall'impunità. Per dare un segno di cambiamento López Obrador ha posto tra i suoi punti programmatici un'indagine a fondo sul caso più emblematico di questi anni: la scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa.

Nel "fallimento del modello neoliberista applicato in 36 anni" e nel "predominio della più immonda corruzione pubblica e privata" Amlo ha individuato le cause della crisi in cui versa il paese. La presidenza di Peña Nieto ha visto la politica neoliberista portata alle estreme conseguenze, con l'apertura dell'industria energetica ai privati. Gli effetti non sono stati quelli sperati: non sono arrivati gli attesi capitali esteri, mentre il prezzo dei combustibili è cresciuto e la produzione è calata, tanto che attualmente il Messico deve importare non solo benzina, ma anche greggio. López Obrador propone un'inversione di tendenza, con maggiori investimenti pubblici indirizzati non soltanto all'ammodernamento del settore, ma alla costruzione di nuove infrastrutture. I fondi per tali progetti e per i programmi sociali a favore di disoccupati, studenti, pensionati verranno reperiti attraverso la lotta alla corruzione e la riduzione delle spese di gestione. Lo stesso Amlo ha voluto dare l'esempio, decidendo la vendita dell'aereo presidenziale e tagliando del 40% il proprio appannaggio.

Anche nel metodo di governo si preannuncia una svolta. Le scelte su temi rilevanti per la vita dei cittadini saranno sottoposte a consultazione popolare: è già avvenuto in questi mesi di transizione con il progetto del nuovo aeroporto internazionale della capitale, che era avversato dagli ambientalisti e dagli ejidatarios della zona e che è stato bocciato dalla maggioranza dei votanti. È previsto inoltre un plebiscito nella prima domenica di luglio 2021, che potrà decidere la revoca del mandato presidenziale.

Il primo impegno della nuova amministrazione sarà quello di prestare particolare attenzione alla condizione della popolazione indigena: "È una vergogna che i nostri popoli originari vivano da secoli sotto l'oppressione e il razzismo, caricando sulle spalle la miseria e l'emarginazione". E le comunità native hanno risposto dando fiducia al neopresidente: nel corso di un solenne rituale nello Zócalo della capitale hanno chiesto per lui la protezione degli antenati e la leader comunitaria di Oaxaca, Carmen Santiago Alonso, a nome dei 68 popoli originari gli ha consegnato il bastón de mando. Carmen, la guardiana del agua, è una figura nota e rispettata per la sua lunga lotta in difesa delle risorse idriche minacciate dall'attività estrattiva, una battaglia che finora ha trovato nel governo federale un nemico. La consacrazione di Amlo nello Zócalo costituisce dunque una svolta storica: è la prima volta che un capo dello Stato messicano riceve in questa forma il simbolo indigeno del comando, segno di potere e di grande responsabilità.

3/12/2018


Honduras, giustizia a metà per Berta Cáceres

La coordinatrice del Copinh (Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras) Berta Cáceres venne uccisa la notte del 2 marzo 2016 da due killer penetrati nella sua abitazione. Nell'attacco rimase ferito l'ambientalista messicano Gustavo Castro. Il 29 novembre il processo di primo grado si è concluso riconoscendo la colpevolezza di sette degli otto imputati per quel delitto. Tra i condannati Sergio Rodríguez e Douglas Bustillo, funzionari della Desa, l'impresa che Berta combatteva perché, con il progetto idroelettrico Agua Zarca, minacciava il territorio e le risorse idriche della comunità lenca.

Nella sentenza non si fa però cenno a chi contrattò i killer, quasi che questi abbiano agito di loro iniziativa. È quanto denunciano in un comunicato i familiari e il Copinh: "L'assassinio di Berta Cáceres fu pianificato dai dirigenti dell'impresa Desa per essere poi eseguito da sicari legati alle forze armate honduregne. Tuttavia la verità sul crimine e su tutti i suoi responsabili si è limitata a quanti sono stati ora giudicati, a causa degli irremovibili ostacoli che lo Stato dell'Honduras ha frapposto attraverso il suo pubblico ministero e i suoi tribunali per negare la verità come parte di una giustizia reale". I firmatari del documento accusano che "dietro tutta la trama di persecuzione, atti di ostilità, attacchi e minacce che hanno portato all'omicidio" c'è la famiglia Atala Zablah, maggiore azionista della Desa. Ma finora solo il presidente esecutivo della società, Roberto David Castillo, è stato arrestato sotto l'accusa di essere l'ideatore del crimine e sarà giudicato in un processo a parte.

La famiglia di Berta e il Copinh comunque non si arrendono. "L'impunità che hanno fin qui mostrato e di cui godono i mandanti di questo delitto fa parte della rete di corruzione e violenza che sostiene il modello estrattivo. Quel modello che saccheggia i nostri popoli e che noi vittime, insieme alle altre persone, comunità e organizzazioni ci impegniamo a combattere senza tregua, come ha fatto Berta Cáceres, finché la Dignità, la Verità e la Giustizia non prevarranno in questa causa e in tutte le lotte che nello stesso momento si stanno svolgendo in diversi territori dell'Honduras e del mondo", conclude il comunicato.

30/11/2018


Argentina, due nuove vittime della repressione

Lo hanno colpito alle spalle nel corso dell'attacco sferrato dalla polizia della provincia di Buenos Aires contro un centinaio di famiglie che cercavano di occupare alcuni terreni incolti a Ciudad Evita, nel dipartimento de La Matanza, a pochi chilometri dal centro della capitale. Rodolfo Orellana, 33 anni, militante della Confederación de Trabajadores de la Economía Popular (Ctep) e padre di cinque figli, è morto all'alba del 22 novembre. Un video che circola in rete mostra i suoi ultimi istanti: il giovane è riverso in un prato mentre i suoi compagni cercano di rianimarlo e qualcuno chiede a gran voce un'ambulanza; in lontananza si sentono echeggiare altri spari.

La prima reazione ufficiale è stata quella di negare la responsabilità delle forze di sicurezza, attribuendo la morte di Orellana a una coltellata nel corso di una lite tra gli occupanti. L'autopsia ha però chiarito che a uccidere è stato un proiettile e i testimoni affermano che il tiro mortale è uscito dall'arma di una poliziotta. Due giorni dopo il copione si è ripetuto: Marcos Soria, 32 anni, anche lui militante della Ctep è stato assassinato dagli agenti della provincia di Córdoba. Smentendo la versione della polizia, che parlava di un colpo alla testa dopo un tentato furto, il racconto dei familiari presenta una ben diversa ricostruzione: Soria, lavoratore agricolo presso una delle unità produttive dell'organizzazione, è stato fermato e brutalmente picchiato da due poliziotti. Ha cercato di fuggire, ma è stato ripreso e ucciso a sangue freddo.

In ottobre le forze di sicurezza avevano caricato con violenza un corteo dell'opposizione che cercava di raggiungere la sede del Congresso, dove si stava discutendo il bilancio di previsione per il 2019: numerosi dimostranti erano stati feriti e decine arrestati. Il bilancio è stato infine approvato a metà novembre con l'appoggio del Peronismo Federal (gruppo peronista di destra): prevede ulteriori misure di austerità in base alle richieste del Fondo Monetario Internazionale. I nuovi tagli non faranno che approfondire la crisi e accrescere l'esasperazione della popolazione, che si è già manifestata con massicce adesioni agli scioperi generali proclamati dalle centrali sindacali (il 25 e 26 settembre un'astensione dal lavoro di 36 ore aveva paralizzato tutto il paese).

26/11/2018


Cile, mapuche ucciso da agenti antiterrorismo

Si è trattato di un omicidio a sangue freddo. Il giovane mapuche Camilo Catrillanca è stato ucciso il 14 novembre a Temucuicui da membri del Comando Jungla dei carabineros, che hanno poi fornito una loro versione dei fatti: la sparatoria sarebbe avvenuta nel corso dell'inseguimento di alcuni ladri d'auto, che dopo il furto si erano rifugiati presso la comunità indigena. Ben diverso il racconto dei testimoni, riportato a Radio Cooperativa dal consigliere dell'Instituto Nacional de Derechos Humanos José Aylwin: Catrillanca era a bordo di un trattore e si stava dirigendo verso casa quando ha incontrato sulla sua strada gli agenti: ha cercato di retrocedere, ma è stato raggiunto da un proiettile alla testa. Il ragazzo che era con lui è stato fermato e picchiato.

Il giovane assassinato era nipote di Juan Catrillanca, il lonko (leader) che aveva guidato la comunità di Temucuicui nel recupero di parte delle proprie terre. Lo stesso Camilo era un weichafe, un guerriero della causa mapuche. Contro questa uccisione nei giorni successivi centinaia di persone sono scese in piazza e si sono registrati scontri in diverse località del paese; a Temuco e a Santiago la polizia ha attaccato i manifestanti con idranti e gas lacrimogeni.

"Dal Congresso abbiamo emesso una dichiarazione congiunta del gruppo socialista, del Frente Amplio, del comunismo, del Partido por la Democracia e del Partido Demócrata de Chile" condannando la violenza delle forze repressive, ha affermato la deputata mapuche Emilia Nuyado, che ha denunciato le tante incorerenze presenti nel resoconto ufficiale sulla morte di Camilo. Di manipolazione e occultamento delle informazioni ha parlato anche il Colegio de Periodistas, che ha chiesto un completo chiarimento dei fatti. Dopo una serie di smentite, il ministro dell'Interno Andrés Chadwick ha dovuto infine riconoscere che i carabineros avevano filmato l'accaduto e che in seguito avevano cancellato le registrazioni.

Elemento estremamente inquietante è il coinvolgimento, in un'operazione contro ladri d'auto, del Comando Jungla, unità antiterrorismo addestrata in Colombia e che è stata inviata nell'Auracanía dal governo Piñera. La sua presenza in territorio mapuche rientra nell'obiettivo di criminalizzare la protesta delle comunità indigene e di trattare ogni azione di resistenza come un atto di terrorismo.

19/11/2018


Cuba, l'Onu chiede nuovamente la fine dell'embargo

Anche quest'anno Cuba ha ottenuto l'appoggio quasi unanime dell'Assemblea Generale dell'Onu sul documento di condanna all'embargo statunitense: 189 i paesi a favore e solo due contrari, Stati Uniti e Israele. Prima della votazione erano stati respinti gli otto emendamenti presentati da Washington per tentare di screditare la politica cubana. La manovra Usa, definita un disonesto stratagemma dal ministro degli Esteri dell'Avana, Bruno Rodríguez, era riuscita solo ad allungare il dibattito.

"I popoli del mondo hanno votato per Cuba perché sanno che la nostra causa è veramente giusta", ha scritto su Twitter il presidente Miguel Díaz-Canel da Mosca, dove era giunto in visita ufficiale. Il viaggio di Díaz-Canel nella capitale russa e il suo incontro con Vladimir Putin sono il preludio a più stretti rapporti economici e commerciali tra i due paesi, come emerge dal comunicato congiunto emesso al termine dei colloqui. Progetti di cooperazione bilaterale verranno sviluppati nei settori dell'energia, del trasporto, della metallurgia, della biotecnologia.

Soltanto due anni fa, durante la presidenza Obama, la risoluzione contro il blocco non aveva registrato alcuna opposizione nell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite: Stati Uniti e Israele avevano deciso di astenersi. Nel 2017, con l'arrivo dei repubblicani alla Casa Bianca, era tornata la tradizionale ostilità. E quest'anno, mentre all'Onu si votava per la fine dell'embargo, a Miami il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa John Bolton annunciava nuove dure misure contro l'Avana (e contro Caracas). In un discorso rivolto alla comunità degli esiliati cubani in vista delle elezioni di medio termine del 6 ottobre, Bolton assicurava che Trump era deciso a tener fede all'impegno di ribaltare la "politica sbagliata" del suo predecessore nei confronti dell'isola.

3/11/2018


Brasile, l'estrema destra al potere attraverso il voto

Il nuovo presidente del Brasile è Jair Bolsonaro, l'ex capitano dell'esercito noto per le sue posizioni di estrema destra e le sue sparate misogine, razziste, omofobe, un nostalgico della dittatura che - a suo parere - ebbe l'unico torto di non uccidere abbastanza oppositori. La vittoria del "candidato dell'odio", come è stato definito, dell'uomo favorevole alla tortura e alla massiccia diffusione delle armi, è il risultato del colpo di Stato del 2016 contro Dilma Rousseff. Un colpo di Stato completato con la condanna senza prove e con l'arresto di Lula, che secondo tutti i sondaggi avrebbe vinto con facilità le elezioni. Il 31 agosto il Tribunal Superior Eleitoral impediva all'ex presidente di candidarsi e gli proibiva qualsiasi intervento nella campagna attraverso interviste o dichiarazioni alla stampa. A nulla servivano gli appelli di personalità di tutto il mondo contro questa sentenza, le decine di migliaia di firme raccolte, le massicce manifestazioni come la Marcha Nacional Lula Livre e persino le raccomandazioni del Comitato per i Diritti Umani dell'Onu.

Il Partido dos Trabalhadores doveva ripiegare su Fernando Haddad, ex sindaco di São Paulo ed ex ministro dell'Istruzione, accompagnato da Manuela D'Avila del Partido Comunista de Brasil come candidata alla vicepresidenza. Ma il tentativo di far convergere su Haddad il potenziale elettorato di Lula riusciva solo in parte. Al primo turno, domenica 7 ottobre, Bolsonaro raccoglieva i voti di tutto lo schieramento di destra ottenendo il 46% dei consensi, contro il 29% di Haddad e il 12,5% di Ciro Gomes (centrosinistra). Ad aiutarlo forse anche l'attentato di cui aveva sofferto in settembre (un uomo, probabilmente uno squilibrato, lo aveva accoltellato durante un comizio): con il pretesto delle conseguenze dell'attacco aveva evitato ogni confronto televisivo con gli avversari, concedendo interviste senza contraddittorio a media compiacenti. E neppure le manifestazioni di centinaia di migliaia di donne, scese in piazza con lo slogan Ele não per mostrare il loro ripudio verso l'ex capitano, avevano intaccato la sua base elettorale.

L'elezione di Bolsonaro con oltre il 55% dei voti è stata resa possibile grazie all'opera di demonizzazione del Pt portata avanti dai settori oligarchici con l'appoggio dei grandi media, che hanno presentato il partito di Lula come il responsabile della corruzione e dell'insicurezza esistenti nel paese. Ma per distruggere la figura di Haddad, la propaganda dell'ex capitano si è avvalsa di strumenti ancora più insidiosi: le tecnologie digitali che hanno diffuso agli elettori, tramite Whatsapp, milioni di fake news. Una campagna sporca che le autorità elettorali non sono state in grado di contrastare.

Un sostegno fondamentale al nuovo presidente è venuto inoltre dalle sette evangeliche che nei decenni scorsi hanno guadagnato enorme spazio a spese della Chiesa cattolica, penetrando anche nei quartieri poveri. In particolare la guida spirituale dell'Igreja Universal do Reino de Deus, Edir Macedo, ha messo a disposizione di Bolsonaro la sua potente RecordTV. Altro importante alleato è l'esercito che si riconosce nel vicepresidente, il generale a riposo Hamilton Mourão. Negli ultimi tempi le forze armate sono entrate di peso nella politica brasiliana, fiancheggiando le posizioni più reazionarie.

Nel suo primo discorso dopo la vittoria, Bolsonaro ha assicurato che libererà il paese dal pericolo comunista e socialista, difenderà la famiglia e prenderà decisioni sulla base della Costituzione e della Bibbia. Il suo successo alle presidenziali si è riflesso anche nelle legislative: alla Camera, su 513 membri, la sua formazione (Partido Social Liberal) è passata da uno a 52 deputati, erodendo i tradizionali raggruppamenti di destra, il Partido da Socialdemocracia Brasileira e il Movimento democrático brasileiro. Il Pt, pur restando il gruppo più numeroso, è sceso da 68 a 56 seggi. Il Partido Socialismo e Liberdade ha ottenuto dieci deputati. Al Senato, su 81 membri, il Pt ha conquistato sei senatori e il Partido Social Liberal quattro. Quello uscito dalle urne è un Congresso fortemente atomizzato, dove il governo potrà comunque contare sui voti dei numerosi militari o ex poliziotti passati alla politica, degli esponenti del fondamentalismo evangelico e dei rappresentanti dell'agroindustria, a cui promette di svendere ampi tratti dell'Amazzonia.

29/10/2018


Cile, la lunga lotta contro l'inquinamento

Gli abitanti di Quintero e Puchuncaví, nella regione di Valparaíso, convivono da decenni con grandi insediamenti industriali (fonderie, raffinerie, impianti chimici) che hanno avvelenato acqua, aria e suolo tanto che l'area è stata riconosciuta, dall'Instituto Nacional de Derechos Humanos, come "zona di sacrificio". L'inquinamento ha danneggiato le coltivazioni e la pesca, ma soprattutto ha rovinato la salute della popolazione: gravi problemi respiratori, aborti spontanei e aumento dei tumori, presenza di metalli pesanti nel sangue dei bambini.

Le prime segnalazioni del degrado ambientale risalgono al 1968, come risulta dal Ministero dell'Agricoltura che in quell'anno registrò il reclamo dei coltivatori locali. Dopo il periodo buio della dittatura, con il ritorno della democrazia le mobilitazioni ripresero e negli anni Novanta ottennero l'avvio di un piano limitato di decontaminazione, senza però che gli impianti produttivi venissero spostati. Un nuovo programma di decontaminazione è stato bocciato nel 2017 dalla Contraloría dello Stato.

Di fronte al peggioramento della situazione e all'inerzia delle autorità le proteste sono riprese con forza. In prima fila i liceali, che il 17 ottobre si sono incatenati all'entrata del Ministero dell'Ambiente a Santiago, nel quadro della "settimana della disobbedienza" convocata dall'Asamblea Coordinadora de Estudiantes Secundarios contro il governo Piñera. "Ogni giorno ci sono bambini che finiscono in ospedale intossicati - ha spiegato il portavoce degli studenti, Alexis Rojas - Abbiamo le percentuali di cancro più alte di tutto il paese, è colpa delle imprese. E in meno di due mesi ci sono stati più di 1.500 intossicati, o per meglio dire avvelenati".

La risposta dell'esecutivo è stata la repressione: violente cariche e uso di idranti per disperdere manifestazioni e blocchi stradali, arresti indiscriminati di dimostranti. E intanto permane il mistero sulla morte di Alejandro Castro El Mecha, leader di un sindacato di pescatori di Quintero, trovato impiccato il 4 ottobre. Castro era molto attivo nelle mobilitazioni contro l'inquinamento e il giorno precedente aveva partecipato a un corteo a Valparaíso. Secondo gli inquirenti si è trattato di suicidio, ma sono in pochi a crederci, tanto più dopo le minacce che El Mecha aveva ricevuto da carabineros delle forze speciali.

21/10/2018


Perù, Fujimori si salva dal carcere con una legge ad personam

L'indulto umanitario che era stato concesso ad Alberto Fujimori per motivi di salute è stato annullato il primo ottobre dalla giustizia peruviana per mancanza dei requisiti richiesti e perché il provvedimento violava le norme internazionali, trattandosi di un condannato per crimini di lesa umanità. Una revisione della misura di clemenza era stata chiesta già in giugno dalla Corte Interamericana per i Diritti Umani. Non appena appresa la notizia dell'annullamento, per evitare di essere immediatamente rinchiuso in prigione (dove peraltro godeva di ogni comodità) Fujimori si è fatto ricoverare in una clinica adducendo presunti problemi cardiaci. Da lì ha inviato un video drammatico sostenendo che un rientro in carcere significherebbe per lui la morte perché il suo cuore non resisterebbe.

Ma l'ex dittatore non tornerà tra quattro mura. A tempo di record la maggioranza fujimorista in Parlamento ha approvato una legge su misura: i detenuti di più di 78 anni (75 se soffrono di qualche grave patologia) che abbiano scontato almeno un terzo della pena possono essere liberati e sottoposti unicamente a vigilanza elettronica. Non potranno però uscire dalla provincia di residenza se non con il permesso di un giudice. Dal provvedimento sono esclusi i condannati per terrorismo, alto tradimento e altri reati, ma non i responsabili di violazione dei diritti umani. Dunque nessun beneficio per il leader di Sendero Luminoso, Guzmán, mentre potrebbe essere favorito tra pochi anni l'ex braccio destro di Fujimori, Vladimiro Montesinos. "Una legge vergognosa", l'ha definita la parlamentare Tania Pariona, del Movimiento Nuevo Perú. La norma deve ora essere promulgata dal presidente Vizcarra, che potrebbe sollevare delle obiezioni e rimandarla al Congresso. La maggioranza avrebbe comunque il potere di respingere tali obiezioni e approvare in via definitiva la legge.

Non è comunque un periodo facile per il partito dell'ex dittatore. Nelle elezioni amministrative del 7 ottobre Fuerza Popular ha subito una clamorosa débâcle: nessuno dei suoi candidati a governatore regionale ha vinto al primo turno o è riuscito a passare al ballottaggio. Le consultazioni hanno visto, soprattutto nelle zone interne del paese, un successo dei movimenti locali a scapito delle forze tradizionali. Nella capitale è stato eletto sindaco Jorge Muñoz di Acción Popular (centrodestra), che ha superato a sorpresa il favorito dai sondaggi, l'ex militare Daniel Urresti, su cui pendono accuse di violazione dei diritti umani. Solo tre giorni prima del voto Urresti era stato assolto, con un discusso verdetto, dall'imputazione di aver ucciso nel 1988 il giornalista Hugo Bustíos Saavedra.

Se Fujimori sfuggirà al carcere, dal 10 ottobre la figlia Keiko è in arresto preventivo perché sospettata di essere a capo di un'organizzazione criminale coinvolta in casi di corruzione e riciclaggio. Dirigenti della costruttrice Odebrecht, tra cui il massimo responsabile Marcelo Odebrecht, hanno confessato che nel 2011 l'impresa finanziò con oltre un milione di dollari la campagna elettorale di Keiko. Le indagini hanno inoltre rivelato l'esistenza di altri contributi alle campagne del 2011 e del 2016 collegati ad aziende offshore e un'operazione di lavaggio di denaro sporco per quindici milioni di dollari.

La concessione dell'indulto a Fujimori era stata decisa nel dicembre scorso dall'allora presidente Kuczynski come contropartita per l'appoggio del gruppo parlamentare fujimorista, che in quell'occasione lo salvò da una richiesta di destituzione. La mossa riuscì solo a ritardare l'uscita di scena di Kuczynski, che infatti in marzo fu costretto a dimettersi prima che il Congresso ne sanzionasse la rimozione. Il suo posto venne preso dal vicepresidente Martín Vizcarra. Quest'ultimo, giunto alla massima carica dello Stato in una condizione di debolezza e con scarso appoggio popolare, è riuscito a ribaltare la situazione annunciando di voler promuovere un referendum su quattro proposte di riforma: la modifica della composizione del Consejo Nacional de la Magistratura, l'organismo incaricato di nominare e destituire giudici e procuratori; la proibizione della rielezione dei parlamentari; il ritorno al sistema legislativo bicamerale (era stato Fujimori a imporre l'attuale Congresso unicamerale) e il controllo sul finanziamento dei partiti.

Le proposte sono state accolte con favore dall'opinione pubblica, scossa nella sua fiducia verso le istituzioni dalla diffusione di intercettazioni telefoniche che hanno rivelato la corruzione di alti magistrati, pronti a garantire sentenze compiacenti o a bloccare le indagini su importanti esponenti politici. A inizio ottobre il Congresso ha approvato le quattro riforme, che verranno sottoposte a consultazione popolare il 9 dicembre insieme al ballottaggio delle regionali. Ma nel corso del dibattito la maggioranza fujimorista ha introdotto una serie di emendamenti che ne hanno snaturato lo spirito, alterando in particolare il testo sul ritorno al bicameralismo (lo stesso Vizcarra ha invitato a votare No a quel quesito referendario). Anche da sinistra è stato lanciato l'allarme sugli stravolgimenti avvenuti in aula: "Questo referendum come si sta realizzando è una truffa", ha avvertito il portavoce del Frente Amplio Humberto Morales. Sia il Frente che il Movimiento Nuevo Perú sostengono la necessità di promuovere una riforma sostanziale, attraverso la convocazione di un'Assemblea Costituente.

12/10/2018


Niente accesso al mare per la Bolivia

Con dodici voti a favore e tre contrari, il Tribunale Internazionale dell'Aia ha sentenziato il primo ottobre che il Cile "non ha contratto l'obbligo legale di negoziare con la Bolivia un accesso sovrano all'Oceano Pacifico". Viene così respinta la richiesta di La Paz, che aveva invocato le "legittime aspettative" generate dai ripetuti contatti intercorsi tra i due paesi nel corso del XX e all'inizio del XXI secolo. Il verdetto è inappellabile. I giudici dell'Aia hanno comunque aggiunto che tale decisione non deve impedire una continuazione del dialogo tra le parti.

All'epoca della sua nascita come nazione, nel 1825, la Bolivia poteva contare su 400 chilometri di costa, ma con la sconfitta nella Guerra del Pacífico (1879-1884) li perse a favore del Cile, che si impadronì di un territorio di 120.000 chilometri quadrati. Un territorio ricco di risorse: argento, rame e soprattutto guano e salnitro, all'epoca molto richiesti dall'agricoltura europea come fertilizzanti. Il casus belli era stata proprio la decisione boliviana di imporre una tassa di 10 centesimi su ogni quintale di salnitro esportato. L'imposta colpiva direttamente la Compañía de Salitres y Ferrocarril de Antofagasta, impresa a capitale cileno-britannico: dietro il conflitto c'erano dunque anche interessi inglesi. Il Trattato di Pace del 1904 con il Cile sanciva la rinuncia boliviana a ogni sbocco al mare.

All'indomani della sentenza dell'Aia il presidente Evo Morales ha fatto appello alla controparte per una ripresa del dialogo. Ma Sebastián Piñera ha risposto ponendo una precisa condizione: da eventuali colloqui dovrà essere escluso l'argomento dell'accesso al Pacifico. I rapporti tra i due paesi non sono in questo momento estremamente amichevoli: a fine agosto il governo di La Paz aveva denunciato come una minaccia alla pace regionale le esercitazioni militari congiunte Cile-Stati Uniti nella regione di Antofagasta. Proprio la regione un tempo appartenuta alla Bolivia.

3/10/2018


Ecuador, "Moreno ha trattato sottobanco con la Chevron"

L'ex presidente Correa ha accusato il governo di Lenín Moreno di aver trattato sottobanco con la compagnia petrolifera Chevron che il 7 settembre ha ottenuto, dal Tribunale Arbitrale dell'Aia, una sentenza favorevole nella sua controversia giuridica con l'Ecuador. Nel 2011 l'impresa statunitense era stata condannata, da una Corte ecuadoriana, al pagamento di 9.500 milioni di dollari per l'inquinamento di una vasta area dell'Amazzonia. Il nuovo verdetto sostiene che tale condanna era stata raggiunta "attraverso la frode, le tangenti e la corruzione" e ribalta completamente la situazione. Ora sarà Quito a dover pagare un indennizzo, il cui ammontare non è ancora stato stabilito, "per aver violato l'articolo 2 del Trattato Bilaterale per la Protezione degli Investimenti tra Ecuador e Stati Uniti".

"È evidente che la Chevron è colpevole e che ha distrutto la nostra foresta. Solo un ordine mondiale immorale e un governo traditore possono lasciarla nell'impunità", ha commentato Correa su Twitter.  Dal canto suo il presidente Moreno ha approfittato della vicenda per attaccare nuovamente il suo predecessore. In un comunicato ufficiale si legge che "il regime di Rafael Correa ha utilizzato il caso Chevron per guadagnare protagonismo politico e mediatico e ha impiegato fondi pubblici per propaganda, manipolando l'opinione pubblica nazionale e internazionale, le cui conseguenze si vedono riflesse in questa sentenza del Tribunale Arbitrale dell'Aia".

Da tempo è in corso il tentativo di impedire una ricandidatura di Correa alle prossime elezioni. L'ex presidente ha denunciato una persecuzione politica attuata attraverso una serie di cause giudiziarie che cercano di coinvolgerlo in casi di corruzione. Ma l'accusa più grave è quella di essere il mandante del tentato sequestro di un ex parlamentare dell'opposizione, Fernando Balda. Questi, processato per aggressione e truffa, era fuggito a Bogotá dove nel 2012 era stato fermato per alcune ore da agenti ecuadoriani. Per il caso Balda la giudice Daniela Camacho aveva spiccato agli inizi di luglio un mandato di cattura contro Correa. In difesa dell'ex presidente e contro la politica del governo, il 5 luglio migliaia di persone erano scese in piazza nella capitale. "Lenín servo dell'oligarchia", "No ai licenziamenti di massa" e "Tutti siamo Correa" si leggeva sui cartelli dei dimostranti.

Ma Moreno non sembra intenzionato a mutare rotta. Alla fine di agosto ha destituito, con un atto illegittimo, i membri della Corte Costituzionale, sostituendoli con magistrati di sua nomina. "Un passaggio indispensabile per l'offensiva neoliberista, che in questo momento cammina rapidamente in direzione della privatizzazione di tutto ciò che la Revolución Ciudadana ha potuto costruire: autostrade, imprese pubbliche, comprese le idroelettriche che hanno permesso all'Ecuador di trasformarsi in un competitivo esportatore di energia elettrica in Sud America", scrive l'analista Amauri Chamorro. Sempre in agosto Quito ha annunciato la sua uscita dall'Alba, l'Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América, decisione assunta - ha spiegato il ministro degli Esteri José Valencia - come risposta alla "mancanza di volontà" da parte di Caracas di risolvere la crisi interna che ha portato all'esodo di venezuelani nei paesi vicini. Anche per quanto riguarda i rapporti internazionali, dunque, l'Ecuador si allinea alla destra regionale.

8/9/2018


Colombia, quorum mancato per la Consulta Anticorrupción

Sulla carta la Consulta Popular Anticorrupción è fallita per mancanza di quorum: l'obiettivo non è stato raggiunto per mezzo milione di voti. Ma molti giudicano una vittoria il fatto che oltre undici milioni e mezzo di persone (più degli elettori di Iván Duque) si siano recati alle urne il 26 agosto per sollecitare maggiore trasparenza e un inasprimento delle pene per i corrotti. Secondo i promotori, in prima fila la senatrice Claudia López del Partido Verde, questo risultato dimostra che l'elettorato è stanco delle ruberie della classe politica. Una sconfitta per la destra da sempre al potere, in particolare per Centro Democrático, il partito dell'ex presidente Uribe (più volte inquisito), che dopo aver approvato in Congresso la realizzazione della consultazione aveva ritirato il suo appoggio.

Il 7 agosto Duque aveva assunto la presidenza e nel suo primo discorso aveva ribadito quanto già annunciato in campagna elettorale: l'intenzione di introdurre "correzioni" agli accordi di pace con le Farc e di realizzare "una valutazione responsabile, prudente e completa" dei colloqui in corso all'Avana con l'Eln. Contro questa politica, che rischia di riproporre lo spettro del conflitto civile, centinaia di persone vestite di bianco erano scese in piazza portando fiori e bandiere nazionali. Tra le richieste dei manifestanti al nuovo capo dello Stato, il rispetto degli impegni assunti con le Farc e la protezione dei leader dell'opposizione, bersaglio delle bande paramilitari (tra le ultime vittime Ana María Cortés, coordinatrice della campagna elettorale di Gustavo Petro nel dipartimento di Antioquia, uccisa agli inizi di luglio; il leader contadino Uriel Rodríguez e la dirigente indigena Mary Florelia Canas Meza, assassinati in agosto nel Cauca).

Il processo di pacificazione del paese attraversa una grave crisi, iniziata ancor prima dell'insediamento di Duque. In luglio l'ex capo negoziatore delle Farc, Iván Márquez, aveva deciso di rinunciare al suo seggio in Parlamento affermando in una lettera aperta: "Sento che la pace in Colombia è presa nelle reti del tradimento e non tanto perché non si sia materializzato quanto stabilito - cosa che richiede determinati tempi per la sua realizzazione - ma per le modifiche introdotte che hanno stravolto l'accordo". E sempre in luglio il comandante dell'Eln, Nicolás Rodríguez Bautista Gabino, in un documento pubblicato sulle pagine web dell'organizzazione guerrigliera, sosteneva: "Nessun altro momento come questo può essere più chiaro per ribadire la validità della lotta armata rivoluzionaria, per riaffermare il diritto del nostro popolo alla ribellione, dopo il completo fallimento della strada delle trattative e degli accordi tra le scomparse Farc e l'oligarchia colombiana".

In politica estera il nuovo presidente Duque intende seguire la linea tracciata dal suo predecessore Santos nell'attacco al Venezuela. "Faremo rispettare la Carta Democrática Interamericana, promuoveremo la libertà dei popoli della regione e denunceremo negli organismi multilaterali, insieme ad altri paesi, le dittature che vogliono piegare i propri cittadini", aveva affermato nel suo discorso di insediamento riferendosi - senza mai nominarlo - al governo di Caracas. E pochi giorni dopo il ministro degli Esteri, Carlos Holmes Trujillo, confermava la decisione di Bogotá di ritirarsi dall'Unasur che, a detta dello stesso Duque, "si è trasformata in complice della dittatura venezuelana".

27/8/2018


Michelle Bachelet alta commissaria per i Diritti Umani dell'Onu

L'ex presidente cilena Bachelet è stata designata alta commissaria delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, in sostituzione del giordano Zeid Ra’ad al-Hussein. Entrerà in carica il primo settembre. La nomina, proposta dal segretario generale dell'Onu, António Guterres, è stata ratificata il 10 agosto dall'Assemblea Generale. "Bachelet è una pioniera, una visionaria, una donna di principi e una grande leader in questi tempi difficili per i diritti umani", ha affermato Guterres. Assume il suo compito in un momento grave, "con l'odio e la disuguaglianza in aumento, il rispetto per le norme internazionali umanitarie in declino, lo spazio per la società civile in diminuzione e la libertà di stampa sotto pressione".

In giugno gli Stati Uniti avevano annunciato il loro ritiro dal Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu, accusandolo di faziosità nei confronti di Israele. Il predecessore di Bachelet, al-Hussein, è stato sempre un forte critico dell'amministrazione Trump. In una recente intervista al quotidiano britannico The Guardian ha duramente attaccato la retorica antiminoranze del presidente Usa, tracciando un parallelo con gli anni tra le due guerre mondiali: "Quando il linguaggio è usato in modo tale da concentrarsi su gruppi di persone che hanno tradizionalmente sofferto molto a causa del bigottismo, del pregiudizio e dello sciovinismo, questo richiama alla memoria un periodo di non troppo tempo fa, nel XX secolo, quando sono state istigate le passioni contro un gruppo vulnerabile per ottenere un beneficio politico".

13/8/2018


Argentina, il Senato boccia la legalizzazione dell'aborto

All'alba del 9 agosto, dopo quasi 17 ore di discussione, i senatori hanno respinto con 38 voti contro 31 (e due astensioni) la legalizzazione dell'interruzione volontaria della gravidanza, che in giugno aveva ricevuto il sì dei deputati. Una sconfitta per milioni di donne che in questi mesi si erano mobilitate. Tantissime sono rimaste a manifestare fino all'ultimo di fronte alla sede del Senato, nonostante il freddo e la pioggia incessante. La proposta di legge stabiliva il diritto all'aborto libero e gratuito negli ospedali pubblici fino alla quattordicesima settimana di gestazione. La sua bocciatura, negando alle donne il controllo del proprio corpo, lascia come unica risorsa l'aborto clandestino. E questo si traduce, per quante non possono permettersi di pagare un intervento in condizioni di sicurezza, nel ricorso a pratiche pericolose e spesso mortali (secondo alcuni calcoli, si praticano ogni anno nel paese tra i 370.000 e i 522.000 aborti clandestini).

Ma la ola verde, come è stata chiamata dal colore scelto dal movimento, ha perso una battaglia, non la guerra. La campagna nazionale continuerà nonostante le pressioni dei settori più conservatori e degli esponenti religiosi. La stessa ex presidente e ora senatrice Cristina Fernández, un tempo contraria, ha affermato di aver cambiato idea vedendo "le migliaia di ragazze che sono scese in piazza a protestare". La lotta di questi mesi ha riproposto all'attenzione nazionale un tema che non sarà più possibile eludere.

Scrive Mariana Carbajal su Página/12 all'indomani del voto del Senato: "Abbiamo vinto. Alle menti antiquate si è imposta una gioventù piena di fervore che ha incontrato nel fazzoletto verde un simbolo di uguaglianza. Abbiamo vinto i fondamentalismi, perché è risultato evidente e al centro del dibattito il sostegno del culto cattolico da parte dello Stato e la pretesa della gerarchia ecclesiastica di influire sulle politiche pubbliche sanitarie ed educative. Già si vendono nelle strade i fazzoletti arancioni, bandiere della separazione tra Chiesa e Stato. Abbiamo vinto, perché gli argomenti basati su credenze religiose hanno mostrato le menzogne di quanti si oppongono ai diritti. Abbiamo vinto, perché l'aborto ha smesso di essere un tabù, è uscito dal segreto ed è stato depenalizzato a livello sociale".

9/8/2018


Venezuela, fallisce attentato contro Maduro

L'attacco accuratamente studiato e realizzato il 4 agosto con mezzi sofisticati aveva come bersaglio Nicolás Maduro. Due droni dotati di cariche esplosive avrebbero dovuto esplodere nei pressi della tribuna dove il capo dello Stato, con accanto la moglie Cilia Flores e gli alti vertici delle forze armate, stava tenendo un discorso in occasione dell'anniversario della Guardia Nacional Bolivariana. L'attentato è fallito perché apparati inibitori di segnali hanno neutralizzato il comando a distanza dei droni (uno dei due si è schiantato contro un edificio), ma ha comunque provocato il ferimento di sette militari.

Qualche ora dopo Maduro, in un discorso alla nazione, ha responsabilizzato dell'attacco l'estrema destra nazionale, ha indicato gli Stati Uniti quali finanziatori del piano e ha affermato di non avere dubbi che dietro il fallito attentato si celi il presidente colombiano Santos. Immediata la risposta di Bogotá e di Washington, che hanno respinto ogni accusa. Il fallito attentato è stato rivendicato su Twitter da una sigla sconosciuta, i Soldados de Franela. E in un comunicato letto a Miami dall'esponente dell'opposizione Patricia Poleo si dice che questa azione, denominata Operación Fénix, è stata diretta da ufficiali e soldati della Fuerza Armada Nacional Bolivariana.

Non è la prima volta del resto che viene scoperto un progetto golpista orchestrato da militari, anche se le forze armate hanno ribadito più volte la loro fedeltà alla Repubblica Bolivariana. Gruppi composti da civili si sono resi protagonisti di altri tentativi di sovversione. Tra gli episodi che hanno avuto più risalto internazionale, il lancio di granate contro l'edificio del Tribunal Supremo de Justicia da un elicottero pilotato da Oscar Pérez nel giugno del 2017. Attivamente ricercato in tutto il paese, Pérez è morto nel gennaio di quest'anno in uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza; con lui sono stati uccisi altri sei membri del suo gruppo.

Per l'attacco del 4 agosto sono stati arrestati otto sospetti, tra cui il deputato dell'opposizione Juan Requesens, e un mandato di cattura è stata spiccato nei confronti di un altro parlamentare, Julio Borges, rifugiato all'estero. Ma gli inquirenti hanno già individuato altre dieci persone che ritengono direttamente collegate all'episodio. Gli attentatori sarebbero stati addestrati in una tenuta agricola in Colombia e avrebbero ricevuto in pagamento 50 milioni di dollari. In appoggio a Maduro, in migliaia hanno partecipato nella capitale a una manifestazione promossa dal Partido Socialista Unido de Venezuela.

Il governo di Caracas è sottoposto a continue aggressioni da più parti: ai tentativi golpisti si aggiungono le pressioni diplomatiche. In giugno l'Unione Europea, sulla scia della politica di Trump, ha annunciato nuove sanzioni a undici alti funzionari bolivariani. Tra loro Delcy Rodríguez, che solo una decina di giorni prima era stata designata vicepresidente in sostituzione di Tareck El Aissami. Quest'ultimo è passato a dirigere il Ministero dell'Industria e della Produzione Nazionale, dicastero creato di recente con il compito di riattivare le forze produttive e contribuire a far fronte alla crisi economica e finanziaria.

La gravità della crisi è stata riconosciuta dallo stesso Maduro che a fine luglio, nel suo intervento al IV Congresso del Psuv, ha ammesso senza mezzi termini: "I modelli produttivi che finora abbiamo provato sono falliti e la responsabilità è nostra, è mia, è tua". Una coraggiosa autocritica "che contrasta con l'ostinazione con cui altri governanti insistono su ricette fallimentari", si legge nell'editoriale de La Jornada (1/8/2018). Il quotidiano messicano fornisce il quadro della situazione: "Un'iperinflazione di un milione per cento, un calo del 18% del pil, una forte diminuzione dei prodotti di base e un arretramento nelle conquiste sociali ottenute nei primi lustri del governo bolivariano". E ancora: "La depressione del settore agricolo, che riforniva il 75% del consumo nazionale ed è ora al 25%, il collasso industriale (gli impianti installati funzionano al 30% della loro capacità) e il crollo della produzione petrolifera, principale fonte di divisa del paese, che è scesa da 3.200.000 barili al giorno nel 2008 a 1.500.000 nell'anno in corso".

Il capo dello Stato ha invitato i militanti del partito a rimboccarsi le maniche nonostante gli attacchi esterni. "L'imperialismo ci aggredisce? Basta piagnistei. Non mi vedete piagnucolare davanti all'imperialismo. Che ci aggredisca pure, noi dobbiamo produrre con aggressione o senza, con blocco o senza". Pochi giorni prima aveva annunciato un drastico programma di riconversione a partire dal 20 agosto, data dell'entrata in circolazione del nuovo Bolívar Soberano (che elimina cinque zeri della vecchia moneta). In due anni circa, ha detto alla platea del Psuv, "calcolo che si possa raggiungere un alto livello di stabilità e che possiamo vedere i primi segni della nuova prosperità economica, senza abbandonare un secondo la protezione e la sicurezza sociale".

9/8/2018


"No alla militarizzazione dell'Argentina"

Decine di migliaia di persone hanno marciato il 26 luglio a Buenos Aires, nonostante la pioggia e il freddo, fino al Ministero della Difesa per dire Fuerzas Armadas represivas ¡Nunca Más! Una risposta di massa al decreto presidenziale pubblicato due giorni prima sul Boletín Oficial, che assegna all'esercito compiti di sicurezza interna. Al corteo hanno partecipato organismi per i diritti umani, in prima file le Abuelas e le Madres de Plaza de Mayo Línea Fundadora, sindacati, organizzazioni sociali e partiti politici. Manifestazioni analoghe si sono tenute in altre città del paese.

"No alla militarizzazione dell'Argentina - ha detto Lita Boitano, una delle Madres - Questo governo promuove la miseria pianificata, organizza licenziamenti di massa, la cancellazione delle politiche sociali, la persecuzione dei popoli originari e delle militanti e dei militanti popolari". Il decreto "rafforza il modello repressivo di un governo che rappresenta gli interessi di pochi mentre impoverisce la maggioranza". E un'altra delle Madres, Taty Almeida, ha ricordato che mezzo secolo fa, con la dottrina della sicurezza nazionale, "tentarono di instaurare l'idea di un nemico interno e così fecero sparire, torturarono, stuprarono, incarcerarono e assassinarono migliaia di compatrioti". Solo sotto la presidenza di Raúl Alfonsín, all'indomani della dittatura, furono fissati precisi confini all'azione delle forze armate, cui venne riservata la difesa nazionale.

Tutto il mese di luglio è stato contrassegnato da grandi proteste antigovernative: il 9 (anniversario della dichiarazione d'indipendenza) contro l'accordo con il Fondo Monetario Internazionale, il 20 contro la visita della direttrice del Fmi Christine Lagarde, il giorno successivo contro la riunione dei ministri delle Finanze e dei presidenti delle banche centrali dei paesi del G20.

Intanto, in direzione opposta alla politica di Cristina Fernández volta a frenare la concentrazione nel campo della comunicazione, il governo Macri ha approvato alla fine di giugno la fusione di Telecom con Cablevisión, l'operatrice tv via cavo i cui principali azionisti sono gli stessi del Grupo Clarín. Siamo di fronte a "un nuovo gigante all'interno dell'universo imprenditoriale argentino - scrive il quotidiano La Nación - con interessi che vanno dalla trasmissione di contenuti audiovisivi e di dati alla telefonia mobile e fissa, con una valutazione di mercato stimata da fonti private intorno agli undici miliardi di dollari".

27/7/2018


Messico, il trionfo di López Obrador

Il Messico volta pagina: le elezioni del primo luglio hanno consacrato presidente, con il 53% dei voti, Andrés Manuel López Obrador. Un voto storico, che ha mostrato il profondo desiderio di cambiamento che attraversa il paese. La massiccia affluenza alle urne (molti elettori hanno dovuto attendere per ore prima di depositare la scheda nell'urna) e la valanga di consensi per il candidato di Morena hanno scoraggiato anche i temuti brogli, che ne avevano impedito la vittoria nel 2006 e nel 2012. Molto distanziati gli avversari: Ricardo Anaya (Pan, Prd, Movimiento Ciudadano) 22%; Meade (Pri, Partido Verde Ecologista, Nueva Alianza) 16%. E l'indipendente Jaime Rodríguez Calderón El Bronco si è fermato al 5%. L'ammissione della sua candidatura da parte delle autorità elettorali aveva suscitato scandalo per le innumerevoli irregolarità individuate nella raccolta delle firme. Quanto a Margarita Zavala, visti i sondaggi sfavorevoli in maggio aveva annunciato il suo ritiro.

A decretare il trionfo di Amlo è stata la rivolta dei messicani contro il modello neoliberista abbracciato con convinzione da tutti i partiti tradizionali. E con queste consultazioni viene definitivamente sepolto il Pacto por México, sottoscritto il 20 dicembre del 2012 dall'appena insediato Enrique Peña Nieto e dai leader del Pan, del Pri e del Prd. L'accordo sanciva l'avvio di una serie di riforme che avrebbero portato alla "modernizzazione" del paese. In realtà, come scrive Luis Hernández Navarro, la sua attuazione "ha lasciato nel percorso una scia di devastazione sociale e di distruzione del tessuto comunitario. Ben lungi dal potenziare la crescita e il benessere economico, le nuove norme inaugurarono un nuovo ciclo di saccheggio e di approfondimento della disuguaglianza". Un patto "contro il Messico", lo aveva definito López Obrador, "la preparazione di un grande assalto per riformare la Costituzione e cedere i benefici del petrolio".

Juntos Haremos Historia, la coalizione che ha sostenuto la candidatura di Amlo, ha ottenuto anche la maggioranza dei seggi al Congresso: un'affermazione importante per garantire la realizzazione del programma. Intanto il presidente eletto ha già preannunciato una serie di gesti simbolici: la riduzione degli stipendi dei funzionari e dello stesso capo dello Stato e la sua decisione di non risiedere nel palazzo presidenziale di Los Pinos. E nel primo discorso dopo la vittoria ha affermato: "Ascolteremo tutti. Presteremo attenzione a tutti. Rispetteremo tutti. Ma daremo preferenza ai più umili e ai dimenticati, in particolare ai popoli indigeni". Ha poi promesso che "sradicare la corruzione e l'impunità sarà la missione principale del nuovo governo" e che "aumenteranno gli investimenti pubblici per promuovere attività produttive e generare occupazione. Il proposito è quello di rafforzare il mercato interno".

Le elezioni del 2018 sono state le più sanguinose della storia messicana: oltre 150 gli esponenti politici assassinati. Si allunga anche l'elenco dei giornalisti uccisi: sette solo nella prima metà dell'anno. Di fronte al crescente potere della delinquenza organizzata e alla corruzione delle istituzioni aumentano le comunità che danno vita a gruppi di autodifesa, sottraendosi al controllo di uno Stato incapace di proteggere i suoi cittadini. Un segno del possibile cambiamento determinato dal voto del primo luglio è forse il fatto che tra i futuri senatori figura Nestora Salgado, l'ex comandante della polizia comunitaria di Olinalá, nel Guerrero. Imprigionata nel 2013 sotto false accuse da parte di autorità colluse con il narcotraffico e liberata tre anni dopo, Nestora è stata candidata al Congresso dal movimento di Amlo. Sempre di Morena è la nuova sindaca di Città del Messico, Claudia Sheinbaum. Quando López Obrador era stato eletto primo cittadino della capitale, Sheinbaum aveva assunto la responsabilità dell'Ambiente, riuscendo nel non facile compito di migliorare la qualità dell'aria in una delle metropoli più inquinate del pianeta.

All'indomani delle consultazioni l'Ezln, in un comunicato firmato dai subcomandantes Galeano e Moisés, smorza gli entusiasmi affermando che "potranno cambiare il caposquadra, i maggiordomi e i caporali, ma il proprietario terriero rimane lo stesso" e prevedendo una futura delusione dei sostenitori di Amlo. Una posizione che non tiene conto del vero significato di questo voto, della sua carica di ribellione contro lo stato di cose esistente. López Obrador non farà certo la rivoluzione, ma potrà apportare profondi cambiamenti al paese: tutto dipenderà dalla mobilitazione popolare e dall'appoggio critico che le forze di sinistra sapranno dargli.

4/7/2018


Argentina, paro general contro il Fmi

L'Argentina si è fermata il 25 giugno per protestare contro i tagli ai servizi sociali e alle pensioni, la crescita della disoccupazione, l'aumento delle tariffe e dell'inflazione. Ma soprattutto contro l'accordo stand-by con il Fondo Monetario Internazionale, che il 20 giugno ha concesso un prestito di 50 miliardi di dollari per fronteggiare la crisi determinata dalla perdita di valore del peso. In cambio di questo aiuto il governo si è impegnato a raggiungere l'equilibrio fiscale entro il 2020: un obiettivo che significa ulteriori tagli e nuovi licenziamenti. Secondo l'ex presidente del Banco Central, Mercedes Marcó del Pont, tale accordo "non è una soluzione per nessuno, se non per il mercato finanziario".

Il paro general, convocato dalla Confederación General del Trabajo con l'appoggio di tutte le altre centrali sindacali, di dipendenti e dirigenti delle piccole e medie imprese, dei commercianti, dei lavoratori del trasporto, ha bloccato letteralmente il paese. La risposta dell'esecutivo non si è fatta attendere: il giorno seguente quasi 400 giornalisti e impiegati dell'agenzia statale di notizie Télam sono stati licenziati, ufficialmente per "modernizzare l'impresa". Ma i lavoratori denunciano che il vero obiettivo è quello di mettere a tacere ogni voce dissidente.

È soprattutto il rialzo spropositato di gas ed elettricità che ha messo sul lastrico intere famiglie e costretto alla chiusura tante aziende. Proprio alla vigilia dello sciopero si è appreso della morte di un bambino disabile, la cui vita dipendeva da apparati elettrici: alla famiglia era stata staccata la luce perché in arretrato con il pagamento delle bollette. A fine maggio il presidente Macri aveva posto il veto alla Ley de Emergencia Tarifaria, approvata dai due rami del Parlamento, che imponeva di riportare il costo dei servizi pubblici al novembre dell'anno scorso e di congelarlo fino al dicembre 2019.

Il paro del 25 giugno era stato preceduto da una serie di mobilitazioni di diverse categorie: dai maestri in lotta per aumenti salariali e per la salvaguardia della scuola pubblica ai dipendenti statali colpiti da massicci licenziamenti, ai lavoratori della metropolitana di Buenos Aires repressi con violenza durante uno sciopero. E il 25 maggio si era già svolto un grande corteo contro il Fmi, promosso da Madres e Abuelas de Plaza de Mayo con l'adesione dei partiti d'opposizione, dei sindacati, dei movimenti sociali. Sempre quel giorno nella sua predica nella Cattedrale Metropolitana, in presenza dello stesso capo dello Stato, il cardinale Mario Poli aveva ammonito citando San Luca: "L'indifferenza e l'egoismo dei ricchi di fronte alla miseria dei poveri non passano inavvertiti agli occhi di Dio".

Tra le tante manifestazioni di questi mesi in Argentina, le più imponenti sono state senz'altro quelle del movimento delle donne, che il 14 giugno ha segnato una prima grande vittoria: il sì della Camera alla legge di legalizzazione dell'aborto. Una vittoria non scontata (i voti favorevoli sono stati 129, i contrari 125), ottenuta grazie a mobilitazioni costanti e combattive. La parola passa ora al Senato, che ne dibatterà nelle prossime settimane.

27/6/2018


Colombia, vince il candidato di Uribe

Iván Duque, candidato del partito di estrema destra Centro Democrático, è il nuovo presidente della Colombia: nel ballottaggio del 17 giugno ha raccolto quasi il 54% dei voti. Come già i precedenti appuntamenti elettorali del 2018 (le legislative dell'11 marzo e il primo turno delle presidenziali il 27 maggio), anche il secondo turno si è svolto in un clima tranquillo, grazie al cessate il fuoco che l'Eln ha proclamato unilateralmente. Ma la prospettiva di un futuro di pace, dopo più di cinquant'anni di conflitto, non è bastata a convincere gli elettori: oltre dieci milioni hanno votato per il delfino di Uribe, che aveva centrato la sua campagna sulla critica agli accordi con le Farc, bisognosi a suo dire di sostanziali "correzioni".

La vittoria di Duque è stata favorita, oltre che da una campagna basata sulla paura del castrochavismo, dall'appoggio ufficiale del Partido Conservador, del Partido Liberal e di Cambio Radical. Ma non tutti gli esponenti di queste forze hanno seguito le direttive di partito: in particolare l'ex candidato liberale Humberto de la Calle ha annunciato scheda bianca mentre la sua candidata a vice, l'indipendente Clara López, ha dichiarato il suo sostegno a Gustavo Petro. Divisioni anche nel centrosinistra: mentre Sergio Fajardo ha optato per il voto in bianco, importanti dirigenti dei raggruppamenti che lo avevano appoggiato al primo turno (Alianza Verde-Polo Democrático Alternativo) si sono espressi a favore di Petro.

Gli oltre otto milioni di consensi ottenuti da Colombia Humana hanno rappresentato comunque un traguardo importante, il risultato migliore mai raggiunto dalla sinistra in consultazioni presidenziali. Una sinistra moderata, che pur puntando a non spaventare i conservatori ha posto sul terreno temi fondamentali come il diritto alla sanità e all'istruzione, la tutela dell'ambiente, la riduzione delle disuguaglianze e soprattutto la continuazione del processo di pace. Che ora, con il neoeletto presidente, è posto in forse. In particolare si teme per i negoziati con l'Eln, che erano iniziati nel febbraio 2017 in Ecuador. Recentemente il governo di Quito ha ritirato la sua disponibilità a ospitare il dialogo, adducendo come pretesto una serie di attacchi e di sequestri alla sua frontiera, che sarebbero stati compiuti da un gruppo dissidente delle Farc. Le delegazioni si sono dunque spostate all'Avana, dove il 15 giugno il quinto ciclo di colloqui è terminato senza alcun accordo su una nuova tregua bilaterale.

18/6/2018


Guatemala, disastro naturale e inefficienza governativa

Le cifre ufficiali parlano di oltre cento morti e quasi duecento dispersi per l'eruzione del Volcán de Fuego, che domenica 3 giugno ha devastato una vasta zona a una cinquantina di chilometri dalla capitale. Ma il bilancio è probabilmente destinato ad aumentare: basti pensare che solo a San Miguel Los Lotes, una delle comunità più colpite, gli abitanti erano più di duemila. I sopravvissuti cercano ancora, tra le macerie delle abitazioni, i resti dei familiari sepolti dalla lava. E poi vi è il dramma di quanti hanno dovuto abbandonare le loro case, parzialmente o completamente inagibili: 1.700.000 persone, che soltanto in minima parte hanno trovato alloggiamenti di fortuna.

La tragedia si poteva evitare? Una domanda legittima, visto che l'allarme per l'evacuazione è stato dato in ritardo, quando per molti era ormai troppo tardi. A questo proposito gli enti preposti, l'Instituto Nacional de Sismología, Vulcanología, Meteorología e Hidrología e la Coordinadora Nacional para la Reducción de Desastres, si scambiano reciproche accuse. Intanto sul suo blog Carolina Vásquez Araya denuncia che, ore prima del disastro, la direzione di un esclusivo club di golf venne allertata "perché vi erano ospitati personaggi importanti". Tutti furono fatti allontanare in tempo dalle installazioni del club e si salvarono. Non così gli abitanti dei poveri villaggi alle falde del vulcano. E ancora: "Le orde governative non tardarono a organizzarsi, ma non per avvertire la popolazione a rischio, bensì per impossessarsi del flusso di aiuti raccolti dalla cittadinanza e fingere, con atti indegni di esseri umani, che questi provenissero dal governo".

Contro l'inefficienza dimostrata dall'esecutivo nella gestione dell'emergenza e contro l'indifferenza nei confronti dei più disagiati, migliaia di persone sono scese in piazza la sera del 9 giugno per chiedere le dimissioni del presidente Jimmy Morales e di altri alti funzionari. Alla luce di centinaia di fiaccole i manifestanti si sono diretti verso il Congresso, davanti al quale hanno osservato un minuto di silenzio in ricordo delle vittime.

11/6/2018


Nicaragua, gli appelli al dialogo non fermano gli scontri

In Nicaragua la situazione è sempre più caotica. Le manifestazioni pro e contro l'esecutivo si susseguono in tutto il paese e spesso si concludono con incidenti a causa dell'intervento di agenti provocatori. L'elenco dei morti ha già superato il centinaio, anche se sulla cifra esatta le varie fonti divergono. Si sono registrati attacchi agli atenei occupati, l'Universidad Politécnica e l'Universidad Nacional Autónoma de Nicaragua, epicentro della protesta del Movimiento Estudiantil 19 de Abril. Secondo gli studenti queste azioni sono da addebitare alla Juventud Sandinista, gruppo di appoggio al governo, mentre quest'ultimo accusa l'opposizione per i saccheggi e gli episodi di vandalismo avvenuti in diverse città.

Le forze armate sembrano per ora decise a mantenere una posizione neutrale. Il 12 maggio il portavoce dell'esercito, Manuel Guevara, ha dichiarato: "Non abbiamo motivo di reprimere la popolazione che manifesta in piazza. Siamo convinti che il dialogo sia la soluzione". E il giorno seguente, in un comunicato, i militari hanno ribadito l'appoggio agli sforzi del governo e alla mediazione del cardinale Leopoldo Brenes per risolvere la crisi. Ma l'intervento della Chiesa cattolica non è riuscito finora a riportare la pace.

Il 16 maggio è iniziato il dialogo tra il governo Ortega e l'opposizione, rappresentata dall'Alianza Cívica por la Justicia y la Democracia, e le parti si sono impegnate a realizzare una tregua di 48 ore il 19 e 20 maggio. Ma la tregua non è stata ovunque rispettata e pochi giorni dopo la Conferenza Episcopale, constatata la mancanza di punti di consenso, ha dovuto annunciare la sospensione degli incontri. Nel frattempo la delegazione inviata dalla Comisión Interamericana de Derechos Humanos, nel suo rapporto sulla situazione, evidenziava "gravi violazioni dei diritti umani nel corso di un mese di proteste, caratterizzate dall'uso eccessivo della forza da parte dei corpi di sicurezza dello Stato e di terzi armati".

Il 30 maggio un corteo di centinaia di migliaia di persone, con in testa le madri dei giovani uccisi negli scontri, ha attraversato il centro di Managua per chiedere le dimissioni di Daniel Ortega. Al termine della manifestazione violenti incidenti hanno provocato 15 morti e decine di feriti. Secondo il Centro Nicaragüense de Derechos Humanos, "gli aggressori sono stati la polizia repressiva e le forze d'assalto" governative. L'esecutivo, in un comunicato, getta invece la responsabilità dell'accaduto sui gruppi d'opposizione, che avrebbero inteso in tal modo "terrorizzare la popolazione".

Il fronte degli oppositori non è certo compatto. Se alcuni non temono di farsi fotografare accanto al senatore della Florida Marco Rubio, esponente dell'estrema destra, altri sono su posizioni che non piacciono a Washington. Non si spiega altrimenti la risoluzione presentata all'Assemblea Generale dell'Oea congiuntamente da Stati Uniti e Nicaragua e approvata per acclamazione il 5 giugno. Questa Declaración de Apoyo al Pueblo de Nicaragua "condanna ed esige la cessazione immediata degli atti di violenza, intimidazione e minaccia" e invita le parti a partecipare "in modo costruttivo a negoziati pacifici, con risultati chiari che affrontino le sfide fondamentali del paese".

Lo stesso segretario generale dell'organizzazione Luis Almagro, nemico giurato del Venezuela Bolivariano, in un'intervista alla Voz de América ha accusato un settore dell'opposizione nicaraguense di seguire una linea antidemocratica per abbattere Ortega. Da notare che, nel corso della stessa riunione dell'Oea, è stata votata una risoluzione che disconosce la legittimità del governo di Caracas e apre la strada a un'espulsione del Venezuela (del resto Maduro ha da tempo annunciato la volontà del suo paese di abbandonare l'organizzazione).

6/6/2018


La Colombia aderisce alla Nato

Due giorni prima delle elezioni la notizia è passata quasi inosservata, eppure non è di poco conto. La Colombia si appresta a formalizzare a Bruxelles il suo ingresso nella Nato in qualità di "socio globale". Lo ha dichiarato il 25 maggio il presidente uscente Juan Manuel Santos, che ha aggiunto: "Saremo l'unico paese dell'America Latina con questo privilegio". Il "privilegio", come spiega il sito web dell'organizzazione atlantica, consiste nello sviluppare "la cooperazione in aree di reciproco interesse, comprese le emergenti sfide sulla sicurezza", e in alcuni casi nel "contribuire attivamente alle operazioni, sia militarmente che in altro modo".

L'annuncio è stato accolto con molta preoccupazione in Venezuela. In un comunicato del Ministero degli Esteri di Caracas si denuncia "l'intenzione delle autorità colombiane di prestarsi a introdurre in America Latina e nei Caraibi un'alleanza militare esterna con capacità nucleare, il che evidentemente costituisce una seria minaccia per la pace e la stabilità regionale, a partire dalla difesa di inconfessabili interessi estranei al benessere dei nostri popoli sovrani". Il documento esorta poi il governo di Bogotá ad adempiere agli obblighi internazionali volti a garantire la soluzione pacifica delle controversie.

L'adesione all'alleanza atlantica rischia di porre una pesante ipoteca sul futuro del paese, proprio quando dalle presidenziali potrebbe uscire un cambiamento di rotta. Il primo turno, domenica 27 maggio, si è concluso senza un vincitore definitivo: tutto è rinviato al ballottaggio del 17 giugno tra Iván Duque (estrema destra) e Gustavo Petro (sinistra moderata).

Duque, esponente del Centro Demócratico di Alvaro Uribe, si è piazzato al primo posto con il 39% dei voti. Questo risultato dimostra il forte radicamento delle posizioni uribiste non solo tra il patronato, ma anche in parte della classe media, spaventata da una propaganda che dipinge il vicino Venezuela come un paese in preda alla fame e alla violenza e prospetta per la Colombia un futuro analogo in caso di vittoria della sinistra. Un possibile alleato di Duque al ballottaggio è Germán Vargas Lleras, ex vicepresidente di Santos, che al primo turno ha ottenuto il 7% dei voti. I due sono divisi però sulla valutazione degli accordi di pace con le Farc, che Duque vorrebbe modificare in modo sostanziale.

Il suo avversario è l'ex sindaco della capitale Petro, di Colombia Humana, che ha ottenuto il 25%. Membro negli anni Ottanta del M19, Petro ha cercato in tutti i modi di far dimenticare il suo passato guerrigliero, cancellando dai suoi discorsi ogni riferimento al socialismo e all'antimperialismo e ogni accenno a possibili nazionalizzazioni. Sulla sua candidatura potrebbero convergere al secondo turno gli elettori del centrista Sergio Fajardo (Alianza Verde-Polo Democrático), arrivato terzo con il 23% dei suffragi, e forse quelli del liberale Humberto de la Calle (2%), l'ex capo della delegazione governativa ai colloqui di pace dell'Avana.

28/5/2018


Muore impunito il terrorista Posada Carriles

"Il maggior terrorista dell’emisfero occidentale" è morto a 90 anni "senza aver pagato i suoi debiti con la giustizia e senza aver risarcito una sola delle sue vittime. Gli Stati Uniti lo hanno protetto fino all’ultimo dei suoi giorni". Così scrive il Granma commentando il decesso, il 23 maggio, dell'anticastrista cubano Luis Posada Carriles. L'ex agente della Cia viveva da tempo in una casa di riposo per veterani di guerra nei pressi di Miami.

Già nel 1961 Posada aveva partecipato ai preparativi della fallita invasione alla Baia dei Porci. In seguito aveva tentato innumerevoli volte di attentare alla vita di Fidel Castro. Ma non si era limitato a cospirare per abbattere la Rivoluzione Cubana: aveva collaborato con le dittature dell'America del Sud, dal Cile di Pinochet all'Argentina di Videla; aveva appoggiato le operazioni militari della Contra antisandinista; aveva stretto legami con i maggiori esponenti della destra mondiale, compreso l'estremista italiano Stefano Delle Chiaie.

Nel 1976 il fatto più grave: una bomba collocata a bordo di un aereo di linea della Cubana de Aviación esplose provocando la morte di 73 persone. Complici di Posada in questa strage erano stati il cubano Orlando Bosch e i due esecutori materiali, i venezuelani Hernán Ricardo e Freddy Lugo. Arrestato a Caracas, il terrorista riuscì a fuggire nel 1985 con l'appoggio della Fundación Nacional Cubano Americana, l'organizzazione degli esiliati anticastristi. Nel 1997 nuovi ordigni, questa volta contro alberghi dell'Avana, uccisero il giovane italiano Fabio Di Celmo: lo stesso Posada, intervistato dai media statunitensi, si assunse la responsabilità di queste azioni.

Imprigionato a Panama dopo l'ennesimo tentativo di assassinare Fidel Castro durante un vertice latinoamericano, nel 2004 Posada ottenne l'indulto dalla presidente panamense Mireya Moscoso (lautamente ricompensata, per questo "atto di clemenza", dal clan di Miami). L'anno successivo entrò illegalmente negli Stati Uniti. La giustizia nordamericana, pur rinviandolo a giudizio per reati migratori, respinse sempre le richieste di estradizione avanzate dal governo cubano e dal Venezuela Bolivariano. Un tribunale del Texas lo assolse definitivamente nel 2011, permettendogli di trascorrere i suoi ultimi anni da tranquillo pensionato in Florida.

24/5/2018


Venezuela, Nicolás Maduro rieletto presidente

Nicolás Maduro ha trionfato nelle presidenziali del 20 maggio con il 67,7% dei voti: il suo principale avversario Henri Falcón, un ex chavista passato alla destra e ora sostenitore della necessità di dollarizzare l'economia, si è fermato al 21,2%. L'affluenza alle urne ha superato di poco il 46%, una percentuale più bassa rispetto alle passate consultazioni, ma comunque in linea con la tendenza regionale. Un dato importante, visto che gran parte dell'opposizione aveva deciso di non presentare alcuna candidatura e di fare appello all'astensionismo.

La República Bolivariana ha dunque superato un'altra importante prova, sfidando il boicottaggio degli Stati Uniti, dei suoi alleati del Grupo de Lima e dell'Unione Europea, che si sono rifiutati di riconoscere il risultato delle urne. E questo nonostante la presenza di numerosi osservatori internazionali che hanno garantito la regolarità del voto: tra questi l'ex premier spagnolo Zapatero e l'ex presidente ecuadoriano Correa. Senza contare che il sistema in uso in Venezuela possiede tre forme di garanzia: al voto elettronico si aggiunge l'impronta digitale dell'elettore e un certificato cartaceo.

Alla vigilia delle elezioni Maduro aveva lanciato un appello a tutte le forze, perché avviassero "un grande dialogo di ricostruzione nazionale e di riconciliazione. Dobbiamo fare un accordo che ci permetta di recuperare l'attività economica. Deve essere un grande dialogo di perdono collettivo". Ma l'invito è caduto nel vuoto. Lo stesso Falcón, ancor prima del termine dello spoglio, ha dichiarato davanti ai media: "Questo processo elettorale manca di legittimità". Quanto all'opposizione più oltranzista, che si era ritirata all'ultimo momento dai colloqui con il governo optando per il boicottaggio, ha definito la votazione del 20 maggio "una farsa" e respinto ogni ipotesi di trattativa. E Donald Trump ha imposto nuove sanzioni che peggioreranno la crisi economica in atto nel paese. Come risposta, Caracas ha annunciato l'espulsione dell'incaricato d'affari, Todd Robinson, e del capo della sezione politica dell'ambasciata statunitense, Brian Naranjo, accusati di cospirazione. Immediata la rappresaglia del Dipartimento di Stato, che ha a sua volta espulso due diplomatici venezuelani, tra cui l'incaricato d'affari a Washington.

Il Venezuela è sottoposto da tempo a una vera e propria guerra economica: la speculazione e l'accaparramento dei beni di prima necessità hanno fatto aumentare in maniera vertiginosa l'inflazione e crescere il valore del dollaro. A farne le spese sono soprattutto salari e pensioni. Per risolvere i problemi di liquidità e aggirare le restrizioni Usa, il governo Maduro ha emesso in febbraio una moneta digitale, il petro, sostenuto dalle riserve petrolifere del paese. In marzo però un decreto della Casa Bianca ha proibito a cittadini e imprese statunitensi qualsiasi operazione con questa criptovaluta.

24/5/2018


Cile, pensionati e studenti scendono in piazza

Domenica 22 aprile migliaia di persone hanno manifestato per chiedere la fine del vigente sistema previdenziale, creato dalla dittatura di Pinochet e affidato a sei Administradoras de Fondos de Pensiones (Afp), istituzioni finanziarie private che gestiscono oltre 170 miliardi di dollari. Di tutto questo denaro ai pensionati arrivano solo le briciole. Secondo i dirigenti del movimento No más Afp, la partecipazione alla mobilitazione ha superato ogni aspettativa, con 28 concentramenti in tutto il paese.

Tre giorni prima, a Santiago e in altre città, centinaia di migliaia di studenti e professori avevano protestato contro la decisione del Tribunal Constitucional che, accettando il ricorso presentato da un gruppo di università private, aveva dichiarato incostituzionale uno degli articoli cardine della riforma educativa varata durante la presidenza Bachelet, quello che proibisce a persone o istituzioni di controllare gli atenei a fini di lucro. Una manifestazione allegra, al suono dei tamburi, aveva percorso il centro della capitale urlando No más lucro, no más deuda, no más educación sexista.

E proprio quest'ultimo tema è stato al centro di una serie di mobilitazioni che hanno visto protagoniste le studentesse. Dopo l'occupazione di quindici facoltà in tutto il paese in seguito a casi di abuso sessuale e comportamenti misogini da parte di insegnanti e autorità, il 16 maggio un massiccio corteo, convocato dalla Confederación de Estudiantes de Chile e dalla Coordinadora Feminista Universitaria, si è svolto nella capitale. Sugli striscioni campeggiava lo slogan: Macho no se nace, la educación chilena lo hace. Manifestazioni analoghe si sono tenute a Valparaíso, Valdivia, Concepción. Il giorno prima a Santiago un centinaio di alunne liceali avevano simbolicamente occupato l'Instituto Nacional, riservato ai ragazzi, per protestare contro gli atteggiamenti maschilisti degli studenti.

17/5/2018


Bolivia, muore l'ex dittatore García Meza

Un altro ex dittatore si è portato nella tomba il segreto dei suoi crimini. Luis García Meza è deceduto a 88 anni nell'ospedale militare di La Paz e con la sua morte si chiude la speranza di conoscere la sorte dei desaparecidos del suo regime: tra questi lo scrittore e dirigente politico di sinistra Marcelo Quiroga Santa Cruz e il deputato Juan Carlos Flores Bedregal. I familiari degli scomparsi hanno inutilmente chiesto, per anni, l'apertura di tutti gli archivi delle forze armate. "Quanti sono stati assassinati nelle strade, nelle case, nei posti di lavoro? - afferma in un comunicato l'Asociación de Familiares de Detenidos, Desaparecidos y Mártires por la Liberación Nacional - Deploriamo che non si sia fatta giustizia".

García Meza era salito al potere deponendo con un golpe la presidente Lidia Gueiler nel luglio 1980 e vi era rimasto fino all'agosto 1981. In questo periodo, caratterizzato dalla corruzione e dalla protezione del narcotraffico, si era avvalso della collaborazione degli squadroni della morte al comando dell'ex criminale nazista Klaus Barbie, il Boia di Lione (che viveva in Bolivia sotto il falso nome di Klaus Altmann). Del gruppo facevano parte anche gli estremisti di destra Stefano Delle Chiaie e Pierluigi Pagliai, coinvolti nella strategia della tensione.

Rinviato a giudizio per violazione dei diritti umani e altri reati, nel 1993 García Meza era stato condannato a trent'anni di reclusione, ma aveva iniziato a scontare la pena nel 1995, dopo l'estradizione dal Brasile dove si era rifugiato. Nel 2017 era stato raggiunto da una seconda condanna, questa volta all'ergastolo, comminata dalla Terza Corte d'Assise di Roma nell'ambito del processo sul Plan Cóndor.

30/4/2018


Nicaragua, migliaia in piazza contro la riforma

La miccia è stata la riforma della previdenza sociale: aumento fino al 22,5% dei contributi da versare da parte di lavoratori e imprenditori e riduzione del 5% delle pensioni. L'esecutivo giustificava il provvedimento con la necessità di far fronte al colossale deficit dell'Instituto Nicaragüense de Seguridad Social. A partire dal 18 aprile migliaia di persone sono scese in piazza a più riprese dando vita a cacerolazos di protesta, mentre gli studenti occupavano le università. Non è mancato chi ha approfittato del caos per saccheggiare negozi e supermercati.

I manifestanti sono stati attaccati con violenza dalla polizia e da gruppi di sostenitori del governo e gli incidenti hanno provocato numerose vittime, in maggioranza studenti: sul numero esatto esistono discordanze tra i dati ufficiali, che parlano di una decina di morti, e la Comisión Permanente de Derechos Humanos, che fa salire questa cifra a 63 (oltre a 15 dispersi). Le mobilitazioni si sono susseguite non solo a Managua, ma a León, Masaya, Chinandega, Estelí e Bluefields; in quest'ultima località il giornalista Angel Gahona è stato colpito a morte da una pallottola mentre seguiva gli avvenimenti per un notiziario locale.

Dopo i primi giorni di scontri il presidente Ortega ha annunciato il ritiro del decreto, ma la protesta non si è fermata. Anzi ad essa si è unita l'opposizione dei contadini al faraonico progetto di canale interoceanico affidato a un'impresa cinese, che allontanerà dalle proprie terre migliaia di famiglie e provocherà danni irreparabili all'ambiente. Non è servito neppure, a riportare la calma, l'invito al dialogo dello stesso Ortega, che ha fatto appello ai suoi tradizionali alleati (ora pronti ad abbandonarlo): gli imprenditori del Cosep (Consejo Superior de la Empresa Privada) e i settori più conservatori della Chiesa cattolica. Come scrive Jaime Barba su Página/12, "sarebbe un grave errore d'interpretazione ridurre la potenza della rivolta di questo momento al tema della sicurezza sociale. Quella che a quanto sembra si è prodotta è una convergenza spontanea dello scontento generale dei nicaraguensi".

Già nel 2014 l'ex comandante guerrigliera Mónica Baltodano, in un saggio pubblicato su Envío, individuava gli elementi di degenerazione che avrebbero portato alla crisi attuale. "Non siamo nella seconda fase della Rivoluzione, non si stanno realizzando trasformazioni che ci mettano sulla strada di un sistema di giustizia sociale. Tutto il contrario", scriveva: si è rafforzato un regime contrassegnato dalla mancanza di equità, "con un crescente processo di concentrazione della ricchezza in gruppi minoritari" e con "la subalternità del paese alla logica globale del capitale", in cui le grandi transnazionali e i capitali stranieri sfruttano le ricchezze naturali del paese e traggono profitto dalla manodopera a buon mercato.

27/4/2018


Paraguay, un governo sempre più a destra

"Oggi il popolo paraguayano deve scegliere tra la dittatura e la democrazia". Così commentava Página/12 il 22 aprile, giorno in cui gli elettori erano chiamati a designare il nuovo capo dello Stato. Al termine di una votazione non certo limpida è stato proclamato vincitore un personaggio legato al periodo più buio della storia del paese: Mario Abdo Benítez, figlio dell'ex segretario privato di Stroessner, che nelle sue dichiarazioni ha sempre difeso la figura del defunto dittatore.

Con questa vittoria, ottenuta anche grazie all'appoggio incondizionato dei media, Abdo garantisce la permanenza al potere del Partido Colorado, da sempre espressione dell'oligarchia. Ma contrariamente ai sondaggi della vigilia, che pronosticavano una trentina di punti percentuali di distacco, il suo principale avversario, Efraín Alegre del Plra (Partido Liberal Radical Auténtico), è stato sconfitto per meno di 4 punti. Alegre era sostenuto da Alianza Ganar, coalizione eterogenea dove al Plra si affiancava il Frente Guazú, che presentava come candidato a vicepresidente il giornalista Leo Rubín. Il leader del Frente, l'ex presidente Fernando Lugo, aveva favorito la riedizione della vecchia alleanza per poter sconfiggere i colorados, nonostante nel 2012 fosse stato deposto da un colpo di Stato istituzionale proprio per il tradimento di un esponente del Partido Liberal Radical Auténtico, il suo vice Federico Franco.

L'economia del paese ha registrato una crescita considerevole negli ultimi anni. Ma le disuguaglianze non si sono attenuate, anzi. La situazione più drammatica si registra nelle campagne: alle lotte contadine per la terra i grandi proprietari rispondono con la violenza delle squadracce. Gli enormi interessi dell'agrobusiness, in particolare della coltivazione della soia, assicurano la totale impunità a queste bande e ai loro mandanti. Il 10 marzo, nel dipartimento di Canindeyú, María Ester Riveros è stata assassinata da due sicari di fronte alla capanna della cugina María Máxima Segovia. Quest'ultima, vero bersaglio dell'agguato, è la presidente della Comisión de Mujeres del Paraguay San Juan Poty: da un anno si batte per il recupero di alcuni lotti appartenenti all'Instituto Nacional de Desarrollo Rural y de la Tierra, che dovevano essere assegnati ai campesinos e che sono stati invece illegalmente occupati da una famiglia potente della zona.

24/4/2018


Colpo mortale all'integrazione sudamericana?

Un colpo forse mortale all'integrazione sudamericana. Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Perù e Paraguay hanno annunciato con una lettera la sospensione della loro partecipazione all'Unasur, l'Unión de Naciones Suramericanas. Il messaggio, indirizzato al ministro degli Esteri di La Paz Fernando Huanacuni (la Bolivia ha assunto il 12 aprile la presidenza pro tempore), giustifica la decisione con "l'urgente necessità di risolvere la mancanza di dirigenza dell'organismo". Al termine del mandato del colombiano Ernesto Samper nel 2017, infatti, non era stato possibile raggiungere un'intesa sul nome del nuovo segretario generale. I sei paesi contestano inoltre "gli obiettivi dell'Unasur, la sua struttura e i metodi di lavoro".

Non è difficile capire gli obiettivi di questa decisione presa da sei governi di destra. Innanzitutto uno "schiaffo" alla Bolivia, uno dei pochi paesi progressisti della regione. E un ulteriore passo verso l'isolamento del Venezuela, che vive un momento politico estremamente difficile. Insomma un regalo agli Stati Uniti, che nell'integrazione sudamericana trovano un ostacolo alle loro mire. Non va dimenticato il ruolo importante giocato dall'Unasur nel frenare le manovre golpiste in Bolivia nel 2008 (tentativo secessionista) e in Ecuador nel 2010 (ammutinamento di alcuni reparti di polizia). Sempre nel 2010 grazie alla mediazione del primo segretario generale, l'argentino Néstor Kirchner, era stato risolto il conflitto diplomatico - fomentato dagli Usa - tra Colombia e Venezuela. Senza contare che con l'Unasur viene indebolito il Consejo de Defensa, che era stato creato per "consolidare una zona di pace" e promuovere la cooperazione tra gli Stati membri in materia di difesa.

L'Unasur era nata nel 2008, come erede della Comunidad Suramericana de Naciones, con l'obiettivo di "costruire un'identità e una cittadinanza sudamericane". Tra i suoi principali promotori l'ex presidente brasiliano Lula. E non è un caso che questa crisi avvenga proprio ora, con un golpista al potere a Brasilia e l'imprigionamento di Lula in base a un'accusa infondata. Al suo posto guadagna terreno il Grupo de Lima, l'iniziativa dei governi neoliberisti che vogliono riportare il continente indietro di decenni.

21/4/2018


Cuba, Díaz-Canel succede a Raúl Castro

Miguel Díaz-Canel Bermúdez è il nuovo presidente del Consejo de Estado in sostituzione di Raúl Castro, che rimarrà comunque fino al 2021 primo segretario del Partido Comunista. Un cambio della guardia all'insegna della continuità avvenuto significativamente il 19 aprile, 57° anniversario della vittoria di Playa Girón.

L'11 marzo era stato rinnovato il potere legislativo con l'elezione dei membri dell'Asamblea Nacional del Poder Popular, in gran parte appartenenti alla generazione venuta al mondo dopo la rivoluzione. Anche Díaz-Canel, un ingegnere elettronico della provincia di Villa Clara, è nato nel 1960. Nella sua carica sarà affiancato da sei vicepresidenti, tre uomini e tre donne: tra questi il veterano del Granma Ramiro Valdés Menéndez e la Contralora General de la República, Gladys María Bejerano Portela.

Nel suo discorso dopo la nomina, Díaz-Canel ha ribadito che "solo il Partido Comunista garantisce l'unità della nazione e del suo popolo" e ha avuto parole di riconoscimento per quanti liberarono il paese dalla dittatura di Batista: "Cuba si aspetta che noi siamo alla loro altezza, capaci di combattere vittoriosamente tutte le battaglie che ci attendono. La presenza di Raúl, Machado, Ramiro, Guillermo e altri rivoluzionari ci dà la possibilità di abbracciarli e abbracciare la storia viva".

Raúl Castro, dopo aver riaffermato l'orientamento socialista della Rivoluzione, ha centrato parte del suo intervento sulle difficoltà incontrate nel promuovere le riforme: "Sapevamo che iniziavamo un processo di enorme complessità, che per la sua vastità includeva tutti gli elementi della società e richiedeva il superamento del colossale ostacolo di una mentalità fondata su decenni di paternalismo, con conseguenze significative sul funzionamento dell'economia". Ha citato tra le questioni urgenti da affrontare la riorganizzazione del settore privato, la riforma salariale e l'eliminazione di sussidi ingiustificati. Ha infine affrontato il tema della rinnovata tensione nei rapporti con Washington, affermando con decisione che in materia di diritti umani Cuba non ammette "lezioni da nessuno e men che meno dal governo degli Stati Uniti".

20/4/2018


La destra del continente all'attacco del Venezuela

L'ottavo Vertice delle Americhe, che si è svolto a Lima il 13 e 14 aprile, avrebbe dovuto discutere di "Governabilità democratica di fronte alla corruzione". Un'ironia, visto che tra i leader presenti molti erano i sospettati di corruzione e che nel paese ospitante cinque ex presidenti e i dirigenti dell'opposizione fujimorista erano stati denunciati o erano già in galera per questi reati. In realtà la destra continentale ha voluto trasformare l'incontro in un processo al governo Maduro, negando ogni legittimità alle elezioni che si terranno in Venezuela il 20 maggio. Si è giunti al paradosso di una "lezione di democrazia" tenuta dal brasiliano Temer, divenuto capo di Stato grazie a un golpe parlamentare. Tra le poche voci in difesa di Caracas, quelle del presidente boliviano Evo Morales e del ministro degli Esteri cubano Bruno Rodríguez.

Il vertice nella capitale peruviana non ha avuto comunque grande risonanza per due significative assenze: Donald Trump, impegnato a bombardare la Siria e sostituito dal vice Mike Pence, e appunto Nicolás Maduro. Quest'ultimo era inizialmente tra gli invitati; in febbraio però, in seguito alle pressioni esercitate nel corso di un giro latinoamericano dall'allora segretario di Stato Usa Tillerson, il Grupo de Lima (il blocco dei paesi anti Caracas) aveva dichiarato che il presidente venezuelano non sarebbe stato il benvenuto. Kuczynski aveva dunque ritirato l'invito e la decisione era stata confermata dal suo successore Vizcarra.

Sempre Tillerson, prima di partire per il suo viaggio in America Latina, aveva "suggerito" all'esercito di abbattere Maduro: "Nella storia del Venezuela e dei paesi dell'America del Sud spesso i militari sono gli attori del cambiamento quando le cose sono messe molto male e la dirigenza non può più servire il popolo". Un vero e proprio incitamento al colpo di Stato che le forze armate bolivariane avevano respinto, ribadendo la loro lealtà costituzionale.

Le presidenziali in Venezuela erano in un primo tempo previste per il 22 aprile: la data era stata annunciata dopo il fallimento della nuova ronda di trattative tra governo e opposizione (all'ultimo momento la Mesa de la Unidad Democrática, su "consiglio" di Washington, aveva bocciato il patto preliminare già sottoscritto). In seguito il voto è stato fissato al 20 maggio, giorno in cui verranno rinnovati anche i Parlamenti dei singoli Stati e i Consigli Comunali. Per la suprema carica dello Stato gli antichavisti saranno rappresentati da Henri Falcón, di Avanzada Progresista, mentre il resto dell'opposizione ha deciso di non presentare alcuna candidatura.

15/4/2018


Colombia, nuovi attacchi al processo di pace

Non si ferma la catena di omicidi nelle campagne. Alla fine di marzo è stata assassinata a Mapiripán, nel dipartimento del Meta, María Magdalena Cruz Rojas. I killer, mascherati, sono giunti alla fattoria dove abitava e l'hanno colpita a morte di fronte al marito e al figlio. Cruz Rojas si batteva in difesa dei diritti dei contadini e guidava il movimento per la sostituzione delle coltivazioni di coca. La zona durante il conflitto armato era un bastione del gruppo paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia, che proprio a Mapiripán nel 1997 massacrò decine di persone.

Intanto l'attuazione degli accordi governo-Farc incontra sempre più difficoltà. Secondo le valutazioni di diverse parti, fino ad oggi è stato realizzato solo il 20% di quanto stabilito: i ritardi maggiori riguardano le alternative economiche offerte agli ex combattenti per favorire il loro reinserimento nella società. Non mancano le denunce di cattiva gestione e di corruzione negli organismi statali incaricati di gestire i fondi nazionali e internazionali predisposti a questo scopo.

Un altro grave attacco al processo di pace è venuto dall'arresto il 9 aprile dell'ex comandante guerrigliero Jesús Santrich, sulla base di una denuncia della Dea e del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. L'accusa: aver trattato l'invio di dieci tonnellate di coca verso gli Usa. Molte le irregolarità di questo arresto, avvenuto senza seguire quanto prescrive la legge colombiana e senza che il caso fosse portato davanti alla Jurisdicción Especial para la Paz, come stabilito dagli accordi. Ora Santrich, che era stato designato a occupare un seggio in Parlamento, rischia l'estradizione. La sua detenzione "fa parte di un piano orchestrato dal governo degli Stati Uniti con l'aiuto della Procura colombiana - si legge in un comunicato della Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común - che minaccia di estendersi a tutta la ex dirigenza delle Farc, con il proposito di decapitare la direzione politica del nostro partito e di seppellire il desiderio di pace del popolo colombiano".

12/4/2018


Brasile, con Lula in prigione si conclude il golpe

Con Lula incarcerato si conclude il golpe iniziato nell'agosto di due anni fa con la destituzione di Dilma Rousseff. A questo passo si è arrivati attraverso una serie di sentenze che hanno ignorato qualsiasi diritto della difesa: prima la condanna a nove anni e sei mesi, da parte del giudice Moro, per un reato di cui non esiste alcuna prova (pena aumentata in seconda istanza a dodici anni e un mese dal tribunale di Porto Alegre), poi la decisione, presa dagli stessi giudici di Porto Alegre in una seduta lampo, di respingere ogni ricorso e infine il verdetto del Supremo Tribunal Federal, che non ha concesso l'habeas corpus nonostante la presunzione d'innocenza prevista dalla Costituzione, negando quindi a Lula la possibilità di attendere in libertà l'ultimo grado di giudizio.

Il giudice Moro non si è lasciato sfuggire l'occasione e il 5 aprile ha deliberato l'immediato arresto dell'ex presidente, imponendogli di presentarsi entro le 17 del giorno dopo alla polizia federale di Curitiba, capitale dello Stato del Paraná. Una spiegazione di tanta fretta viene dal quotidiano spagnolo El País, che riporta la raccomandazione scritta su un documento riservato, firmato da un membro del pubblico ministero: il "manipolatore di masse" deve essere incarcerato al più presto. Si teme - è chiaro - la mobilitazione popolare.

Appresa la mossa di Moro, Lula si è recato presso la sede del Sindicato dos Metalúrgicos a São Bernardo do Campo, nella zona industriale di São Paulo, dove aveva avuto inizio la sua carriera politica. Qui è rimasto anche oltre la scadenza impostagli dal giudice, mentre all'esterno dell'edificio si radunavano migliaia di persone venute a esprimergli solidarietà.

Il 7 aprile ha partecipato a una messa in ricordo della moglie Marisa Letícia Rocco, scomparsa l'anno scorso. Ha poi tenuto un lungo discorso di commiato alla folla che si era mobilitata in sua difesa, ricordando la sua storia politica e ripetendo che "le idee non possono essere imprigionate". In uno dei suoi discorsi aveva detto: "Se mi arresteranno e non mi lasceranno andare, camminerò con le vostre gambe. Se non mi lasceranno parlare, parlerò attraverso la vostra bocca. Se il mio cuore smetterà di battere, batterà attraverso il vostro cuore. Non è di me che devono aver paura, devono aver paura di voi". Infine nel tardo pomeriggio si è costituito ed è stato rinchiuso nella sede della Polícia Federal di Curitiba. Intorno all'edificio militanti del Pt e di altri partiti e movimenti della sinistra hanno montato un accampamento e hanno dichiarato di voler rimanere lì fino alla liberazione dell'ex presidente.

Le sentenze che hanno portato Lula in carcere erano state emesse in un clima teso, inasprito dalle dichiarazioni apertamente golpiste di alti vertici militari. Il generale a riposo Luiz Gonzaga Schroeder Lessa aveva affermato, nel corso di un'intervista, che se a Lula fosse stato concesso l'habeas corpus sarebbe rimasto "solo il ricorso alla reazione armata. Il dovere delle forze armate è quello di restaurare l'ordine". In modo più sfumato il comandante in capo dell'esercito, Villas Bôas, attraverso Twitter si era riferito al caso dell'ex presidente dicendo di condividere "l'anelito di tutti i cittadini per bene che ripudiano l'impunità". In precedenza un altro generale a riposo, Paulo Chagas, era stato ancora più chiaro, segnalando che l'obiettivo principale era "mettere dietro le sbarre un capo di organizzazione criminale già giudicato e condannato a più di dodici anni di prigione che, con l'appoggio del Supremo Tribunal Federal, ha circolato liberamente e apertamente per tutto il territorio nazionale raccontando menzogne, predicando l'odio e la lotta di classe".

Chagas si riferiva alle carovane attraverso il paese con cui Lula aveva preso contatto diretto con la popolazione brasiliana, incontrando ovunque folle di sostenitori. Le carovane erano state però bersaglio di aggressioni e lanci di pietre e proprio nel Paraná, uno degli Stati più conservatori, addirittura di colpi d'ama da fuoco. Del resto fermare la corsa dell'ex presidente verso la rielezione era essenziale per i poteri forti, privi di candidati alternativi da opporgli. Non certo Michel Temer, l'uomo che attualmente esercita in modo illegittimo le funzioni di capo di Stato e che è costantemente messo all'angolo da accuse (documentate) di corruzione. In febbraio Temer ha dovuto anche ingoiare uno smacco politico: in mancanza dei voti necessari per l'approvazione in Parlamento, è stato costretto a ritirare il progetto di riforma delle pensioni. Secondo i sondaggi la riforma era osteggiata da oltre il 70% della popolazione.

8/4/2018


Costa Rica, sconfitto l'oscurantismo religioso

Il duello tra i due Alvarado si è concluso con la vittoria del centrosinistra. Nel ballottaggio di domenica primo aprile Carlos Alvarado del Pac, il Partido Acción Ciudadana del presidente in carica Luis Guillermo Solís, si è imposto con oltre il 60% dei voti sul suo avversario, il predicatore evangelico Fabricio Alvarado (nessuna parentela tra i due). Vicepresidente sarà Epsy Campbell, prima donna nera a occupare tale carica nel continente americano. Laureata in Economia, Campbell si batte da tempo per i diritti delle donne e delle comunità afro.

È stata così sconfitta la linea ultraconservatrice del Partido Restauración Nacional, contrario al matrimonio tra persone dello stesso sesso, all'aborto, alla fecondazione in vitro e all'educazione sessuale nelle scuole. Il dibattito era sorto in seguito a una recente risoluzione della Corte Interamericana per i Diritti Umani, che imponeva agli Stati membri di garantire pieni diritti alla comunità lgbt. Nella prima tornata elettorale, svoltasi il 4 febbraio con ben tredici candidati, Fabricio Alvarado aveva ottenuto quasi il 25% dei consensi. Il timore di vedere il paese precipitare nell'oscurantismo religioso ha mobilitato l'elettorato, facendo anche leggermente aumentare nel secondo turno la percentuale di affluenza alle urne.

La battaglia sui diritti civili ha messo in ombra i temi economico-sociali, che avevano portato al calo di popolarità del Partido Acción Ciudadana e del governo Solís. Quest'ultimo, dimenticando le promesse elettorali, non ha modificato la linea neoliberista seguita dalla precedente presidente, Laura Chinchilla. Il Pac nelle ultime legislative ha perso tre seggi rimanendo con solo dieci deputati (su un totale di 57) e Carlos Alvarado, che entrerà in carica l'8 maggio, sarà costretto a stringere alleanze con altre forze, nessuna delle quali può contare su una solida maggioranza.

2/4/2018


Guatemala, la morte dell'ex dittatore Ríos Montt

"Si è spento in pace, tranquillo". Così il suo avvocato ha descritto la morte dell'ex dittatore Efraín Ríos Montt, ben diversa da quella riservata alle migliaia di vittime del suo regime. Giunto al potere nel marzo 1982 grazie a un colpo di Stato, Ríos Montt venne a sua volta deposto, nell'agosto dell'anno dopo, da un golpe guidato dal ministro della Difesa Mejía Víctores.

Tra le prime misure del suo governo de facto l'istituzione dei Tribunales de Fuero Especial, in cui giudici dal volto coperto emettevano sentenze capitali. Nei 17 mesi in cui rimase al potere, si calcola che nelle comunità indigene siano state massacrate dall'esercito oltre 25.000 persone, accusate di parteggiare per la guerriglia. Del resto anche in precedenza, come generale di brigata e poi capo di stato maggiore dell'esercito, Ríos Montt si era fatto conoscere per la brutalità dei suoi metodi repressivi. Ministro della setta pentecostale Iglesia del Verbo, si considerava scelto da Dio per liberare il Guatemala dalla "minaccia comunista" e infarciva i suoi discorsi di citazioni bibliche.

Con il ritorno della democrazia era passato alla politica fondando il Frente Republicano Guatemalteco, riuscendo a farsi eleggere deputato e a diventare poi presidente del Congresso. Nel 1999 il Premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchú aveva presentato davanti all'Audiencia Nacional de España una denuncia per torture e genocidio contro di lui e altri sette ex comandanti militari e un giudice spagnolo aveva emesso un ordine di cattura internazionale, che però non aveva avuto seguito.

Nel gennaio del 2012, avendo terminato il mandato parlamentare e non godendo più dell'immunità, era stato rinviato a giudizio per genocidio e crimini contro l'umanità e messo agli arresti domiciliari: a suo carico 1771 vittime documentate, tra cui numerosi bambini. Il 10 maggio del 2013 un tribunale presieduto dalla giudice Jazmín Barrios lo aveva condannato a ottant'anni di carcere, disponendone l'immediato arresto. Ma pochi giorni dopo, accogliendo i ricorsi della difesa, la Corte Costituzionale aveva annullato la sentenza, facendo trionfare ancora una volta l'impunità. Negli anni successivi nuovi tentativi di sottoporlo a processo erano stati sospesi o rinviati e il genocida ha potuto morire a 91 anni nel suo letto.

2/4/2018


Argentina, di nuovo in piazza contro il governo

Sempre più gente scende in piazza per protestare contro la politica di Mauricio Macri. Il 24 marzo una marea umana ha invaso le strade di Buenos Aires nel Día Nacional de la Memoria por la Verdad y la Justicia, a 42 anni dall'inizio della più sanguinosa dittatura della storia argentina. La manifestazione, che per affluenza ha superato ogni aspettativa, ha dimostrato che il paese non tollererà passi indietro nella lotta contro l'impunità e che respinge con forza la concessione degli arresti domiciliari ai responsabili di violazione dei diritti umani, come il governo ha già iniziato a fare. Forti applausi hanno accolto l'ex funzionario dell'amministrazione di Cristina Fernández, Carlos Zannini, e il dirigente sociale Luis D'Elía, appena liberati dal carcere perché i giudici hanno riconosciuto che la loro detenzione era ingiusta.

L'8 marzo centinaia di migliaia di donne avevano dato vita a un imponente corteo contro la violenza e i femminicidi, ma anche contro le misure di austerità e per l'aborto libero, sicuro e gratuito. E oltre 400.000 persone avevano partecipato il 21 febbraio alla mobilitazione promossa, con uno sforzo unitario, dalle organizzazioni sindacali come reazione alla crisi sociale in atto, all'ondata di licenziamenti, al taglio delle pensioni e all'aumento delle tariffe.

Come tutta risposta l'esecutivo aumenta la repressione contro ogni dissidenza e promuove la violenza istituzionale. La ministra della Sicurezza, Patricia Bullrich, ha autorizzato le forze di polizia ad agire senza attendere un mandato della magistratura e lo stesso presidente Macri ha ricevuto come un eroe l'agente Luis Chocobar, che ha assassinato con un colpo alla schiena un giovane ladruncolo. Da allora quella che è stata definita "dottrina Chocobar" ha fatto scuola culminando in marzo nell'uccisione di un ragazzino di undici anni, divenuto sospetto perché viaggiava in moto con un amico.

E per la prima volta dalla fine della dittatura le forze armate saranno chiamate a intervenire nei conflitti interni. Il governo ha infatti deciso la costituzione di unità di spiegamento rapido composte da effettivi dell'esercito, della marina e dell'aeronautica e la formazione di una forza operativa congiunta con la statunitense Dea al confine tra Argentina, Paraguay e Brasile per combattere "il narcotraffico e il terrorismo". L'obiettivo ufficiale è la lotta contro il gruppo sciita libanese Hezbollah, ma da tempo organizzazioni sociali e politiche denunciano l'intenzione di Washington di porre sotto controllo la Triple Frontera, ricca di una tra le maggiori riserve d'acqua dolce al mondo.

25/3/2018


Perù, travolto dagli scandali Kuczynski si dimette

Alla fine Pedro Pablo Kuczynski ha dovuto cedere. Coinvolto nello scandalo Odebrecht e indagato per aver tentato di sottrarsi all'impeachment comprando l'appoggio dei congressisti, il 21 marzo si è dimesso prima di essere destituito dal voto del Parlamento. Già nel dicembre scorso l'ex presidente si era salvato da una richiesta di destituzione barattando la liberazione di Alberto Fujimori in cambio dell'appoggio del figlio del dittatore, Kenji, e del suo gruppo parlamentare. Un indulto umanitario che aveva suscitato l'indignazione popolare: migliaia di persone erano scese in piazza per protestare contro questo provvedimento di "clemenza".

Questa volta il salvataggio non c'è stato, anche perché Ppk (come Kuczynski viene comunemente conosciuto) non disponeva più di monete di scambio. E alle prove della corruzione, che si sono venute accumulando contro di lui, si sono aggiunti i video che testimoniano la tentata compravendita di voti. La contrattazione, orchestrata a suo favore dall'alleato Kenji, è venuta alla luce perché un membro del partito Fuerza Popular ha registrato le trattative rendendole pubbliche. L'episodio fa parte della guerra che da tempo oppone Kenji alla sorella Keiko per il controllo del movimento fujimorista. Agli inizi di marzo Kenji aveva abbandonato Fuerza Popular, ufficialmente per scrupoli morali, dopo le rivelazioni di un funzionario di Odebrecht che aveva parlato di un cospicuo finanziamento al partito per la campagna elettorale del 2011.

Kuczynski verrà sostituito dal vicepresidente Martín Vizcarra, che dovrebbe rimanere in carica fino al completamento del mandato nel luglio 2021. Da notare che anche Vizcarra era stato sospettato l'anno scorso di corruzione e aveva dovuto rinunciare all'incarico di ministro dei Trasporti e delle Comunicazioni: aveva infatti firmato, per la costruzione di un aeroporto, un contratto considerato troppo favorevole agli interessi del consorzio privato che aveva ottenuto l'appalto.

Le dimissioni di Ppk non porteranno, con ogni probabilità, a un cambiamento nella politica neoliberista e filostatunitense del governo. Kuczynski si era mostrato talmente succube ai voleri di Washington da ritirare al presidente Maduro l'invito a partecipare al Vertice delle Americhe, programmato per il 13 e 14 aprile nella capitale peruviana. Del resto proprio qui è nato nel 2017 il Grupo de Lima, formato dai paesi più conservatori della regione, che appoggia tutte le richieste dell'opposizione venezuelana.

E non ci sarà neppure una vera svolta nella lotta alla corruzione. Come afferma la sociologa Anahi Durand, del Movimiento Nuevo Perú (l'organizzazione di sinistra guidata da Verónika Mendoza), è necessario portare fino in fondo le indagini sui politici corrotti, senza guardare in faccia a nessuno. Ma questo non basta. "Dal Movimiento Nuevo Perú abbiamo insistito su un tema chiave, il tema della Costituzione. Questa crisi di corruzione generalizzata è la conseguenza delle attuali regole del gioco. La Costituzione del 1993, approvata dopo il colpo di Stato del fujimorismo, è ancora vigente. L'attuale quadro costituzionale facilita queste situazioni di corruzione. Dunque noi diciamo: Va bene che se ne vada Ppk, ma vogliamo nuove elezioni e l'apertura di un processo costituente".

22/3/2018


Colombia, 160 leader sociali assassinati dal 2016

Secondo i dati della Procura, sono 160 i leader sociali assassinati dal 2016. Lo ha rivelato il presidente Santos nel corso di una riunione della Comisión Nacional de Garantías de Seguridad. La gravità della crisi è stata ribadita dal direttore per l'America di Human Rights Watch, José Miguel Vivanco: "La situazione di insicurezza in alcune regioni del paese, specialmente in seguito al processo successivo al conflitto, pone a rischio reale attivisti e difensori dei diritti umani. Le cifre parlano di un incremento dal 25 al 30% dal 2015 a oggi". I territori più colpiti sono quelli abbandonati dalle Farc dopo la firma degli accordi di pace e ora occupati da bande di narcotrafficanti.

Sono ricominciati intanto il 15 marzo a Quito i negoziati tra il governo di Bogotá e l'Ejército de Liberación Nacional. Il ciclo di colloqui avrebbe dovuto riprendere il 9 gennaio, alla scadenza della tregua bilaterale, ma era stato sospeso da Santos dopo una serie di attentati attribuiti al gruppo guerrigliero. La decisione dell'esecutivo di riprendere le trattative è stata determinata dal cessate il fuoco proclamato dall'Eln in occasione del voto dell'11 marzo per il rinnovo del Congresso.

Un appuntamento importante, quello delle legislative, perché il nuovo Parlamento avrà un ruolo chiave negli sviluppi del processo di pace. Eppure più della metà degli aventi diritto al voto ha disertato le urne: l'astensione si è aggirata attorno al 52%. E non sono mancate le denunce di irregolarità e brogli in diverse zone del paese.

I risultati confermano che la destra mantiene la maggioranza in entrambe le Camere. Il partito che ha raggiunto il maggior numero di consensi è il Centro Democrático, la formazione dell'ex presidente Uribe ostile agli accordi, che ottiene 19 seggi in Senato e 32 alla Camera. E proprio Alvaro Uribe è l'esponente politico più votato, con oltre 800.000 suffragi. Il Partido Social de la U dell'attuale capo dello Stato perde circa un terzo dei seggi rispetto al 2014, conquistando solo 14 senatori e 25 deputati, mentre cresce Cambio Radical, raggruppamento dell'ex vicepresidente Germán Vargas Lleras, che ottiene 16 senatori e 30 deputati. Il Partido Conservador si aggiudica 15 senatori e 21 deputati.

Per quanto riguarda le altre formazioni, il Partido Liberal guidato da Humberto de la Calle, che era a capo della delegazione governativa nei negoziati con le Farc, si aggiudica 14 senatori e 35 deputati. Quattro seggi al Senato e due alla Camera sono stati conquistati dalla neonata Lista de la Decencia, una coalizione di cui fa parte anche l'Unión Patriótica (che è riuscita a far eleggere la propria presidente Aída Avella). Alianza Verde ottiene dieci senatori e nove deputati e il Polo Democrático Alternativo cinque seggi al Senato e due alla Camera. Infine, in base agli accordi di pace, cinque senatori e cinque deputati sono stati attribuiti alla Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, che dalle urne ha ottenuto un risultato molto modesto.

L'11 marzo si sono tenute anche le consultazioni per la scelta dei candidati alle prossime presidenziali. A destra si è imposto Iván Duque, proposto dal Centro Democrático. Per la Lista de la Decencia ha trionfato l'ex sindaco di Bogotá Gustavo Petro (centrosinistra). Altri candidati con qualche chance di arrivare alla massima carica dello Stato sono il centrista Sergio Fajardo, appoggiato da Alianza Verde e Polo Democrático Alternativo, e Germán Vargas Lleras per Cambio Radical. Ha invece ritirato la sua candidatura l'ex leader delle Farc, Rodrigo Londoño Timochenko. La rinuncia è legata sia a problemi di salute (Londoño è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico al cuore), sia alla mancanza di garanzie di sicurezza nella contesa elettorale.

17/3/2018


Brasile, l'uccisione di Marielle Franco

Delitto politico in Brasile. Marielle Franco, consigliera comunale di Rio de Janeiro, è stata assassinata il 14 marzo in un agguato mentre viaggiava in automobile. Quattro proiettili l'hanno colpita alla testa, altri tre hanno ucciso l'autista. Il delitto è avvenuto quando nello Stato era in atto già da quasi un mese l'intervento militare, deciso dall'illegittimo presidente Temer per "porre fine alla grave crisi dell'ordine pubblico". Marielle si era opposta con forza a questo provvedimento, adottato per la prima volta dall'approvazione della Costituzione del 1988. La sua morte ha scatenato immediate mobilitazioni in tutto il paese. Centinaia di migliaia di persone si sono concentrate davanti alla Câmara Municipal di Rio, dove si è tenuta la veglia funebre.

Dirigente del Partido Socialismo e Liberdade, Marielle Franco si definiva "nera, femminista e cresciuta nella favela della Maré". Nata in un ambiente violento e degradato, era riuscita a laurearsi in sociologia ed era da sempre impegnata nella difesa dei diritti delle donne e delle persone più svantaggiate. Aveva coordinato la Commissione per la Difesa dei Diritti Umani e Civili dell'Assembleia Legislativa di Rio e più volte aveva denunciato gli abusi delle autorità e le uccisioni indiscriminate di giovani, soprattutto neri, da parte delle forze di sicurezza.

Il suo assassinio, una vera e propria esecuzione, rivela l'azione di tiratori esperti che hanno utilizzato munizioni calibro 9 in dotazione alla polizia federale. Una conferma che dietro l'attentato ci sono le forze di sicurezza o membri delle milícias, come vengono chiamati i gruppi paramilitari formati da poliziotti ed ex poliziotti. Il suo caso ricorda quello della giudice Patrícia Acioli, colpita a morte nel 2011 da due sicari a Niterói (sempre nello Stato di Rio), perché "colpevole" di aver rinviato a giudizio agenti legati alle milícias.

17/3/2018


El Salvador, il Fmln perde le elezioni legislative

A più di una settimana dalle elezioni del 4 marzo i risultati non sono ancora definitivi, ma una cosa è certa: il partito di estrema destra Arena, Alianza Republicana Nacionalista, pur perdendo circa 80.000 voti rispetto alle consultazioni del 2015, si afferma come la maggiore forza parlamentare e insieme alle altre formazioni conservatrici, Partido de Concertación Nacional e Partido Demócrata Cristiano, potrà contare sulla maggioranza degli 84 deputati nazionali. Il voto, considerato un importante test in previsione delle presidenziali che si terranno il prossimo anno, si è svolto in un clima di sostanziale calma, ma anche di scarso interesse: si sono recati alle urne poco più del 30% degli aventi diritto (l'affluenza è scesa del 18% rispetto al 2015) e moltissimi sono stati i voti nulli.

Il Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional soffre una vera e propria emorragia di suffragi: più di 360.000. Alla presidenza dal 2009 prima con l'indipendente Mauricio Funes, poi con l'ex comandante guerrigliero Salvador Sánchez Cerén, paga la difficoltà di governare senza una solida maggioranza, per cui ha dovuto talvolta negoziare l'appoggio del partito di centrodestra Gana, Gran Alianza por la Unidad Nacional. Senza contare che l'oligarchia detiene ancora il potere nei posti chiave dell'apparato statale e ha in mano i principali mezzi di comunicazione.

Il Salvador in questi anni ha compiuto innegabili passi avanti, soprattutto nei campi della sanità e dell'istruzione e ha registrato una diminuzione dell'insicurezza grazie alla lotta contro le maras, le bande criminali. Ma con una serie di sentenze "politiche" la magistratura, annullando importanti decisioni dell'esecutivo, ha ostacolato una vera trasformazione. Tra le riforme in attesa, una legge tributaria progressiva che mitighi le enormi disuguaglianze; una depenalizzazione dell'aborto almeno nei casi di rischio per la vita della madre, stupro o malformazione del feto; l'abrogazione definitiva della legge di amnistia del 1993 che, pur essendo stata dichiarata incostituzionale due anni fa, impedisce tuttora la condanna di quanti si resero responsabili di violazione dei diritti umani durante il lungo conflitto civile.

Il 4 marzo gli elettori erano chiamati a rinnovare non solo la composizione dell'Assemblea Legislativa, ma anche le amministrazioni di 262 municipi. La vittoria di Arena si è estesa al governo della capitale: il nuovo sindaco sarà Ernesto Muyshondt (sospettato di legami con la criminalità organizzata), che si è imposto sulla candidata del Fmln, Jackeline Rivera.

Proprio in questi giorni il Vaticano ha annunciato la prossima santificazione dell'arcivescovo Romero, ucciso nel 1980 per ordine del fondatore di Arena, Roberto D'Aubuisson. Il 12 marzo alcune migliaia di persone hanno ricordato a El Paisnal, località a pochi chilometri da San Salvador, il 41° anniversario dell'assassinio del sacerdote gesuita Rutilio Grande, amico e collaboratore di Romero, per mano di membri della Guardia Nacional. Questo crimine originò un profondo cambiamento in Romero, che da allora cominciò quella forte denuncia dell'ingiustizia sociale che lo porterà a essere lui stesso vittima degli squadroni della morte.

12/3/2018


Senza gli Usa nasce il nuovo accordo transpacifico

Undici Stati di tre continenti hanno sottoscritto l'8 marzo, a Santiago del Cile, il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership, chiamato anche Tpp-11. Il nuovo trattato di libero commercio riunisce le nazioni aderenti al Tpp, a eccezione degli Stati Uniti. Si tratta di Canada, Messico, Cile, Perù, Giappone, Vietnam, Malesia, Brunei, Singapore, Australia e Nuova Zelanda, paesi in cui vivono circa 480 milioni di persone. Il blocco costituisce il 13,5% del pil mondiale e al suo interno il socio economicamente più forte è il Giappone.

Nel gennaio del 2017, con l'arrivo di Trump al governo, gli Usa - che pur erano stati tra i promotori dell'accordo - avevano deciso di uscire dal Trans-Pacific Partnership. L'abbandono di Washington non ha significato la fine del progetto, rilanciato nel novembre scorso al vertice dell'Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) in Vietnam. Il Comprehensive and Progressive Agreement mantiene essenzialmente il contenuto del Tpp, sospendendo però l'applicazione di alcune disposizioni che erano state introdotte su richiesta statunitense.

Anche questa versione senza gli Usa rimane comunque improntata a un'ottica neoliberista, che mira a ridurre il potere d'azione di governi e Parlamenti nazionali a favore delle imprese transnazionali. Queste ultime potranno appellarsi a istanze internazionali se penseranno che i loro interessi siano stati pregiudicati dalle leggi dei singoli Stati. Restano dunque valide le denunce di organizzazioni e movimenti sociali che vedono in questi trattati l'attacco a garanzie individuali, conquiste dei lavoratori e strumenti di difesa della salute e dell'ambiente.

8/3/2018


Messico, verso il voto tra violenza e crisi economica

Il Messico si avvia verso le elezioni di luglio in una situazione di profonda crisi, stretto tra disoccupazione, inflazione, crescita delle disuguaglianze. E soprattutto aumento esponenziale della violenza, con il 2017 che si conferma, da questo punto di vista, come il peggiore degli ultimi due decenni. La risposta del governo, con l'approvazione in dicembre della Ley de Seguridad Interior che formalizza la partecipazione delle forze armate in compiti di polizia, non è certo destinata a riportare la pace nel paese. La militarizzazione della sicurezza infatti è in atto già da tempo - sia pure con carattere "provvisorio" - e non ha fatto che moltiplicare i casi di violazione dello Stato di diritto. Con questa legge si vuole sottomettere l'autorità civile a quella militare, ha sottolineato il rappresentante in Messico dell'Alto Commissariato dell'Onu per i Diritti Umani, Jan Jarab, che si è detto preoccupato soprattutto per la possibilità che le forze armate intervengano nella repressione di manifestazioni e proteste.

E certo l'intervento dei soldati non ferma le uccisioni di dirigenti sociali e comunitari. Il 16 gennaio nei pressi di Chilchota (Stato del Michoacán) è stato ritrovato il cadavere di Guadalupe Campanur Tapia. Indigena purépecha, Guadalupe aveva partecipato attivamente alla rivolta degli abitanti di Cherán che nel 2011, per preservare il patrimonio boschivo dalle minacce dei trafficanti illegali di legname, avevano organizzato una ronda comunitaria e si erano costituiti in municipio autonomo. L'autogoverno di Cherán, sul modello dei caracoles zapatisti del Chiapas, è diventato in questi anni un esempio per quanti lottano in difesa del territorio e delle risorse idriche, contro le ecomafie e i loro protettori politici.

Il primo luglio gli elettori saranno chiamati a scegliere il nuovo presidente, a rinnovare la composizione del Senato e della Camera e a eleggere i governatori di nove Stati, tra cui Città del Messico (dove, nel settembre di quest'anno, entrerà in vigore la nuova Constitución Política approvata nel 2017). Il Pan, destra, e il Prd, ex centrosinistra, insieme a Movimiento Ciudadano hanno dato vita alla coalizione Por México al Frente, che propone come candidato l'attuale presidente panista Ricardo Anaya: è chiaro così, fin da subito, quale partito detiene il maggior peso politico. Il Pri si muove invece nel segno della continuità con il governo in carica presentando José Antonio Meade, ex ministro delle Finanze di Peña Nieto. A sostenere Meade, nell'alleanza Todos por México, concorrono anche il Partido Verde Ecologista e Nueva Alianza.

L'unica alternativa è rappresentata da Morena, il Movimiento Regeneración Nacional di Andrés Manuel López Obrador, che ha centrato la sua campagna sulla lotta alla corruzione e appare ampiamente favorito nei sondaggi. Amlo, come viene comunemente chiamato, è già al terzo tentativo di accedere alla massima carica dello Stato: sia nel 2006 che nel 2012 la sua corsa venne frenata da clamorosi brogli. Avverrà lo stesso anche questa volta? Non va dimenticato che lo scorso anno John Kelly, allora segretario del Dipartimento per la Sicurezza di Washington, affermò a chiare lettere: un presidente di sinistra non sarebbe buono né per gli Stati Uniti né per il Messico.

Forse per evitare la censura dei poteri forti, il candidato di Morena negli ultimi mesi ha moderato molto il suo discorso politico. L'ipotesi di futuro governo, in caso di vittoria, non è piaciuta a molti dei suoi sostenitori. Il Ministero di Gobernación (Interno) verrebbe affidato a una giudice che, durante la sua permanenza alla Corte Suprema, si è pronunciata sempre a favore delle banche e della finanza; quello dell'Agricoltura a un personaggio legato ai grandi consorzi agroindustriali del settore delle biotecnologie. Inoltre Amlo ha ampliato la sua coalizione, Juntos Haremos Historia, che ora comprende - oltre al Partido del Trabajo - il Pes, Partido Encuentro Social, piccola formazione conservatrice sul piano economico e su quello dei diritti civili (si oppone all'aborto e ai matrimoni tra persone dello stesso sesso). Del resto non c'è da stupirsi, perché il Pes è espressione di una delle tante sette evangeliche che stanno guadagnando terreno nel paese a scapito del Chiesa cattolica. Che nel frattempo cerca di correre ai ripari, ponendo fine al lungo periodo wojtyliano: in febbraio l'arcivescovo Rivera è stato sostituito da Carlos Aguiar, più vicino a una Chiesa dei poveri.

Le presidenziali del 2018 presentano però un'altra particolarità: per la prima volta parteciperanno anche candidati indipendenti. Tra questi Margarita Zavala, moglie dell'ex presidente Felipe Calderón. La vera novità sarebbe stata rappresentata dalla presenza di María de Jesús Patricio Martínez Marichuy, la portavoce del Consejo Indígena de Gobierno costituito a San Cristóbal de las Casas nel 2017. L'obiettivo di Marichuy non era quello di vincere, ma di portare nel processo elettorale la visione del Messico indigeno, sempre escluso e dimenticato. Purtroppo, nonostante l'entusiasmo e lo sforzo di tanti militanti, la sua candidatura non è riuscita raccogliere l'enorme numero di firme necessario. Marichuy ha comunque girato in lungo e in largo il paese, prima di essere fermata a metà febbraio da un grave incidente automobilistico nello Stato di Baja California Sur. E come aveva detto lei stessa in uno dei suoi discorsi, la proposta del Concejo Indígena de Gobierno va al di là del primo luglio: "la lotta sarà lunga", perché è contro il saccheggio e la sparizione dei popoli, contro il sistema capitalistico che tutto distrugge.

28/2/2018


L'arma giuridica contro i movimenti progressisti

Il 24 gennaio i magistrati di Porto Alegre hanno confermato, e addirittura aumentato (da nove anni e sei mesi a dodici anni e un mese), la condanna comminata all'ex presidente brasiliano Lula per un reato non provato. In tal modo diventa quasi impossibile per l'ex presidente partecipare alle elezioni di ottobre, dove tutti i sondaggi lo indicano come sicuro vincitore. È questo l'ennesimo atto di una vera e propria guerra giuridica, il cosiddetto lawfare, contro gli esponenti dei movimenti progressisti latinoamericani.

Mentre il Venezuela è quotidianamente sottoposto ad attacchi esterni (sanzioni economiche e minacce di intervento armato) e interni (recentemente si è giunti al sabotaggio di centrali elettriche), nel resto della regione è in corso un'offensiva non meno pericolosa, che mira alla diffamazione e alla criminalizzazione degli oppositori, anche i più moderati. Come afferma il giurista argentino Raúl Zaffaroni, con questa sorta di Plan Cóndor Judicial si vuole "eliminare da ogni contesa elettorale e per via giudiziaria qualsiasi leader o dirigente popolare in grado di vincere un'elezione contro i candidati delle corporazioni". Questa nuova arma, resa ancora più potente dal controllo esercitato sui principali media da parte dei gruppi di potere, punta a far tacere ogni voce alternativa. Lo scopo è quello di cancellare diritti acquisiti nei decenni per restaurare un neoliberismo selvaggio, come sta già avvenendo in buona parte dell'America Latina.

Già l'honduregno Manuel Zelaya nel 2009 e il paraguayano Fernando Lugo nel 2012 erano stati deposti con accuse pretestose. A Zelaya era stata rimproverata la convocazione di un referendum per ottenere la possibilità di ricandidarsi (senza neppure passare attraverso il referendum, nel novembre scorso il golpista Juan Orlando Hernández si è fatto rieleggere, grazie ai brogli, per un secondo mandato). Lugo era stato sottoposto a processo politico per il massacro di Curuguaty, scatenato in realtà da provocatori mescolati ai manifestanti, che il governo non avrebbe saputo impedire. E per non correre rischi, le autorità elettorali del Paraguay hanno ora sentenziato che il sostegno a una nuova candidatura di Lugo da parte di una qualsiasi forza politica venga considerato propaganda maliciosa. Nel 2016 il bersaglio era stata la presidente del Brasile Dilma Rousseff, destituita per "corruzione" - senza alcuna prova - da un Parlamento pieno di corrotti. Un vero e proprio golpe che trova compimento ora nella condanna di Lula.

L'elenco prosegue con l'Argentina, dove nel mirino c'è l'ex presidente Cristina Fernández, accusata di aver coperto i funzionari iraniani sospettati dell'attentato del 1994 contro la sede dell'Asociación Mutual Israelita Argentina: lo avrebbe fatto attraverso un accordo raggiunto con Teheran e approvato dal Congresso. Non potendo procedere all'arresto immediato dell'ex presidente, che nella sua qualità di senatrice gode dell'immunità parlamentare, la "giustizia" ha colpito l'ex segretario legale del governo Fernández, Carlos Zannini, in carcere dal dicembre scorso. Nel frattempo venivano archiviate le denunce (queste sì concrete) contro Mauricio Macri.

Anche in Ecuador la battaglia tra l'ex presidente Rafael Correa e il suo successore Lenín Moreno si è giocata nelle aule dei tribunali. Per consolidare la sua svolta reazionaria, Moreno doveva liberarsi del vicepresidente Jorge Glas, legato all'ala correista. In dicembre Glas è stato condannato a sei anni di carcere per aver favorito, dietro compenso, la concessione di appalti all'impresa brasiliana Odebrecht. "L'Ecuador ha fatto passi giganteschi nella lotta contro la corruzione - ha commentato Correa - Nel caso di Jorge Glas, lo accusano di aver ricevuto tangenti e non si è trovato niente. Si è installato nell'immaginario collettivo, ma non ci sono prove!" Lo stesso Correa è stato chiamato a dichiarare, di fronte alla Procura di Guayaquil, su una vendita di petrolio a Cina e Thailandia che avrebbe causato danni alle casse statali. L'obiettivo è quello di escluderlo da un'eventuale nuova candidatura, visto che tra i provvedimenti approvati con il recente referendum c'è la proibizione, per chiunque sia stato condannato per corruzione, di partecipare alla vita pubblica.

In Cile il figlio di Michelle Bachelet, Sebastián Dávalos, era finito sotto inchiesta perché sospettato di aver approfittato dei suoi legami familiari per aiutare l'impresa Caval, di proprietà della moglie, a ottenere un ingente credito. Dávalos avrebbe inoltre esercitato pressioni per modificare la destinazione d'uso di un terreno acquistato dalla Caval al fine di aumentare il suo valore di mercato. Tali sospetti avevano contribuito non poco a minare la credibilità della presidente e del suo candidato alla successione, Guillier, favorendo nelle elezioni del dicembre 2017 la vittoria dell'esponente della destra Piñera. All'inizio di quest'anno la Corte ha definitivamente prosciolto Dávalos da tutte le accuse, ma ormai l'effetto voluto era stato raggiunto.

Un altro illustre bersaglio è stato l'ex presidente uruguayano José Mujica, che l'anno scorso ha dovuto difendersi dall'accusa, riportata in un libro della giornalista María Urruzola e ribadita da un ex commissario di polizia, di essere coinvolto negli assalti alle banche commessi negli anni Novanta da ex tupamaros. Il denaro rubato, sostenevano queste fonti, era destinato a finanziare il Movimiento de Participación Popular di Mujica. Quanto al boliviano Evo Morales, la sconfitta nel referendum di due anni fa, con cui proponeva una riforma costituzionale per ripresentare la sua candidatura nel 2019, è dovuta in gran parte a una campagna di discredito diffusa dall'opposizione, in particolare alla versione di una sua ex fidanzata che sosteneva di aver avuto con lui un figlio mai riconosciuto. Un anno dopo il voto l'ex fidanzata ha ammesso di aver mentito proprio per pregiudicare politicamente la figura di Morales. L'operazione non è comunque riuscita, perché nel novembre scorso il Tribunal Constitucional Plurinacional ha dato via libera alla rielezione indefinita del capo dello Stato.

8/2/2018


Ecuador, vittoria (parziale) di Moreno

Il referendum del 4 febbraio, con la vittoria del Sì a tutte le domande, costituisce un indubbio trionfo per il governo Moreno. In particolare l'approvazione dell'emendamento alla Costituzione che cancella la rielezione indefinita, permettendo alle cariche elettive una sola possibilità di concorrere a un nuovo mandato, preclude all'ex presidente Rafael Correa la possibilità di ricandidarsi nel 2021.

Altro quesito fondamentale riguardava la ristrutturazione del Consejo de Participación Ciudadana y Control Social, un organo creato da Correa con la funzione di designare le autorità di controllo, compresi i membri della Corte Costituzionale. Ora quest'organo sarà gestito in via transitoria da un nuovo Consejo, che verrà nominato dall'Asamblea Nacional all'interno di una rosa di candidati indicati dall'esecutivo, e che dovrà valutare (e potrà rimuovere) tutti i funzionari legati alla precedente amministrazione. Quanto all'abrogazione della Ley de Plusvalía, che colpiva la speculazione su beni immobili e terreni, è un chiaro regalo alle destre e in particolare al settore della costruzione.

In tal modo il plebiscito, voluto da Lenín Moreno e convocato senza attendere l'approvazione della Corte Costituzionale, segna una svolta nella politica del paese. La battaglia tra le due anime di Alianza País aveva già portato a una scissione: l'ala correista aveva destituito Moreno dalla presidenza di Ap, ma la decisione era stata invalidata dalle autorità elettorali. Questo aveva spinto Correa e i suoi sostenitori ad abbandonare il partito, per dar vita a una nuova organizzazione, il Movimiento Revolución Ciudadana. "Potranno tenersi il nome, le sedi, gli schedari di Ap, ma le idee, il popolo, la Rivoluzione e il futuro sono con noi", aveva commentato l'ex presidente attraverso Twitter.

Se Moreno esce vincitore dal voto del 4 febbraio, molti commentatori mettono comunque in risalto i limiti di tale vittoria. Già in precedenza il movimento correista aveva affermato che si sarebbe confermato come forza politica se il No avesse ottenuto oltre il 30% dei suffragi. Tale percentuale è stata superata in cinque delle sette domande, e in particolare si aggira sul 36% nelle tre su cui Correa aveva fatto campagna: la proibizione della rielezione indefinita, la ristrutturazione del Consejo de Participación Ciudadana e l'abolizione della Ley de Plusvalía. Lo ha sottolineato lo stesso Correa dopo aver conosciuto i risultati: "Tutto lo spettro politico, dall'estrema destra all'estrema sinistra, con l'appoggio 24 ore al giorno tutti i giorni dei grandi mezzi di comunicazione, contro un solo movimento che ha ottenuto il 36% dei voti, sai che base politica significa? Naturalmente sarei stato felice di vincere, ma sapevamo che era quasi impossibile, perché avevamo meno di un mese per la campagna, non avevamo risorse, eravamo stretti da un assedio mediatico, insomma sono risultati straordinari".

"Per ora c'è una maggioranza non correista in Ecuador. È un cambiamento significativo in confronto a quello che fu elettoralmente questo paese fino a poco tempo fa - scrive l'economista Alfredo Serrano Mancilla, direttore del Celag - Detto ciò, tuttavia, anche la seguente conclusione è evidente: Correa e la Revolución Ciudadana sono più vivi che morti. Se l'obiettivo era far sì che il correismo scomparisse lentamente dopo i primi mesi di governo di Lenín Moreno, chiaramente questo obiettivo non è stato per nulla raggiunto. La consultazione ha constatato un fatto innegabile: ci sarà correismo a lungo. Un 36% ha appoggiato Correa in un contesto in cui aveva contro tutto, cioè il 28,8% del totale dei votanti del paese. Un valore molto vicino a quello che Lenín aveva ottenuto al primo turno, con l'appoggio anche di Rafael Correa: 28,99%. Cioè Correa, con tutto contro, ottiene ora quasi la stessa percentuale raggiunta da Lenín un anno fa, ma con tutto a favore". Senza contare, sottolinea Serrano Mancilla, che Lenín Moreno e Alianza País non possono dirsi detentori del risultato del Sì, ottenuto riunendo l'intero arco oppositore. Il presidente "non ha una propria forza elettorale per guidare questo progetto politico. L'opposizione ormai lo sa". E presto gli presenterà il conto.

6/2/2018


Honduras, insediamento tra le proteste

Juan Orlando Hernández si è insediato il 27 gennaio per un secondo mandato, in una seduta del Congresso tenuta presso lo stadio nazionale pieno di suoi sostenitori. In un'altra zona della capitale si erano concentrati gli oppositori, con alla testa l'ex candidato Salvador Nasralla e l'ex presidente Manuel Zelaya. Non appena i manifestanti hanno mosso i primi passi in direzione dell'Estadio sono stati dispersi con gas lacrimogeni dalle forze di sicurezza.

Nel suo discorso di investitura Hernández ha fatto appello al dialogo e all'unità, cercando di far dimenticare i brogli grazie ai quali è stato rieletto. "Si è consolidata la dittatura, è un governo che ha il sigillo dello Stato, ma è privo di legittimità. Si impone in modo violento con i militari nelle strade", ha affermato Bertha Oliva, coordinatrice del Comité de Familiares de Detenidos Desaparecidos.

La violenza della repressione è ben documentata dal rapporto della Coalición contra la Impunidad, che ha comprovato l'uccisione di 33 persone da parte di polizia ed esercito nel periodo compreso tra il 26 novembre 2017 e il 23 gennaio 2018. "Donne e uomini che partecipavano alle manifestazioni pacifiche, dirigenti di movimenti sociali e di difesa dei diritti umani sono stati bersaglio di attacchi sistematici. Questi attacchi comprendono persecuzioni, controlli, pedinamenti, minacce di morte, intimidazioni, diffamazioni, calunnie, aggressioni fisiche, atti crudeli, disumani e degradanti, torture".

Nelle conclusioni il rapporto traccia un quadro dell'attuale situazione del paese: "La crisi postelettorale che si è risolta con l'imposizione, attraverso la forza poliziesco-militare, di questi risultati elettorali ha avuto molteplici cause strutturali. Tra di esse si possono distinguere la cooptazione e il controllo assoluto delle istituzioni da parte del gruppo politico, imprenditoriale e militare che appoggia l'attuale governante, così come il rifiuto di realizzare riforme elettorali". Sfidando la repressione, "la mobilitazione sociale è stata massiccia su tutto il territorio nazionale. Il rigetto verso l'attuale governo, per il suo elevato grado di corruzione, è stato evidenziato prima nelle urne e poi nelle strade".

28/1/2018

Latinoamerica-online.it

a cura di Nicoletta Manuzzato