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Il Venezuela sospeso dal Mercosur Mancato adeguamento alle norme del Mercosur: con questo pretesto Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay hanno deciso, agli inizi di dicembre, la sospensione della República Bolivariana de Venezuela dal blocco regionale. È la fase finale di un attacco al governo Maduro da parte dei tre regimi di destra della regione, attacco al quale l'esecutivo di Montevideo si è accodato. In precedenza gli stessi paesi avevano impedito al Venezuela di assumere la presidenza semestrale del mercato comune, contraddicendo la regola che prevede una rotazione per ordine alfabetico (nel primo semestre del 2016 la presidenza era stata esercitata dall'Uruguay). Ancora più grave quanto accaduto a metà dicembre a Buenos Aires, dove era previsto un incontro dei ministri degli Esteri del Mercosur. La rappresentante venezuelana, Delcy Rodríguez, ha tentato di partecipare alla riunione, ma l'accesso le è stato proibito dalle forze di sicurezza, che l'hanno anche colpita al braccio. Quando finalmente Rodríguez ha potuto entrare nella sala predisposta per l'incontro, ha scoperto che in tutta fretta questo era stato spostato in altra sede. È chiaro che la politica del capo di Stato argentino Macri e del golpista brasiliano Temer è agli antipodi rispetto all'integrazione regionale perseguita dai governi progressisti di Kirchner-Fernández e Lula-Rousseff. Ricevendo a Buenos Aires la presidente cilena Michelle Bachelet, Macri ha caldeggiato maggiori relazioni commerciali tra Mercosur e Alianza del Pacífico (l'alleanza sponsorizzata da Washington di cui il Cile fa parte): un incontro tra i ministri dei due blocchi è previsto per il primo trimestre del 2017. Nel paese la situazione resta tesa dopo il congelamento del dialogo tra governo e opposizione, che era iniziato a fine ottobre sotto gli auspici di papa Francesco e dell'Unasur. Qualche giorno prima del previsto incontro del 6 dicembre, i rappresentanti della Mud, la Mesa de la Unidad Democrática, hanno annunciato l'abbandono del tavolo delle trattative: riprenderanno i colloqui solo se il presidente Maduro accetterà una soluzione elettorale della crisi (referendum revocatorio o consultazioni anticipate) e se verranno liberati quelli che considerano prigionieri politici. Il fallimento del dialogo ha riacceso il conflitto di poteri tra l'esecutivo e l'Asamblea Nacional, dominata dall'opposizione. Quest'ultima responsabilizza il presidente Maduro per la crisi economica che il paese sta vivendo e, accusandolo di "abbandono della carica", vorrebbe arrivare alla sua destituzione (l'impeachment però non è previsto dalla Costituzione venezuelana). Dal canto suo il Tribunal Supremo de Justicia ha dichiarato nulle le decisioni dell'Asamblea, perché dall'aula parlamentare non sono stati esclusi tre deputati la cui elezione era stata sospesa per denunce di brogli. 16/12/2016 |
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Colombia, una pace tra mille insidie Questa volta la cerimonia della firma ha avuto un tono minore. Dopo la doccia fredda della bocciatura nel referendum del 2 ottobre, la Colombia prova nuovamente a uscire dall'incubo del conflitto più lungo della sua storia. Il 24 novembre il presidente Santos e il leader delle Farc Timochenko hanno sottoscritto, nel Teatro Colón della capitale, la nuova versione degli accordi di pace. Il testo accoglie in parte le proposte di modifica presentate dal fronte del No, cercando di sottrarre terreno alla campagna di menzogne che aveva suscitato diffidenze e paura nella popolazione. Il precedente accordo delineava, per il periodo di transizione, un sistema di giustizia che avrebbe giudicato i crimini commessi durante il conflitto comminando pene alternative al carcere: non venivano però chiariti i termini entro i quali presentare le relative denunce. Questi termini vengono ora stabiliti in dieci anni (prorogabili fino a quindici). Si precisa inoltre che i giudici incaricati di portare avanti i procedimenti dovranno essere di nazionalità colombiana. Nell'ambito del progetto di legge su amnistia e indulto, che il governo dovrà presentare al Congresso, per militari e agenti di polizia è previsto un trattamento differenziato. Per quanto riguarda il reato di narcotraffico potrà essere amnistiato - è stato precisato - solo se non ne sarà derivato un arricchimento personale. Le Farc hanno inoltre accettato di presentare una lista di tutti i loro combattenti e di stilare un inventario dei loro beni, che serviranno a indennizzare le vittime. L'unico punto su cui non sono stati effettuati cambiamenti riguarda la possibilità per gli ex guerriglieri di partecipare alla vita politica: la richiesta della destra di impedire agli insorti l'accesso alle cariche pubbliche è stata respinta con forza. Gli accordi sono stati ratificati a grande maggioranza dai due rami del Congresso, evitando così un nuovo referendum dall'esito incerto. La strada per la fine del conflitto, comunque, è ancora lunga: le unità delle Farc dovranno concentrarsi in determinate zone rurali per un periodo di sei mesi, fino al completamento del processo di disarmo. E a gettare ombre sinistre sulla pace si è registrata a metà novembre una violazione del cessate il fuoco in cui, in circostanze poco chiare, sono rimasti uccisi due guerriglieri. Ma soprattutto novembre ha visto una recrudescenza degli attacchi a leader sociali e difensori dei diritti umani. Tra le ultime vittime: Jhon Rodríguez e José Velasco, caduti in due diversi agguati nel Cauca; Erley Monroy, trovato agonizzante in una strada nel dipartimento di Caquetá; Didier Losada, ucciso nella sua casa nel Meta; Rodrigo Cabrera, raggiunto dalle pallottole di due sconosciuti nel dipartimento di Nariño; Froidan Cortés, colpito a morte nella sua abitazione nella Valle del Cauca; Marcelina Canacué, assassinata nei pressi della sua casa. Tutti erano militanti di Marcha Patriótica, il movimento di sinistra impegnato a promuovere la pace e a far conoscere, nei villaggi e nelle aree rurali, i termini dell'intesa tra guerriglia e governo. Uno dei punti nodali degli accordi riguarda proprio il diritto dei piccoli contadini a recuperare le terre da cui furono cacciati, durante la guerra civile, ad opera di gruppi paramilitari al soldo dei latifondisti. Nelle campagne, dunque, si gioca il futuro del paese. Nel corso di un incontro con la stampa estera a Bogotá, Timochenko ha affermato che in Colombia è in atto uno scontro tra le forze a favore della pace e i guerrafondai. È probabile che molti membri della guerriglia vengano assassinati una volta abbandonate le armi: "Molti di noi rimarranno sul cammino", ha detto il dirigente delle Farc. "La pace è un processo lungo. È un progetto a lunga scadenza. Consolidare la pace dopo più di cinquant'anni di scontro non si otterrà in qualche mese o in qualche anno. Noi pensiamo che il prossimo governo, il prossimo presidente debba garantire la continuità di questo processo". Per tale motivo - ha assicurato - il partito politico che nascerà dagli insorti appoggerà nel 2018 un candidato presidenziale che unifichi quanti lottano per la fine del conflitto. 1/12/2016 |
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Cuba, la scomparsa di Fidel Castro "Con profondo dolore vengo a informare il nostro popolo e gli amici della nostra America e del mondo che oggi, 25 novembre 2016, alle ore 22.29 è morto il comandante in capo della Rivoluzione Cubana, Fidel Castro Ruz". Con queste parole il fratello Raúl ha annunciato la tragica notizia. "Per tutti noi verrà il nostro turno - aveva detto lo stesso Fidel in aprile, intervenendo al VII Congresso del partito - Ma rimarranno le idee dei comunisti cubani come prova che sul nostro pianeta, se si lavora con fervore e dignità, si possono produrre i beni materiali e culturali di cui gli esseri umani hanno bisogno, e dobbiamo lottare senza tregua per ottenerli". La figura del leader scomparso è strettamente legata alla storia della sua isola, che da parco di divertimento per ricchi e mafiosi nordamericani, come era sotto la dittatura di Batista, divenne simbolo di dignità e di sovranità. Sanità, educazione e pensioni garantite a tutti, sconfitta dell'analfabetismo, un grande sviluppo culturale in ogni campo, la creazione di un polo scientifico d'avanguardia nelle biotecnologie: questi alcuni dei progressi compiuti sotto la guida di Fidel. "Ma il suo lascito principale - afferma lo storico Francisco López Segrera - è aver dotato il popolo di valori come la generosità, la solidarietà e l'audacia e averlo fatto sentire degno e orgoglioso di essere cubano". E questi valori di solidarietà e generosità hanno contrassegnato la presenza dei medici cubani nei paesi più poveri e nelle zone più disagiate. Basti ricordare, tra gli esempi più recenti, le missioni ad Haiti e tra le popolazioni africane colpite dal virus Ebola. L'importanza dell'opera di Fidel Castro va però al di là dei ristretti confini della sua isola. Come scrive Atilio Boron: "Cuba diede un appoggio decisivo al consolidamento della rivoluzione in Algeria, sconfiggendo il colonialismo francese nel suo ultimo bastione; Cuba fu a fianco del Vietnam fin dal primo momento e la sua cooperazione risultò di enorme valore per quel popolo sottoposto al genocidio nordamericano; Cuba fu sempre a fianco dei palestinesi e non ebbe mai dubbi su quale fosse il lato giusto nel conflitto arabo-israeliano; Cuba fu decisiva, secondo Nelson Mandela, per ridefinire la mappa sociopolitica del sud del continente africano e farla finita con l'apartheid. Paesi come il Brasile, il Messico, l'Argentina, con economie, territori e popolazioni più grandi, non riuscirono mai a esercitare una tale forza d'attrazione nelle questioni mondiali. Ma Cuba aveva Fidel..." La sua scomparsa avviene in un momento particolarmente delicato della storia dell'isola, impegnata in una transizione dagli esiti incerti. Sul piano internazionale, l'Avana ha ottenuto il 26 ottobre un innegabile successo: nella votazione alle Nazioni Unite sulla risoluzione di condanna all'embargo, per la prima volta gli Stati Uniti (e il loro fedele alleato Israele) si sono astenuti. La risoluzione è stata dunque approvata con 191 voti a favore e nessun contrario. Nonostante questo il blocco non è stato tolto, mentre Guantanamo rimane in mano statunitense. E l'elezione di Trump alla Casa Bianca non fa certo sperare: i suoi collaboratori hanno già precisato che, senza ulteriori concessioni da parte cubana, non verrà mantenuta la politica di apertura iniziata dall'attuale amministrazione. Una politica, del resto, che Fidel aveva sempre guardato con sospetto. Nel marzo scorso, in occasione della visita di Obama, aveva risposto con fierezza all'invito del presidente Usa a dimenticare il passato (un passato di attentati e attacchi mercenari fomentati da Washington). I cubani - aveva scritto - non avrebbero rinunciato alle conquiste della Rivoluzione e non avrebbero avuto bisogno dei regali dell'impero: "Siamo in grado di produrre gli alimenti e le ricchezze materiali di cui necessitiamo con lo sforzo e l'intelligenza del nostro popolo". 30/11/2016 |
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Argentina, imprese recuperate contro il tarifazo Secondo i dati del rilevamento 2016, le imprese salvate dalla chiusura e recuperate dai lavoratori sono 367 (con quasi 16.000 occupati): 43 in più rispetto a tre anni fa. "Questo panorama di crescita risponde ancora alla dinamica del periodo kirchnerista anteriore", afferma però l'antropologo sociale Andrés Ruggeri in un'intervista a Notas. Le scelte economiche del governo Macri, con la svalutazione (e la conseguente impennata dei prezzi di materie prime e macchinari), l'apertura alle importazioni e soprattutto l'enorme aumento delle tariffe di gas ed energia elettrica, stanno avendo effetti devastanti su cooperative e fabbriche autogestite. Che si trovano anche a dover fronteggiare una diminuzione delle vendite causata dal crollo dei consumi interni. Spiega ancora Ruggeri: "Noi abbiamo sempre avuto una visione critica sulla politica statale verso le imprese recuperate durante il kirchnerismo che, pur esistendo e presentando tutta una serie di programmi e di sussidi, a volte importanti, non aveva un'unità, non pensava al settore autogestito come a un settore economico. Ma c'era un interlocutore statale per i momenti di difficoltà. Ora questo interlocutore è scomparso". Mentre lo Stato si defila, segnali negativi provengono dalle amministrazioni locali, che respingono le richieste di espropriazione a favore delle imprese recuperate (lo aveva già fatto Macri quando era a capo del governo di Buenos Aires). Al nuovo clima politico si è subito adeguata la magistratura, con l'aumento di cause penali contro le occupazioni di impianti e ripetute minacce di sgombero. E investitori senza scrupoli approfittano delle difficoltà di queste imprese offrendosi di acquistarle, per poi liquidarle e realizzare affari immobiliari: le loro offerte generano conflitti tra i lavoratori, tra quanti vorrebbero accettare per poter contare subito su un po' di denaro e quanti intendono invece mandare avanti la produzione. Siamo di fronte al tentativo di cancellare questa importante esperienza, che ha salvato migliaia di posti di lavoro ed è servita da modello a tanti altri paesi. È stato in particolare nell'ultimo decennio del secolo scorso e all'inizio del nuovo millennio che si è registrato il maggior numero di empresas recuperadas da parte dei dipendenti. Industrie metalmeccaniche, alimentari, chimiche, grafiche, ma anche imprese del commercio, della ristorazione, del trasporto hanno così evitato la chiusura dopo il fallimento e l'abbandono dei proprietari. Alcuni casi sono diventati emblematici: l'azienda tessile Bruckman, più volte sgomberata e più volte rioccupata dalle lavoratrici. La Cerámica Zanón, nella provincia patagonica di Neuquén, che ha saputo raccogliere intorno a sé la solidarietà della popolazione. La fabbrica di alluminio Impa, trasformata in importante spazio artistico e culturale. L'Hotel Bauen, albergo di lusso della capitale, ancora al centro di una disputa legale per il pieno riconoscimento del diritto all'autogestione. Proprio presso il Bauen si è costituita il 6 giugno la Multisectorial, rete di fabbriche autogestite, circoli di quartiere, centri culturali, associazioni di consumatori, organizzazioni e partiti politici, con l'obiettivo di articolare una resistenza collettiva al tarifazo. Cortei e mobilitazioni hanno portato la protesta davanti al Ministero dell'Energia e a quello del Lavoro; contro gli aumenti sono stati presentati innumerevoli ricorsi in tutto il paese. Il governo ha finora respinto tutte le richieste di una tariffa sociale a favore di cooperative e imprese recuperate, ma la battaglia è solo all'inizio e, a differenza degli anni Novanta, i lavoratori appaiono oggi più uniti e più consapevoli della loro forza. 9/11/2016 |
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Argentina, la battaglia per la memoria Una provocazione. Così Estela Barnes de Carlotto, presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo, ha definito il comunicato della segreteria governativa dei Diritti Umani che abbassa il numero dei desaparecidos da 30.000 a poco più di 7.000. È l'ultimo episodio del tentativo in atto, da parte ufficiale, di ridimensionare la barbarie del terrorismo di Stato. Non a caso Macri aveva esordito mettendo a capo di quella segreteria Claudio Avruj, un uomo dell'estrema destra. "Vogliono farci apparire bugiarde, mitomani. Hanno avuto il coraggio di dire che i nostri figli sono vivi all'estero e si stanno godendo quarant'anni di assenza, quando gli stessi assassini hanno ammesso che erano 45.000 tra morti e scomparsi", ha dichiarato Estela. L'obiettivo è quello di gettare discredito sulle organizzazioni per i diritti umani e sulla battaglia contro l'impunità, che Madres e Abuelas hanno condotto per decenni e continuano a condurre. Ormai anziane, non smettono di chiedere giustizia per i loro figli e di cercare i nipoti sottratti negli anni della dittatura (sono già 121 i giovani a cui è stata restituita l'identità: l'ultimo ritrovamento è stato annunciato agli inizi di ottobre). Nei loro appuntamenti del giovedì pomeriggio a Plaza de Mayo, che hanno ormai superato quota duemila, queste donne coraggiose lottano anche contro le storture del presente, denunciano la crescita della disoccupazione e la repressione poliziesca, accusano il governo Macri di aumentare la miseria e approfondire le disuguaglianze. Ma soprattutto alimentano la memoria, senza la quale un paese è destinato a ripercorrere gli orrori del passato. Si deve a loro se l'Argentina è riuscita a portare davanti a un tribunale decine di assassini e torturatori, mandanti e carnefici. La battaglia per la verità ha conosciuto una svolta decisiva nel 2003 con il governo di Néstor Kirchner. Lo ricorda la stessa Estela nel prologo al libro Guardianas de la memoria colectiva, la raccolta di racconti e testimonianze presentata il 3 ottobre nei locali della ex Esma: "I dodici anni che seguirono furono una fase di riparazione in materia di diritti umani: rimuovere i quadri dei genocidi dal Colegio Militar; chiedere perdono a nome dello Stato nazionale 'per aver taciuto, in vent'anni di democrazia, tante atrocità'; annullare le leggi di Obediencia Debida e Punto Final; riaprire le cause davanti alla Giustizia; istituire il 22 ottobre come Giornata Nazionale per il Diritto all'Identità in omaggio alla nostra lotta; dichiarare festivo il 24 marzo come Giornata Nazionale della Memoria; convertire i luoghi di tortura e di morte della dittatura in siti della memoria; includere nei programmi scolastici il tema dei desaparecidos e dei nipoti rubati come bottino di guerra, e l'elenco potrebbe continuare. Non furono solo riparazioni simboliche. Fu un decennio nel quale la nostra consegna storica di Memoria, Verità e Giustizia fu trasformata in politica di Stato". Oggi questa fase potrebbe conoscere una battuta d'arresto. Del resto tra i primi a gioire dell'elezione di Macri a presidente erano stati proprio i repressori sotto processo, sicuri che quella vittoria avrebbe significato un passo indietro nella politica dei diritti umani. E in effetti molti procedimenti cominciano a incontrare ostacoli e da più parti si torna a chiedere la concessione dei domiciliari per i condannati in età avanzata. Soprattutto rischia di bloccarsi l'individuazione dei responsabili civili: giudici, giornalisti, sacerdoti, banchieri e imprenditori che coprirono il lavoro sporco delle forze armate e ne sfruttarono i vantaggi. Perché una cosa è certa: non fu solo un golpe militare. La partecipazione di una fetta importante della società civile permise lo sterminio di una generazione, mentre il mondo chiudeva gli occhi su sequestri e omicidi per seguire le partite dei Mondiali di calcio. 8/11/2016 |
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Argentina, verso un nuovo 2001? Migliaia di lavoratori, studenti, militanti di organizzazioni sociali hanno riempito il 4 novembre il centro di Buenos Aires, dando vita a quella che è stata chiamata Marcha de la dignidad contro la fame e i licenziamenti. Cortei analoghi si sono svolti in altre città. La giornata di mobilitazione era stata convocata dalle due centrali sindacali, la Cta (Central de Trabajadores de la Argentina) diretta da Hugo Yasky e la Cta Autónoma guidata da Pablo Micheli. Manifestazioni, presidi, blocchi stradali sono del resto quotidiani in Argentina. È la risposta alla politica economica del presidente Macri, che ricalca le misure neoliberiste degli anni Novanta responsabili della drammatica crisi del 2001. Le cifre parlano chiaro: nei primi dieci mesi di governo Macri i poveri sono aumentati di quasi due milioni di unità (un risultato davvero notevole per chi in campagna elettorale aveva promesso "povertà zero"). Sono anche le conseguenze del cosiddetto tarifazo: l'aumento spropositato delle tariffe di acqua, luce, gas, trasporti che, oltre a pesare sui bilanci familiari, sta provocando la chiusura di decine di piccole e medie aziende. E l'apertura alle importazioni sta gettando sul lastrico gli agricoltori: è ormai scena comune la distribuzione gratuita nelle piazze di frutta e verdura da parte di piccoli produttori schiacciati dalla concorrenza estera. Vi sono poi i dati allarmanti sulla disoccupazione, che con il nuovo governo ha raggiunto livelli da due cifre. Lo stesso presidente aveva inaugurato il suo mandato con un'ondata di licenziamenti nell'amministrazione statale, una vera e propria epurazione di militanti e simpatizzanti dell'opposizione. Al settore pubblico ha fatto seguito il privato, con decine di migliaia di esuberi a causa della recessione in atto. In totale, solo quest'anno, oltre 180.000 persone hanno perso il lavoro. Nel frattempo l'inflazione, che il governo aveva promesso di controllare, continua a erodere pensioni e salari (il tasso annuo giunge quasi al 40%). E Cambiemos, l'alleanza che ha portato Macri alla presidenza, è l'unico raggruppamento che in Congresso si è rifiutato di discutere un progetto di Ley de Emergencia Social volto a mitigare l'impatto della crisi. Intanto in tutto il paese stanno tornando - come nel 2001 - le ollas populares, con cui si cerca di garantire un pasto a tante famiglie bisognose. Il panorama sindacale non è però omogeneo. Se le due Cta hanno raggiunto un'unità nella lotta, la Cgt (Confederación General del Trabajo) è in mano a una dirigenza disposta ad accordarsi con Macri e ad accontentarsi di pochi spiccioli: è bastata la promessa di un assegno di fine anno (duemila pesos, neanche 120 euro), concordato con governo e imprenditori, per rinunciare al previsto sciopero nazionale. Questa posizione sta creando spaccature all'interno della stessa Cgt: diverse categorie erano già scese in piazza il 2 settembre, accanto agli altri lavoratori, nella grande Marcha Federal che aveva riunito decine di migliaia di persone a Plaza de Mayo. Mentre la miseria cresce, transnazionali e speculatori festeggiano. Fin dai suoi primi atti il nuovo presidente ha infatti dimostrato quali sarebbero state le sue linee guida: non più la difesa dell'industria e delle risorse nazionali, ma l'apertura incondizionata ai capitali esteri, anche a costo di accordarsi con i fondi avvoltoi. Accettare le loro imposizioni, che Cristina Fernández aveva respinto con fermezza, costituisce una resa destinata a pesare non solo sull'Argentina, sommersa nuovamente dai debiti (l'emissione di titoli del Tesoro nell'anno in corso supera i 45.000 milioni di dollari), ma su tanti altri paesi del sud del mondo. Secondo il rapporto della commissione di esperti del Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu, guidata dallo svizzero Jean Ziegler, l'accordo rappresenta "un passo indietro nel processo volto a stabilire un meccanismo internazionale per ristrutturare i debiti sovrani". Sul piano interno, incrementare il peso del debito "può a lungo termine indebolire lo Stato nell'adempimento dei suoi obblighi in materia di diritti economici e sociali e al tempo stesso rafforzare la disuguaglianza e l'instabilità finanziaria". 5/11/2016 |
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Argentina, costruire un fronte unitario L'unità delle forze contrarie al neoliberismo resta fondamentale per far fronte all'offensiva restauratrice. E la formazione di un grande frente unitario è la parola d'ordine lanciata da Cristina Fernández, l'unica figura che sembra attualmente in grado di porsi alla guida dell'opposizione. Proprio per questo contro di lei sono in atto manovre giudiziarie che mirano a screditarla e, se possibile, a incriminarla (il copione è lo stesso usato in Brasile contro Lula). Si passa dai tentativi di ripescare il caso Nisman, il magistrato morto suicida dopo aver lanciato contro Cristina pesanti accuse (con prove giudicate inconsistenti da altri magistrati), alla denuncia di presunte irregolarità nell'assegnazione di appalti per opere pubbliche durante il suo mandato. Mentre attaccano con tutti i mezzi la ex presidente, i media passano sotto silenzio gli scandali legati al nome di Macri, dai conti offshore agli appalti miliardari concessi al cugino Angelo Calcaterra. Non è sorprendente: quasi tutti i mezzi di comunicazione di massa, in particolare il Grupo Clarín che controlla, oltre al quotidiano, decine di emittenti radiofoniche, canali televisivi, ecc., sono stabilmente in mano alla destra fin dai tempi della dittatura, da cui hanno tratto cospicui benefici. Proprio le pressioni del Grupo Clarín hanno ottenuto che con uno dei suoi primi decreti Macri modificasse in modo sostanziale la Ley de Medios, che poneva un argine alle concentrazioni editoriali. Incarcerare Cristina Fernández sulla base di accuse pretestuose appare comunque difficile, per la grande popolarità di cui gode la ex presidente. Dal gennaio scorso è invece in prigione senza alcuna prova Milagro Sala, la dirigente dell'organizzazione Túpac Amaru che nella provincia di Jujuy aveva realizzato importanti opere comunitarie. La sua scarcerazione è stata sollecitata da numerose personalità, tra cui il Premio Nobel per la Pace Pérez Esquivel, e da organismi internazionali quali il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria. Finora però il governatore di Jujuy, Gerardo Morales (Cambiemos), ha respinto in modo arrogante la richiesta. La necessità di controllare ogni opposizione deriva dal fatto che questa provincia nordoccidentale, tra le più povere del paese, ha un'importanza strategica per il suo confine con la Bolivia e gli Stati Uniti, attraverso la Dea, già collaborano con le forze di polizia locali. Il riavvicinamento agli Usa è il caposaldo della politica estera macrista, che abbandona l'integrazione regionale perseguita dalle amministrazioni di Néstor Kirchner e Cristina Fernández. E per compiacere Washington attacca il Venezuela e stringe forti relazioni con il Brasile golpista di Michel Temer. Per non parlare della condiscendenza mostrata nei confronti di Londra in merito alla contestata sovranità sulle isole Malvinas. In una dichiarazione congiunta firmata a metà settembre, al termine dell'incontro tra la ministra degli Esteri argentina Susana Malcorra e il ministro inglese Alan Duncan, si manifesta l'intenzione di rimuovere gli ostacoli che limitano lo sviluppo economico dell'arcipelago: in pratica Buenos Aires si dice pronta a consentire la prospezione di idrocarburi nelle acque contese (una decisione che viola le risoluzioni dell'Onu in materia). In ottobre questo atteggiamento conciliante si è scontrato con la decisione britannica di realizzare esercitazioni militari nella sua base delle Malvinas: di fronte alle reazioni indignate di tutta l'opposizione e di parte della sua coalizione, il governo Macri si è visto costretto a inviare a Londra una nota di protesta. Sfruttamento delle ricchezze petrolifere e mantenimento di un controllo militare nella zona sono i motivi che spiegano l'interesse della Gran Bretagna verso quel lontano territorio e l'appoggio degli Stati Uniti alla posizione inglese. 4/11/2016 |
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Colombia, svanita la promessa di pace La fine del conflitto sembrava ormai vicina dopo la firma degli accordi di pace, il 26 settembre a Cartagena, e la storica stretta di mano tra il presidente Juan Manuel Santos e il leader delle Farc, Timoleón Jiménez Timochenko. Tre giorni prima i delegati alla decima Conferencia Nacional Guerrillera avevano ratificato all'unanimità i termini del patto e il gruppo si preparava ad abbandonare la lotta armata per trasformarsi in partito politico. Gli accordi, raggiunti in agosto all'Avana al termine di estenuanti negoziati durati quasi quattro anni, promettevano di porre fine a 52 anni di scontri, costati 220.000 morti, 45.000 scomparsi e quasi sette milioni di sfollati. Ma il referendum del 2 ottobre ha rimesso tutto in discussione: per poche migliaia di voti si è imposto a sorpresa il No. Un risultato favorito da un astensionismo intorno al 63% e da una campagna di menzogne messa in atto dall'estrema destra, che ha puntato tutto sulla paura del comunismo e del chavismo. Dopo la bocciatura degli accordi, Santos si è rivolto ai colombiani con un messaggio televisivo assicurando che il cessate il fuoco resterà in vigore e affermando: "Non mi arrenderò e continuerò a cercare la pace fino all'ultimo giorno del mio mandato, perché questa è la strada per lasciare un paese migliore ai nostri figli". E Timochenko, in una dichiarazione letta nella capitale cubana, ha ribadito la volontà delle Farc di porre fine alla guerra per far ricorso unicamente alla parola come arma di costruzione del futuro. La comunità internazionale ha mostrato il suo sostegno alla politica di Santos assegnandogli il 7 ottobre il Premio Nobel per la Pace (escludendo però le Farc dal riconoscimento). E la pace è stata al centro delle mobilitazioni che si sono susseguite in tutto il paese e che sono culminate, il 12 ottobre, in una grande marcia che ha visto la partecipazione di decine di migliaia di persone. Ma nonostante questi segnali positivi, grosse nubi si addensano all'orizzonte. L'ex presidente Alvaro Uribe, che ha guidato il fronte del No rappresentando gli interessi di latifondisti, narcotrafficanti e affaristi legati all'industria della guerra, ora chiede di ridiscutere punti fondamentali degli accordi. In particolare contesta la restituzione ai contadini delle terre da cui erano stati cacciati con la violenza (quelle terre sono andate spesso a ingrossare le grandi proprietà agricole), vuole negare agli ex militanti delle Farc i diritti politici e pretende l'arresto e la condanna dei leader guerriglieri, responsabili a suo dire di delitti atroci. Nessun cenno, naturalmente, ai massacri compiuti dai paramilitari suoi amici, che continuano ad agire impunemente come testimoniano i recenti omicidi di dirigenti sociali e comunitari. Tra gli ultimi assassinati Cecilia Coicué, militante di Marcha Patriótica nel dipartimento del Cauca, e Néstor Iván Martínez, che si batteva per i diritti umani nel dipartimento del Cesar. È chiaro che le richieste di Uribe mirano a porre le Farc di fronte a una drammatica alternativa: accettare che gli accordi vengano snaturati o riprendere le armi. 13/10/2016 |
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Stella Calloni: "Fermare l'offensiva restauratrice" Giornalista, scrittrice e poetessa, l'argentina Stella Calloni è nota in tutta l'America Latina. Per il suo pluridecennale impegno nell'informazione militante ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio Latinoamericano de Periodismo José Martí. Tra le sue opere ricordiamo Operación Cóndor. Pacto criminal (in italiano Operazione Condor. Un patto criminale, Zambon ed.), Evo en la mira, Recolonización o independencia (con Víctor Ego Ducrot). Nel 2014 è uscita la sua biografia, Stella Calloni íntima. Una cronista de la historia, scritta da Héctor Bernardo e Julio Ferrer e con la prefazione di Fidel Castro. Nella sua casa di Buenos Aires, parliamo con Stella Calloni del cammino verso l'emancipazione con cui il continente ha aperto il terzo millennio. Un cammino che oggi sta subendo una drammatica battuta d'arresto. Il crollo economico del 2001 fu molto duro in Argentina, un paese che aveva sempre voluto assomigliare all'Europa (e questo spiega il disprezzo delle classi alte verso boliviani o paraguayani, quasi fossero di un altro mondo). Però venne il momento in cui l'Argentina entrò finalmente in America Latina: avvenne con il governo di Néstor Kirchner, che proveniva dal peronismo più combattivo, e che poté contare sulla contemporanea presenza di Lula in Brasile e soprattutto di Hugo Chávez in Venezuela. Avevo conosciuto Chávez nel 1994, quando nessuno avrebbe immaginato che sarebbe diventato presidente. Era un leader naturale e possedeva una grande audacia rivoluzionaria. E non aveva complessi: si opponeva alla colonizzazione culturale esistente in tutto il continente. In quel periodo si cominciò a realizzare l'unità della regione, culminata nel 2011 con la creazione della Celac, la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños. Non si era mai vista prima, in America Latina, tanta unità nella diversità. Kirchner in Argentina, Chávez in Venezuela, Lula in Brasile. Come si era giunti a questa eccezionale coincidenza di governi progressisti? Questo fenomeno non è ancora stato studiato a fondo. La prima grande rivolta contro il dominio del neoliberismo avviene in Venezuela nel 1989 con il Caracazo: una resistenza spontanea, di fronte alla quale alcuni giovani militari prendono coscienza e si rifiutano di sparare contro il popolo; da qui il levantamiento del 1992. In Argentina, con l'imposizione delle misure neoliberiste, si ha un vero e proprio assalto al paese finché nel 2001 la classe media, ormai in ginocchio, si unisce alla rivolta popolare. In Bolivia Evo Morales sorge dalle lotte nelle strade; in Ecuador la popolazione abbatte tre presidenti che avevano mentito nel corso delle loro campagne elettorali. Ma gli Stati Uniti non tardano a reagire... Il primo colpo gli Usa lo ricevono nel 2005 proprio qui in Argentina, a Mar del Plata con la bocciatura dell'Alca, l'accordo di libero scambio che volevano imporre al continente. Da questo momento Washington sa che la situazione gli sta sfuggendo di mano. E comincia a inondare la regione di fondazioni e organizzazioni non governative. Le fondazioni, che affermano di lavorare per la democrazia, per la libertà, hanno in realtà il compito di infiltrarsi in diversi settori della popolazione (studenti, operai, imprenditori, magistrati) e di finanziare l'opposizione. Le ong si insediano nelle zone indigene o nelle zone povere sostenendo di voler aiutare lo sviluppo, ma in realtà distruggendo la rete sociale naturale, come era già avvenuto in Centro America. Il nostro problema poi è che manca la dirigenza politica: le dittature militari degli anni Settanta si erano incaricate di eliminare tutta una brillante generazione di sinistra. Inoltre il tema dell'integrazione regionale, così importante, non è stato debitamente spiegato alla popolazione, un po' come è avvenuto oggi con l'accordo di pace in Colombia, bocciato nel referendum. E adesso l'offensiva restauratrice è in pieno svolgimento. Gli Stati Uniti stanno applicando uno schema di controinsurrezione che in altri tempi era militare e che oggi utilizza essenzialmente la guerra psicologica. Grazie al controllo sui mezzi di comunicazione di massa sono riusciti a diffondere un'enorme disinformazione. Stiamo vivendo un momento molto pericoloso, perché Washington intende recuperare il suo "cortile di casa". Attraverso la pesante ingerenza nel voto come in Argentina (con finanziamenti di milioni di dollari alla destra) o attraverso golpes suaves come in Honduras nel 2009, in Paraguay nel 2012 e in Brasile quest'anno. Ma non sarà facile, costerà molte vite: basta guardare il Venezuela che in questa battaglia conta già numerosi morti. E noi dobbiamo lottare per riuscire a impedire questa restaurazione e per sostenere Ecuador, Bolivia e soprattutto Venezuela. Perché se quest'ultimo cade sarà una tragedia per tutta la regione. 10/10/2016 |
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Venezuela, un paese sotto attacco È passato quasi sotto silenzio, nei media occidentali, il XVII Vertice dei Paesi Non Allineati che si è tenuto dal 13 al 18 settembre sulla venezuelana Isla de Margarita. Nel corso dell'incontro, Caracas ha assunto la presidenza del movimento per i prossimi tre anni, succedendo a Teheran. Nel documento finale si parla di riforma dell'Onu, del problema dei rifugiati, di lotta ai paradisi fiscali e ai crimini perpetrati dalle transnazionali ai danni dell'ambiente e delle popolazioni native. E si dichiara pieno sostegno al governo di Caracas, sottoposto ad attacchi sul fronte interno e su quello internazionale. Sul fronte interno le opposizioni avevano convocato il primo settembre nella capitale una mobilitazione pubblicizzata come la Toma de Caracas, che avrebbe dovuto segnare la fine della presidenza Maduro. Lo stesso giorno era stata promossa una contromanifestazione in difesa della Rivoluzione Bolivariana. Nonostante il clima di tensione i due cortei si sono svolti senza seri incidenti, anche grazie al massiccio spiegamento di forze di sicurezza. Pur imponente, la concentrazione antigovernativa non ha raccolto la partecipazione sperata e Maduro, parlando ai suoi sostenitori, ha potuto annunciare la sconfitta di "un tentativo di colpo di Stato che pretendeva di riempire di violenza e di morte" il paese. Sul fronte internazionale è ormai crisi aperta per la presidenza del Mercosur. Secondo quanto stabilisce il regolamento, la presidenza viene esercitata a rotazione per un semestre da ciascuno dei membri secondo un criterio alfabetico: avendo l'Uruguay terminato a fine luglio il suo mandato, avrebbe dovuto essere la volta del Venezuela. Ma Argentina, Brasile e Paraguay, ormai uniti in un fronte neoliberista, si sono opposti sostenendo che il governo di Caracas non ha adempiuto a tutti i requisiti richiesti per la piena integrazione nel blocco. Cavilli burocratici che nascondono i veri interessi in gioco: i nuovi accordi commerciali in discussione tra Mercosur e Unione Europea da una parte, Alianza del Pacífico dall'altra. Con un colpo di mano, il 14 settembre Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay hanno assunto per il semestre in corso la presidenza in forma congiunta. La decisione, presa con l'astensione di Montevideo, non è stata riconosciuta dal governo Maduro: la legalità del Mercosur è stata violata, ha accusato la ministra degli Esteri Delcy Rodríguez. 19/9/2016 |
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Brasile, cancellata la democrazia Il golpe istituzionale si è consumato alle 13.30 del 31 agosto. Un Senato pieno di corrotti e di indagati - tenuti sotto ricatto dall'ex presidente della Camera Eduardo Cunha - ha sancito, con 61 voti contro 20, la destituzione di una presidente a carico della quale non è stata provata alcuna accusa. "È un colpo di Stato contro i movimenti sindacali e sociali che lottano per i diritti. È un colpo di Stato contro il popolo e contro la nazione, è un colpo di Stato misogino, omofobico e razzista", ha commentato Rousseff promettendo di non abbandonare la lotta: "Torneremo per continuare la nostra marcia verso un Brasile dove il popolo sia sovrano". Dilma Rousseff aveva confermato l'intenzione di non arrendersi anche durante il suo discorso prima della votazione, un intervento appassionato e forte. "Non ci si aspetti da me l'ossequioso silenzio dei codardi - aveva detto - In passato con le armi e oggi con la retorica giuridica pretendono di nuovo di attentare alla democrazia e allo Stato di diritto. Se qualcuno straccia il suo passato e lo baratta con i vantaggi del presente, che risponda alla propria coscienza e alla storia per i suoi atti. A me spetta rammaricarmi per quello che sono stati e per quello che sono diventati. E resistere. Resistere sempre. Resistere per svegliare le coscienze ancora addormentate". Il voto del Senato è stato accolto da manifestazioni di protesta in numerose città: da Brasilia a Porto Alegre, da Rio de Janeiro a São Paulo. In quest'ultima città la polizia militarizzata è intervenuta con violenza per disperdere i dimostranti che, per il terzo giorno consecutivo, bloccavano strade e piazze al grido di Fora Temer. La destituzione della legittima presidente ha incontrato anche l'unanime condanna dei paesi progressisti della regione. Contro "il flagrante sovvertimento dell'ordine democratico in Brasile", Quito ha richiamato per consultazioni il suo incaricato d'affari. Caracas ha deciso di "congelare le relazioni politiche e diplomatiche con il governo sorto da questo golpe parlamentare". Il rappresentante boliviano davanti all'Oea ha dichiarato: "Sebbene questo Consiglio non se ne sia reso conto, nella nazione più grande del Sud America è avvenuto un colpo di Stato". Ben diversa la posizione statunitense: "Riteniamo che le istituzioni democratiche del Brasile abbiano attuato all'interno del quadro costituzionale - ha affermato il portavoce del Dipartimento di Stato - Siamo sicuri che continueremo con la forte relazione bilaterale esistente". Non c'è dubbio che la politica estera di Michel Temer, con l'abbandono dell'integrazione regionale e l'avvicinamento all'Alianza del Pacífico, sarà assai più gradita a Washington di quanto non fosse quella di Rousseff. Per non parlare dell'apertura al capitale estero, soprattutto per quanto riguarda i ricchi giacimenti petroliferi a grande profondità su cui le transnazionali hanno messo gli occhi da tempo. Subito dopo l'investitura, Temer ha ribadito quali saranno i suoi primi provvedimenti: riforma previdenziale (con innalzamento dell'età pensionistica) e del lavoro (per renderlo più flessibile). E soprattutto imposizione di un tetto alla spesa pubblica, che si tradurrà in drastici tagli a istruzione e sanità, nonché ai programmi sociali con cui i governi del Pt erano riusciti a strappare alla miseria milioni di brasiliani. 1/9/2016 |
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Bolivia, viceministro ucciso dai manifestanti Una cospirazione politica è alla base della mobilitazione di Fencomin, la Federación Nacional de Cooperativas Mineras. È la denuncia di Evo Morales dopo l'uccisione del viceministro dell'Interno Rodolfo Illanes, sequestrato e picchiato a morte a Panduro, nel dipartimento di La Paz, dove si era recato per intavolare una trattativa con i minatori delle cooperative. Queste ultime, nate come risposta di sinistra alla crisi del settore, si sono trasformate presto in imprese che sfruttano con logiche capitaliste i giacimenti ricevuti in concessione dallo Stato. E oggi sono in lotta contro il governo perché respingono la sindacalizzazione dei loro lavoratori (molti dei quali minori), non vogliono sottostare ai controlli di impatto ambientale e chiedono di potersi associare a capitali privati, anche stranieri, offrendo così alle transnazionali la possibilità di riappropriarsi delle ricchezze del paese. La protesta di Fencomin era iniziata nella seconda settimana di agosto con la proclamazione di un paro su tutto il territorio nazionale, accompagnato da blocchi stradali e interruzioni delle principali vie di comunicazione (con frane provocate dalla dinamite). Il governo aveva tentato a più riprese di avviare un dialogo, ma ogni volta che le parti sembravano avvicinarsi, qualche fatto nuovo faceva risalire la tensione. Il 22 agosto si diffondeva la falsa notizia che contro i dirigenti delle cooperative erano stati spiccati ordini di cattura. Due giorni dopo, due minatori venivano uccisi da colpi d'arma da fuoco: a sparare erano stati provocatori presenti nelle file dei dimostranti o membri della polizia che avevano contravvenuto all'ordine del presidente Morales di non portare armi letali? E quando il negoziato stava per ripartire, la morte di un terzo minatore in un oscuro episodio esasperava gli animi e serviva da pretesto per il linciaggio del viceministro. Come si vede, non mancano gli elementi per pensare a un preciso piano destabilizzante. "Come popolo boliviano e come movimenti sociali abbiamo lottato per recuperare le risorse naturali. Che cosa vogliono alcuni cooperativisti? Non sono repubblichette per firmare contratti - ha dichiarato Morales nel corso di una conferenza stampa - Di fronte a qualsiasi provocazione degli oppositori, che usano certi settori sociali, voglio ribadire che il popolo boliviano non cederà". E Orlando Gutiérrez, segretario esecutivo della Fstm (la Federación Sindical de Trabajadores Mineros), in un'intervista a Resumen Latinoamericano ha assicurato che i minatori salariati del paese non permetteranno che si aprano nuovamente le porte al neoliberismo. Per l'assassinio di Illanes sono state arrestate nove persone, tra cui il presidente di Fencomin, Carlos Mamani. Altri dirigenti dell'organizzazione sono ricercati. Si è intanto appreso che in ospedale è morto un quarto manifestante: era rimasto ferito giorni prima maneggiando un candelotto. 29/8/2016 |
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Paraguay, Curuguaty: condannate le vittime Quattro imputati hanno ricevuto pene che vanno dai 18 ai 35 anni di carcere per l'uccisione di sei poliziotti. Tre donne, "colpevoli" di essersi trovate in prima fila durante gli scontri, sono state considerate complici di omicidio e condannate a sei anni ciascuna. Altri quattro uomini dovranno scontare quattro anni per associazione criminale e invasione di terreno privato. Nel giudicare gli undici campesinos il tribunale di Asunción non ha tenuto in alcun conto la mancanza di prove certe sulla responsabilità degli accusati. Si è concluso così l'11 luglio il processo per il massacro avvenuto il 15 giugno 2012 a Curuguaty. Quel giorno la polizia era intervenuta per cacciare i contadini poveri che avevano occupato un terreno di proprietà del latifondista Blas Riquelme (proprietà contestata: l'ex senatore del Partido Colorado si era impadronito, con cavilli legali, di vastissimi possedimenti durante la dittatura Stroessner). Nel corso dello sgombero violenti scontri, creati ad arte da alcuni franchi tiratori confusi tra gli occupanti, portarono alla morte di undici campesinos e sei agenti. Gli incidenti non servirono solo a giustificare la repressione del movimento dei sin tierra. Fornirono anche un pretesto alla messa in stato d'accusa e alla successiva destituzione del presidente Fernando Lugo, reo di aver tentato di avviare una timida riforma agraria. Da notare che - mentre si portava avanti il procedimento per la morte degli agenti - nessuna indagine veniva fatta sull'uccisione degli undici contadini. Come ha detto la responsabile per le Americhe di Amnesty International, Erika Guevara Rosas, la magistratura paraguayana "non ha spiegato in modo convincente i motivi per cui tali morti non sono state investigate, né la presunta alterazione della scena del crimine e le denunce di tortura e di altri maltrattamenti durante la detenzione dei contadini da parte della polizia". La lettura della sentenza è stata accolta da manifestazioni di protesta all'esterno e all'interno del Palazzo di Giustizia. Questa condanna "illegale e arbitraria", affermano in un messaggio all'opinione pubblica gli avvocati difensori e i familiari degli imputati, "criminalizza la lotta contadina e lascia impuniti i veri responsabili". Del resto era chiaro fin dall'inizio che il processo doveva servire a riportare ordine nelle campagne, dopo la parentesi della presidenza Lugo, e a ribadire il potere dei proprietari terrieri. Il procuratore Jalil Rachid, che aveva seguito inizialmente il caso, è figlio di un ex senatore colorado, amico personale di Riquelme. In seguito Rachid ha lasciato l'incarico perché nominato viceministro della Sicurezza, ma la sua nuova posizione gli ha permesso di continuare a influenzare il corso del dibattimento. Lo segnalava un comunicato del Frente Guazú all'annuncio dell'ingresso dell'ex procuratore nel governo Cartes: "I poliziotti che dovranno rendere la loro deposizione nella causa, come testimoni citati dal pubblico ministero, saranno diretti subordinati del signor Jalil Rachid". 13/7/2016 |
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Messico, la lotta dei maestri contro la riforma La repressione con cui le autorità cercano di fermare la battaglia di maestri e professori contro la reforma educativa ha portato all'ennesima strage: il 19 giugno a Nochixtlán, nello Stato di Oaxaca, la polizia federale ha aperto il fuoco sui manifestanti, provocando otto morti e decine di feriti. Immediate le reazioni di protesta: a Città del Messico migliaia di sindacalisti, studenti universitari, membri di organizzazioni contadine e difensori dei diritti umani sono scesi in piazza per esprimere il loro appoggio alla Cnte, la Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación. La legge alla quale gli insegnanti si oppongono cancella i diritti sindacali e precarizza il lavoro, preparando il terreno alla privatizzazione del settore. Pochi giorni prima del massacro erano stati arrestati, con accuse pretestuose, i dirigenti della locale Cnte Rubén Núñez e Francisco Villalobos; altri docenti erano finiti in carcere nei mesi precedenti. Ma la lotta non si limita a Oaxaca: coinvolge il Michoacán, il Guerrero, il Chiapas, Veracruz, zone ad alta densità indigena dove i valori comunitari sono ancora vivi e più forte la resistenza alle regole del mercato. Non va dimenticato che i 43 studenti desaparecidos nel 2014 a Iguala provenivano dalla scuola per maestri rurali di Ayotzinapa. Si preparavano ad alfabetizzare le aree più povere del paese, le comunità indigene che ancor oggi sono oggetto di discriminazione e razzismo. E proprio in queste aree si svilupperanno, nelle intenzioni del governo, le nuove Zonas Económicas Especiales, che hanno come assi principali il porto di Lázaro Cárdenas (Michoacán, al confine con il Guerrero), Puerto Chiapas nel municipio di Tapachula (Chiapas), il corridoio industriale interoceanico sull'Istmo di Tehuantepec, tra Salina Cruz (Oaxaca) e Coatzacoalcos (Veracruz), e il corridoio petrolifero da Coatzacoalcos a Ciudad del Carmen (Campeche) passando per il Tabasco. Scrive Carlos Fazio su La Jornada, "In questi Stati del sud-sudest messicano, dove predomina la proprietà collettiva della terra e che sono stati destinati a subire profonde riconfigurazioni territoriali, economiche e demografiche attraverso il saccheggio neocoloniale, il ruolo delle maestre e dei maestri - come formatori di un'identità nazionale e promotori di una pedagogia comunitaria, autonoma, autogestita, solidaria ed emancipatrice - si è trasformato in un ostacolo". Gli enormi interessi in gioco spiegano la sanguinosa risposta dello Stato a ogni opposizione. 24/6/2016 |
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Perù, Keiko Fujimori di nuovo sconfitta Al ballottaggio del 5 giugno Pedro Pablo Kuczynski ha sconfitto di stretta misura (50,12%) la sua avversaria Keiko Fujimori ed è stato eletto nuovo presidente del Perù. La differenza tra i due candidati era tanto piccola che la proclamazione del vincitore è stata possibile solo quattro giorni dopo il voto, a spoglio ultimato al cento per cento. Il risultato delle urne non testimonia tanto un consenso verso le proposte elettorali di Kuczynski o quelle del suo partito (Peruanos por el Kambio), quanto il rifiuto di metà del paese all'ipotesi di un ritorno del fujimorismo. Alla vigilia del secondo turno, decine di migliaia di persone avevano riempito il centro di Lima per esprimere il loro no al narcoestado, l'eventuale governo della figlia del dittatore e dei personaggi che la attorniano, molti dei quali indagati per traffico di droga e riciclaggio. La stessa Keiko, al suo secondo tentativo di giungere alla presidenza (nel 2011 aveva perso il ballottaggio con Humala) aveva tranquillamente convissuto con la corruzione e le violazioni ai diritti umani del regime paterno, nel quale aveva svolto le funzioni di primera dama. Il nuovo capo dello Stato, già titolare del dicastero dell'Energia nel governo Belaúnde e primo ministro e ministro dell'Economia con Toledo, è un convinto neoliberista. Su questo aspetto il suo programma non si discosta di molto da quello di Fuerza Popular, la formazione fujimorista: privatizzazioni, apertura agli investimenti esteri, conferma dell'adesione all'Alianza del Pacífico. L'economia peruviana ha registrato negli ultimi anni una crescita superiore alla media regionale, ma questa maggiore ricchezza non ha portato benefici agli strati più disagiati: la povertà nelle zone rurali tocca quasi la metà della popolazione. Il 75% dei lavoratori è impiegato in attività precarie, sottopagate e senza diritti. E il crollo del prezzo internazionale dei minerali, principale fonte di esportazione, ha già mostrato nel 2015 i primi contraccolpi negativi. Nel suo discorso dopo la vittoria Kuczinski ha teso la mano alla rivale, offrendo dialogo e conciliazione. Un passo obbligato: in seguito al voto del 10 aprile, in cui oltre al primo turno delle presidenziali si sono tenute anche le consultazioni legislative, il fujimorismo detiene il controllo del Congresso con 73 parlamentari su 130, mentre Peruanos por el Kambio ne ha solo 18. Il resto dei seggi è ripartito tra Frente Amplio (20), Alianza para el Progreso (9), Apra (5) e Acción Popular (5). La vera rivelazione di queste legislative è il Frente Amplio, che si è imposto come la seconda forza in Parlamento: un risultato che la sinistra non conosceva da oltre trent'anni e che è stato possibile grazie a una ritrovata unità. La candidata del Frente alla massima carica dello Stato, Verónika Mendoza, nel corso della campagna elettorale è riuscita a tener testa ai violenti attacchi mediatici sferrati dalla destra e, pur mancando per un soffio il ballottaggio, ha acquistato notorietà nazionale. Non ha ottenuto seggi invece l'altro raggruppamento di sinistra, Democracia Directa, che presentava come candidato presidenziale Gregorio Santos, il leader della protesta contro il megaprogetto minerario Conga. Santos, tuttora in carcere sotto la pretestuosa accusa di corruzione, è stato comunque il più votato nella regione di Cajamarca. 9/6/2016 |
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Correa denuncia il nuovo Plan Cóndor "È il nuovo Plan Cóndor per il quale non servono più dittature militari: servono giudici sottomessi, serve una stampa corrotta". Con queste parole il presidente ecuadoriano Rafael Correa ha denunciato gli ultimi avvenimenti in America Latina. E in effetti l'offensiva della destra contro i governi progressisti della regione sembra obbedire a un piano preordinato. Dopo aver attaccato gli anelli deboli della catena, Honduras e Paraguay, la "normalizzazione" interessa ora l'Argentina di Macri e il Brasile dell'usurpatore Temer, mentre in Venezuela si cerca di seminare il caos puntando alla destabilizzazione. L'obiettivo è quello di riportare indietro il continente, cancellando tutti i passi avanti compiuti in questi anni nella redistribuzione delle ricchezze e nella riduzione delle disuguaglianze. Un obiettivo che sta incontrando forti resistenze popolari in tutti i paesi interessati. In Argentina il miliardario Mauricio Macri, il cui nome figura nei Panama Papers collegato a imprese offshore, si è dedicato fin dal primo giorno a smontare le conquiste del periodo kirchnerista. Ha concluso un accordo con i fondi avvoltoi accettando tutte le loro richieste, a costo di un massiccio indebitamento del paese, e ha aperto le porte ai capitali esteri puntando alla privatizzazione delle risorse nazionali. Ha licenziato decine di migliaia di persone nell'amministrazione pubblica e favorito la stessa pratica nel privato, ponendo il veto a una legge del Congresso che mirava a porre un freno alle espulsioni dal lavoro. Il contemporaneo aumento delle tariffe di luce, gas, trasporti ha avuto immediate ripercussioni sulle condizioni di vita degli strati più disagiati: secondo un rapporto dell'Universidad Católica Argentina, nei primi tre mesi del nuovo governo la povertà è cresciuta di 5,5 punti e l'indigenza di 1,6. Desta preoccupazione infine la decisione di Macri di derogare la disposizione che, alla fine della più sanguinosa dittatura della storia argentina, aveva posto le forze armate sotto il controllo delle autorità civili. E la nuova élite al potere non teme di far ricorso alla repressione contro tutti gli oppositori. Emblematico il caso di Milagro Sala, la dirigente dell'organizzazione comunitaria Túpac Amaru incarcerata con false accuse e vittima di una persecuzione giudiziaria, attuata con la regia occulta del governatore della provincia di Jujuy, Gerardo Morales. Anche in Brasile l'offensiva conservatrice privilegia l'arma giudiziaria. Contro la possibilità di una candidatura di Lula alle prossime presidenziali (tutti i sondaggi indicano che l'ex presidente verrebbe rieletto una terza volta), si è mobilitata la magistratura compiacente. L'obiettivo: coinvolgere Lula in un caso di corruzione per giustificare un suo rinvio a giudizio. Significativo quanto avvenuto il 4 marzo quando l'ex presidente è stato prelevato dalla Polizia Federale, su ordine del giudice Sérgio Moro, per rendere una deposizione: l'operazione, simile all'arresto di un pericoloso delinquente, è stata filmata dalle telecamere della catena Globo, preavvertite dallo stesso Moro. L'attacco a Lula e il golpe istituzionale che ha portato alla sospensione del mandato di Dilma Rousseff mirano a cancellare le politiche sociali dei governi del Pt. Il presidente interino Michel Temer, che dovrebbe occuparsi unicamente della normale amministrazione, ha già iniziato l'opera di demolizione: ha bloccato parte del programma Minha casa, minha vida per l'assegnazione di alloggi popolari (il provvedimento è poi rientrato per le proteste del Movimento Sem Teto) e progetta di ridurre drasticamente i beneficiari di Bolsa Família, che assicura pasti regolari ai meno abbienti. Sul piano dei rapporti internazionali, il nuovo ministro José Serra ha preannunciato un giro di 180 gradi, voltando le spalle ai blocchi regionali per avvicinarsi all'Alianza del Pacífico. Questa prospettiva politica, che avrebbe come immediata conseguenza un indebolimento del Mercosur e del blocco dei Brics, incontra naturalmente il favore degli Stati Uniti e dell'Unione Europea ed è vista con entusiasmo dall'Argentina di Macri, che si sta incamminando sulla stessa strada. Mentre a Brasilia è in atto un pericoloso attentato alle istituzioni democratiche, il segretario generale dell'Oea, l'uruguayano Luis Almagro, invoca l'applicazione della Carta Democratica nei confronti del Venezuela. Si tratta del primo caso in cui tale procedimento (pensato per contrastare tentativi di golpe) viene richiesto contro la volontà di un governo legittimo. In linea con le posizioni dell'opposizione, Almagro ipotizza "l'alterazione dell'ordine costituzionale" da parte dell'esecutivo di Caracas. La proposta non è stata accolta dal Consiglio Permanente dell'Organizzazione, che nella riunione del primo giugno si è invece pronunciato a favore del dialogo tra le parti. L'iniziativa di Almagro rimane comunque un segnale della gravità del conflitto in corso tra il governo bolivariano e l'Asamblea Nacional (dove la maggioranza è detenuta dalla Mud, la Mesa de la Unidad Democrática). Nella loro battaglia destituente gli antibolivariani sono sostenuti dalle manovre statunitensi. Non a caso, il ricorso alla Carta Democratica era stato concordato tra Almagro e l'attuale capo del Southern Command, l'ammiraglio Kurt Tidd. È lo stesso Tidd a rivelarlo in un documento del 25 febbraio, reso noto recentemente e di cui Washington non ha negato l'autenticità. Dal rapporto dell'ammiraglio emerge con chiarezza l'obiettivo della politica statunitense: la creazione delle premesse per un intervento esterno, con il pretesto di una crisi umanitaria in atto. A tal fine è stata stabilita con la Mud un'agenda comune, che prevede uno scenario in cui possono combinarsi "azioni di piazza e l'impiego graduale della violenza armata". L'Asamblea Nacional dovrà agire da tenaglia "per impedire la governabilità: convocando eventi e mobilitazioni, presentando interpellanze, negando crediti, derogando leggi" (cosa che sta puntualmente avvenendo). Si deve promuovere una campagna di discredito verso la figura di Maduro, dipingendolo come un antidemocratico dipendente dai cubani; si deve responsabilizzare lo Stato per la recessione, l'alto tasso di inflazione e la penuria di alimenti, di acqua e di energia elettrica; si deve accusare il governo di corruzione e riciclaggio. Va realizzata una perenne offensiva propagandistica, "fomentando un clima di sfiducia, suscitando paure, rendendo la situazione ingestibile". Tidd si pone poi la questione delle forze armate ancora fedeli a Maduro e soprattutto delle milizie popolari, che ostacolano le manifestazioni dell'opposizione e impediscono il pieno controllo delle installazioni strategiche, ragion per cui vanno "neutralizzate". Infine l'ammiraglio sottolinea che, grazie all'addestramento degli ultimi mesi, i contingenti della Joint Task Force-Bravo di stanza a Palmerola (Honduras) e della Joint Interagency Task Force South sono in grado di intervenire rapidamente, contando sull'appoggio di una serie di basi militari nelle Antille e in Colombia. Il piano per il rovesciamento del presidente Maduro è pronto. 2/6/2016 |
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Brasile, il golpe verso l'ultimo atto I voti di oltre 54 milioni di elettori sono diventati carta straccia. Un Congresso composto in gran parte da corrotti e inquisiti, "controllato - scrive il sociologo Emir Sader - dalle lobby delle armi, delle religioni fondamentaliste, dell'agroindustria, della sanità privata, dei mezzi di comunicazione privati, dell'insegnamento privato" ha sospeso il mandato di una presidente su cui non pesa alcuna accusa. Il pretesto: un'irregolarità contabile, peraltro prassi comune di tutte le amministrazioni precedenti. Sulla falsariga di quanto già avvenuto nel 2009 in Honduras e nel 2012 in Paraguay, anche in Brasile si sta consumando un vero e proprio colpo di Stato. A gestirlo i rappresentanti dei poteri forti appoggiati dai grandi media (in prima fila la catena Globo), la cui egemonia non è stata scalfita in questi anni di governo del Pt. E con il favore degli Stati Uniti, che mirano al controllo delle risorse petrolifere e che si sono affrettati ad avallare il golpe parlamentare. Guarda caso l'attuale ambasciatrice a Brasilia è Liliana Ayalde, che ricopriva la stessa carica ad Asunción alla vigilia della destituzione di Fernando Lugo. Due date segnano le fasi di questo colpo di Stato: il 17 aprile la Camera dei Deputati, con 367 sì e 137 no, ha approvato l'apertura del procedimento di impeachment. A presiedere la seduta Eduardo Cunha, il politico che più denunce per corruzione ha collezionato e che neanche tre settimane dopo è stato rimosso dall'incarico per decisione del Supremo Tribunal Federal. E il 12 maggio il Senato (il cui presidente Renan Calheiros è un altro inquisito) ha sancito, con 55 voti a favore e 22 contrari, l'allontanamento di Dilma Rousseff dalla presidenza per tutta la durata del processo farsa. Pochi scommettono su un verdetto finale che ristabilisca la legittimità costituzionale. Il potere è stato assunto dal vicepresidente Michel Temer, che passando all'opposizione ha tradito la volontà popolare espressa nelle urne. Il suo governo, apertamente di destra, è composto solo da maschi bianchi, un terzo dei quali sotto indagine giudiziaria. Al Ministero della Giustizia è stato nominato l'avvocato personale di Cunha, Alexandre de Moraes, che considera le manifestazioni studentesche una forma di guerriglia. All'Agricoltura il miliardario Blairo Maggi, tra i maggiori coltivatori di soia del mondo, strenuo oppositore di ogni riforma agraria. Alle Finanze il neoliberista Henrique Meirelles, che dovrà riformare pensioni e legislazione del lavoro. Agli Esteri José Serra, da sempre contrario alla politica di integrazione regionale portata avanti da Lula e Dilma. Intanto quest'ultima si prepara alla resistenza: "Lotterò con tutti i mezzi legali per esercitare il mio mandato fino alla fine, fino al 31 dicembre 2018", ha dichiarato all'atto di lasciare il palazzo presidenziale. Con lei si sono prontamente schierati i movimenti sociali, a partire dal Mst che pure negli ultimi mesi aveva duramente criticato le scelte economiche dell'esecutivo. 13/5/2016 |
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Cuba, "Fratello Obama, noi non dimentichiamo" "Non abbiamo bisogno che l'impero ci regali nulla". Così Fidel Castro conclude le sue riflessioni sulla visita di Obama a Cuba, marcando una certa distanza dalla posizione del fratello Raúl. Il presidente statunitense, sottolinea Fidel nell'articolo pubblicato il 28 marzo su Granma (El hermano Obama), ha utilizzato le parole più mielose per invitare a dimenticare il passato e a guardare a un futuro di speranza, in cui lavorare insieme "come amici, come famiglia, come vicini". Tutto questo "dopo un blocco spietato durato ormai quasi sessant'anni. E quelli che sono morti negli attacchi mercenari a navi e porti cubani, l'aereo di linea affollato di passeggeri fatto esplodere in pieno volo, le invasioni mercenarie, i molteplici atti di violenza e di forza? Nessuno si illuda che il popolo di questo paese nobile e pronto al sacrificio rinunci alla gloria e ai diritti e alla ricchezza spirituale che si è guadagnato con lo sviluppo dell'educazione, della scienza e della cultura". Il viaggio di Obama, che i media occidentali hanno enfatizzato ripetendo fino alla sazietà l'aggettivo "storico", viene dunque rimesso nella sua giusta prospettiva. Se pure con una diversa strategia, l'obiettivo di Washington rimane quello di sempre: normalizzare il "cortile di casa". Tanto è vero che pochi giorni prima, mentre tendeva la mano all'Avana, l'amministrazione Obama rinnovava il decreto nel quale si accusava il governo di Caracas di costituire una "minaccia eccezionale e straordinaria" alla sicurezza degli Stati Uniti. "L'America Latina - ricorda l'analista del Celag Alejandro Fierro - è il principale obiettivo geostrategico degli Stati Uniti e l'era Obama non ha fatto eccezione. I dati sono eloquenti: 76 basi militari dispiegate nel subcontinente, una presenza bellica senza paragone nel resto del mondo; la riattivazione della IV Flotta nel periodo 2008-2009; il rafforzamento del quartier generale del Southern Command in Florida, con più di duemila persone che rispondono direttamente al Pentagono e non alla Casa Bianca (la logica militare al disopra della politica); un'attività incessante di ingerenza diretta e indiretta volta a minare i processi di emancipazione". E come riferisce il giornalista statunitense Tracey Eaton nel suo blog Along the Malecón, il Dipartimento di Stato ha annunciato un programma rivolto a "giovani leader emergenti" della società cubana per l'orientamento verso "attività comunitarie non governative" (in pratica attività sovversive). Pur salutando la ripresa dei rapporti diplomatici tra l'Avana e Washington come una vittoria della Rivoluzione, la stampa cubana non si nasconde i veri propositi che animano la Casa Bianca e non risparmia le critiche agli interventi di Obama. "Ci aspettavamo un discorso più serio", titola Omar González su Granma: "Invece quella che ho ascoltato è stata una predica abbastanza rozza dove si banalizzavano la politica e il capitalismo". "Continua il gioco del bastone e della carota - scrive su Juventud Rebelde Elier Ramírez Cañedo - Con questa nuova impostazione politica si vogliono ricomporre gli interessi specifici che gli Stati Uniti perseguono a Cuba con quelli nei confronti dell'America Latina e del mondo. Recuperare la leadership nella regione, per affrontare la sfida all'egemonia a livello mondiale che Cina e Russia rappresentano, risulta oggi vitale per gli interessi di 'sicurezza nazionalÈ degli Stati Uniti". Sempre su Juventud Rebelde, Agustín Lage Dávila afferma che il presidente statunitense "è stato molto chiaro, nel discorso e nei messaggi simbolici, nel prendere le distanze dall'economia statale socialista cubana, come se proprietà 'statalÈ significasse proprietà di un ente estraneo e non proprietà di tutto il popolo". Dopo aver ricordato che "l'espansione dei cuentapropistas e delle cooperative fa parte dell'attuazione dei Lineamientos usciti dal sesto Congresso del Partito", Lage analizza le diverse visioni di questo settore non statale. "Loro vedono l'imprenditoria privata come qualcosa che 'dà poterÈ al popolo; noi lo vediamo come qualcosa che dà potere a 'una partÈ del popolo, e una parte relativamente piccola". E più avanti: "Loro vedono il settore non statale come una fonte di sviluppo sociale; noi lo vediamo in un doppio ruolo, poiché è anche fonte di disuguaglianze sociali (di cui abbiamo già dimostrazioni, come illustrano i recenti dibattiti sui prezzi degli alimenti)". L'aumento della disparità di condizioni appare una delle principali preoccupazioni dei commentatori di fronte alla svolta economica. Su Cubadebate Rafael Hernández segnala, come maggiore conquista del socialismo cubano, "la rivendicazione del senso della dignità delle persone e la pratica della giustizia sociale". Questo spiega, aggiunge Hernández, perché "noi cubani siamo oggi allarmati di fronte alla crescita della disuguaglianza e della povertà e non la accettiamo come un fatto naturale, ma come l'erosione di una condizione civica fondamentale. O forse il costo della retrocessione dei perdenti si equilibra con la prosperità dei vincitori e la maggiore polarizzazione sociale costituisce il prezzo obbligato di una maggiore libertà?" Non è mancata, nel corso del viaggio della delegazione statunitense, una nota umoristica che rivela quanto a Washington si ignori la realtà cubana. All'Avana Michelle Obama ha lanciato Let Girls Learn, il programma educativo con prospettiva di genere volto a contrastare l'abbandono scolastico da parte delle ragazze dei paesi considerati "sottosviluppati". In un comunicato la Federación de Mujeres Cubanas ha spiegato all'illustre ospite una verità universalmente nota: "Il 100% delle nostre ragazze frequenta la scuola indipendentemente dal luogo in cui vive, dal colore della pelle, da eventuali handicap o da ricoveri ospedalieri". E ha ricordato che "una cubana, Leonela Relys Díaz, ha creato il metodo Yo sí puedo, con cui sono state alfabetizzate milioni di persone nel mondo". 29/3/2016 |
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Honduras, le responsabilità di Hillary Clinton "Hillary Clinton, nel suo libro Hard Choices, ha praticamente predetto ciò che sarebbe accaduto in Honduras. Questo dimostra la criminale eredità dell'influenza nordamericana sul nostro paese. Il ritorno di Mel Zelaya alla presidenza venne considerato una questione secondaria". Così Berta Cáceres, coordinatrice del Copinh (Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras), chiamava direttamente in causa l'ex segretaria di Stato Usa, ricordando le sue responsabilità nell'appoggio ai golpisti che avevano estromesso Zelaya e che si erano perpetuati al potere grazie a elezioni fraudolente avallate da Washington. La notte del 2 marzo Berta è stata assassinata da sicari penetrati nella sua casa: l'ennesimo crimine del governo di Juan Orlando Hernández. "Cáceres era una decisa e coraggiosa leader indigena, oppositrice del golpe honduregno del 2009 che Hillary Clinton, come segretaria di Stato, rese possibile - scrive su The Nation lo storico Greg Grandin - Dana Frank e io seguimmo lo sviluppo di quel colpo. Più tardi, quando le mail di Clinton vennero rese note, altri come Robert Naiman, Mark Weisbrot e Alex Main rivelarono il ruolo centrale da lei giocato nell'indebolire Manuel Zelaya, il presidente deposto, e il movimento d'opposizione che chiedeva la sua reintegrazione. In tal modo Clinton si alleò con i peggiori settori della società honduregna". Ed esercitò pressioni su altri paesi perché le richieste di ritorno alla democrazia fossero accantonate a favore dell'elezione di un "governo di unità", come lo chiama in Hard Choices, legittimando così un regime dittatoriale basato sulla repressione. Attraverso i suoi portavoce la candidata democratica alla Casa Bianca ha respinto le accuse di The Nation definendole "assurdità" e ribadendo di aver operato per risolvere una crisi costituzionale spianando la strada a consultazioni democratiche. La realtà è ben diversa, come testimonia l'ondata di omicidi che ha insanguinato e continua a insanguinare l'Honduras: tra le vittime giornalisti, studenti, difensori dei diritti umani, dirigenti contadini e indigeni. Berta Cáceres era ben cosciente dei rischi che correva: a chi le chiedeva se non temesse per la propria vita, rispondeva di sì, spiegando che non era facile vivere in un paese dove le minacce erano costanti. Ma chiarendo anche che lei e la sua organizzazione non si sarebbero lasciate paralizzare dalla paura. L'anno scorso la coordinatrice del Copinh era stata insignita di un importante riconoscimento, il Goldman Enviromental Prize, per la sua lotta contro il megaprogetto idroelettrico Agua Zarca, portato avanti dall'impresa honduregna Desa e finanziato da capitale internazionale. Un progetto che avrebbe arrecato danni irreparabili all'economia e alle risorse idriche della comunità lenca. In quell'occasione Berta, dopo aver denunciato che l'espansione dello sfruttamento dei territori da parte delle transnazionali "non solo genera conflittualità, ma molteplici forme di violazione dei diritti umani, omicidi compresi", prevedeva una recrudescenza delle persecuzioni contro gli oppositori. Quasi una profezia. 10/3/2016 |
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Bolivia, i perché della vittoria del No "Non siamo stati sconfitti, questa è stata una piccola battaglia per la modifica della Costituzione. Con i movimenti sociali, che sono il popolo, continueremo a combattere. Finché esisteranno capitalismo e imperialismo la lotta continuerà e ora con maggior forza". Così Evo Morales ha commentato la vittoria del No (con poco più del 51% dei voti) al referendum che chiedeva una modifica della Carta Magna per permettergli di ripresentarsi candidato nel 2020. Il risultato del 21 febbraio resta comunque un campanello d'allarme, un segnale che l'appoggio maggioritario di cui il Movimiento al Socialismo godeva comincia a sgretolarsi. E non si tratta del primo avvertimento. Già nel 2015 le elezioni dipartimentali e municipali avevano registrato, rispetto alle consultazioni generali dell'anno prima, un arretramento del Mas che aveva perso in alcuni tradizionali bastioni, come nelle città di El Alto e Cochabamba. Quali le cause? Secondo gran parte degli osservatori, a incidere pesantemente sul calo di consensi sono state le denunce per corruzione che hanno colpito numerosi funzionari governativi. Basti citare, tra tutti, il caso riguardante la gestione poco trasparente del Fondo Indígena. Più recentemente i media controllati dall'opposizione hanno diffuso e amplificato le voci su presunti favori fatti dal capo dello Stato a una sua ex fidanzata, direttrice commerciale di un'impresa cinese che in Bolivia si è aggiudicata contratti per centinaia di milioni di dollari. Non va neppure sottovalutato il peso del sostegno statunitense alla campagna per il No (l'ambasciata Usa vi avrebbe contribuito con circa 200.000 dollari). Del resto i finanziamenti della National Endowment for Democracy a organizzazioni e fondazioni della destra boliviana ammonterebbero, tra il 2003 e il 2014, a quasi otto milioni di dollari. Le manovre Usa sono ampiamente documentate nel libro The WikiLeaks Files, uscito nel 2015. Un solo esempio: in un cablogramma dell'aprile 2007 si parla del "più ampio sforzo dell'Usaid (United States Agency for International Development) per rafforzare i governi regionali come contrappeso al governo centrale". Nei due anni successivi i dipartimenti della cosiddetta Media Luna sono stati teatro di tentativi secessionisti e di complotti per uccidere lo stesso capo dello Stato. Nonostante i problemi interni e le pressioni di Washington, i dati del referendum mostrano che la presidenza Morales riscuote ancora la fiducia di quasi la metà dell'elettorato: uno zoccolo duro conquistato grazie agli innegabili progressi che la Bolivia ha registrato in questi anni. I programmi sociali hanno contribuito a ridurre la disuguaglianza, garantendo una pensione a tutti gli ultrasessantenni, lottando contro l'abbandono scolastico e sradicando l'analfabetismo, diminuendo la mortalità materna e infantile, ampliando l'assistenza sanitaria, combattendo l'estrema povertà. Riforma agraria e nazionalizzazione delle risorse naturali hanno cambiato la struttura economica del paese, un tempo uno dei più poveri del continente. E che adesso, pur in un periodo di crollo dei prezzi delle materie prime, può mantenere un tasso di crescita invidiabile: quasi il 5% nel 2015. Da questa realtà dovrà partire Morales per recuperare il consenso perduto. 25/2/2016 |
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America Latina, fine di un ciclo? Mar del Plata, 4-5 novembre 2005. In uno storico vertice i presidenti di cinque paesi (l'argentino Néstor Kirchner, il paraguayano Nicanor Duarte Frutos, l'uruguayano Tabaré Vázquez, il brasiliano Lula da Silva, il venezuelano Hugo Chávez) si ribellano alle pressioni statunitensi e dicono no alla formazione dell'Alca. Tramonta così il progetto di Washington di una grande area di libero commercio subordinata ai suoi interessi. A quel progetto viene contrapposta una politica di integrazione regionale che porta alla costituzione prima dell'Unasur, l'Unión de Naciones Suramericanas, poi della Celac, la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños comprendente tutti gli Stati indipendenti del continente con l'esclusione di Usa e Canada. L'anno scorso è stato ricordato il decimo anniversario dell'incontro di Mar del Plata. Ma proprio il 2015 si è chiuso con pesanti arretramenti delle forze progressiste, che pure nel corso del decennio - con diversa intensità da paese a paese - avevano ottenuto significativi risultati nella lotta alla povertà e alle disuguaglianze, nella battaglia contro il debito estero, nel recupero del ruolo dello Stato nei confronti del mercato. In Argentina le elezioni presidenziali hanno portato al potere la destra di Mauricio Macri. In Venezuela la sconfitta bolivariana nelle legislative pone a rischio il governo di Nicolás Maduro. In Brasile la presidente Dilma Rousseff è sempre più stretta d'assedio da manovre golpiste, che approfittano del calo di consensi generato dalla recessione. In Ecuador e in Bolivia le scelte governative a favore dell'industria estrattiva e dell'agricoltura da esportazione, per finanziare i programmi sociali, sono accolte da contestazioni e proteste. È la fine di un ciclo nel continente che in questi anni ha rappresentato la punta più avanzata della lotta al neoliberismo? Siamo a quello che è stato definito "l'esaurimento del modello"? Certo, i contraccolpi della crisi globale si fanno sentire anche qui: il crollo dei prezzi delle materie prime condiziona fortemente il mantenimento delle politiche sociali (e ora anche l'economia della Cina, destinataria di tanta parte delle esportazioni latinoamericane, mostra le prime crepe). Senza dimenticare i problemi ereditati dalle gestioni precedenti e non sempre attaccati alle radici, dalla mancata diversificazione produttiva all'influenza dei media in mano a gruppi monopolistici. E la rinnovata presenza degli Stati Uniti che, dopo il conflitto iracheno, hanno recuperato l'iniziativa nel "cortile di casa" non solo attraverso l'Alianza del Pacífico, ma favorendo i colpi di Stato in Honduras (2009) e in Paraguay (2012). È vero: i governi progressisti di questi anni non hanno attuato una rottura con il sistema dominante, non hanno intaccato i rapporti di potere. Hanno però introdotto reali riforme a vantaggio delle classi più svantaggiate e cambiato il corso della politica estera. Non si giustifica dunque la scelta di alcuni partiti e movimenti di sinistra di schierarsi a fianco dell'opposizione. Nell'intervista rilasciata il 26 novembre al manifesto il sociologo statunitense James Petras, pur sottolineando i limiti del modello, ammoniva: "Non sono d'accordo con quelli che preferiscono marciare con l'oligarchia anziché contestarla. Non capiscono che le destre possono appropriarsi delle critiche per andare al potere e spingere ancora più a fondo l'offensiva conservatrice". 7/1/2016 |
Latinoamerica-online.it a cura di Nicoletta Manuzzato |