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Paraguay, da vescovo a candidato presidenziale Sta per finire il lungo regno del Partido Colorado? Il giorno di Natale l'ex vescovo Fernando Lugo (aveva rinunciato alla carica episcopale quattro giorni prima), ha annunciato ufficialmente la sua candidatura alle presidenziali del 2008, dicendo di volersi porre "al servizio del popolo paraguayano attraverso la politica". Nel corso della settimana ad Asunción sono state presentate le due coalizioni che appoggeranno la sua campagna elettorale: Tekojoja (uguaglianza in lingua guaraní), formata da organizzazioni contadine e dichiaratamente di sinistra, e Paraguay Posible, un movimento dai contorni politici un po' più incerti coordinato dal fratello dell'ex prelato, Pompeyo. Non sono le uniche forze sorte in questi ultimi tempi a spezzare l'apatia politica del paese: il 29 agosto i cinque principali partiti dell'opposizione, nove gruppi extraparlamentari, diverse centrali sindacali e una trentina di organizzazioni sociali avevano dato vita alla Concertación Nacional, con l'obiettivo di creare "uno Stato con la partecipazione di tutti per giungere a un paese pulito e decente, dove non vi siano più ladroni pubblici impuniti". L'alleanza era nata in un momento di duro scontro con il presidente Nicanor Duarte Frutos, che mirava a emendare la Costituzione del 1992 per garantirsi un secondo mandato. Qualche mese prima le stesse formazioni politiche e sociali si erano unite nella Resistencia Ciudadana, sotto la guida di Lugo, per contestare la permanenza del capo dello Stato al vertice del Partido Colorado. Nonostante la Costituzione proibisca al presidente l'accumulo delle cariche, la Corte Suprema aveva dato ragione a Duarte. Il movimento civile aveva comunque mostrato la sua forza convocando in piazza 40.000 persone. La popolarità di Fernando Lugo era iniziata nella diocesi di San Pedro, una delle regioni più povere del Paraguay, dove il religioso - figlio di un dissidente colorado venti volte incarcerato durante la dittatura di Alfredo Stroessner - aveva potuto conoscere la tragica realtà indigena e contadina. L'annuncio della sua candidatura ha posto naturalmente in allarme i settori conservatori: Alberto Soljancic, dell'Asociación Rural del Paraguay, ha espresso inquietudine verso questo ex prelato che giustifica l'occupazione di proprietà private. E il vicepresidente Luis Castiglioni lo ha definito "manipolatore". Quanto alle gerarchie ecclesiastiche, non sono state certo tenere. "Monsignor Lugo è in situazione di ribellione e si espone al castigo della scomunica", ha sentenziato il presidente della Conferenza Episcopale, Ignacio Gogorza. Chi ha già preso atto della nuova situazione sembra essere il presidente Duarte, che ai microfoni di Radio Mil ha ammesso di avere scarse possibilità di rielezione e ha detto di voler ripiegare su un seggio di senatore. In ottobre, quando cercava appoggi per la modifica costituzionale che gli consentisse una nuova candidatura, Nicanor Duarte aveva a sorpresa annunciato la revoca dell'immunità ai militari Usa di stanza nel paese. Il governo aveva improvvisamente scoperto "l'impossibilità di concedere questo tipo di immunità nel quadro della Convenzione di Vienna, che è riservata a diplomatici e funzionari amministrativi". Puntuale era arrivata la ritorsione di Washington, che aveva sospeso tutte le operazioni di assistenza medica alla popolazione rurale. La mossa di Duarte non era stata dettata solo dal desiderio di compiacere l'opposizione o dalla volontà di migliorare i rapporti con gli altri Stati della regione (Argentina, Brasile, Uruguay, Venezuela): sulla decisione avevano influito soprattutto equilibri interni al Partido Colorado. Lo "sgarbo" all'amministrazione Bush era stato anche un colpo al vicepresidente Luis Castiglioni, grande alleato Usa in Paraguay e principale avversario di Duarte stesso all'interno del partito. 27/12/2006 |
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Bolivia, cresce la polarizzazione Cresce la polarizzazione politica e sociale tra la popolazione indigena dell'Altipiano e le oligarchie della regione orientale. Mentre sulle Ande domina la miseria, non più attutita dallo sfruttamento delle risorse minerarie (ormai quasi esaurite), a Santa Cruz le distribuzioni illegali di terre effettuate dalle tante dittature, in particolare quella di Hugo Banzer, hanno arricchito imprenditori agricoli e allevatori, tutti rigorosamente bianchi. Molti di loro sono figli di tedeschi, serbi, croati fuggiti dall'Europa dopo la disfatta del nazismo; altri sono coltivatori di soya brasiliani. Non a caso il dipartimento di Santa Cruz e quelli di Beni, Pando e Tarija (dove si trovano le principali riserve di gas), si erano espressi per l'autonomia nel referendum del 2 luglio. E ora si battono perché dall'Assemblea Costituente non emerga un paese più giusto. L'arma per impedire il cambiamento è il criterio di votazione dei singoli articoli della nuova Costituzione: con i due terzi dei congressisti anziché con la maggioranza assoluta, come vuole il Movimiento al Socialismo di Evo Morales. Se prevalesse il criterio dei due terzi, il Mas si vedrebbe costretto a negoziare con la destra ogni modifica costituzionale. Il 15 dicembre, in un clima che il governo ha definito preinsurrezionale, nei quattro dipartimenti si sono tenuti i cabildos abiertos convocati dai comitati civici per rivendicare l'autonomia: a detta degli organizzatori, vi hanno partecipato oltre un milione di persone a Santa Cruz, 70.000 a Tarija, 80.000 nel Beni e 15.000 nel Pando. A San Julián la tensione è sfociata in aperti scontri tra autonomisti e sostenitori del presidente Morales, con il bilancio di 57 feriti, tra cui sei giornalisti. Solo le feste di Natale hanno portato a una momentanea tregua, con la sospensione dei lavori dell'Assemblea Costituente. Ma la commissione di dieci parlamentari (cinque del Mas e cinque dell'opposizione), incaricata di esaminare il controverso problema, non ha finora trovato un compromesso sul criterio di votazione. Nonostante la difficile situazione, il governo prosegue nella sua opera di trasformazione del paese. Il 3 dicembre Evo Morales ha promulgato il provvedimento che consolida la proprietà statale degli idrocarburi, elevando a legge 44 contratti sottoscritti con compagnie petrolifere multinazionali. Tra le imprese firmatarie la brasiliana Petrobras, la spagnola Repsol-Ypf, la britannica British Gas, la britannico-statunitense Chaco, la statunitense Vintage, la francese Total, le argentine Pluspetrol e Matpetrol. Il 29 novembre era stata varata la Ley de Reconducción Comunitaria de la Reforma Agraria, che prevede la redistribuzione dei terreni improduttivi. È "la fine del latifondo in Bolivia", aveva proclamato Morales davanti a migliaia di contadini, confluiti a La Paz a piedi da ogni parte del paese. La legge era stata approvata dal Senato il giorno prima grazie all'appoggio di tre parlamentari dell'opposizione. Si era concluso così un lungo braccio di ferro con latifondisti e grandi allevatori, che si opponevano al tentativo di incidere sull'enorme concentrazione fondiaria (nei dipartimenti di Santa Cruz e Beni 14 famiglie possiedono da sole oltre 3.000.000 di ettari). 22/12/2006 |
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Pinochet divide ancora i cileni Augusto Pinochet continua a dividere la società cilena. Alla notizia della sua morte, mentre gran parte del paese scendeva in piazza a festeggiare, 60.000 nostalgici - appartenenti soprattutto alle classi medio-alte - si mettevano disciplinatamente in fila per ore in attesa di rendere omaggio alla salma. Le ferite in Cile restano aperte, ha commentato la deputata socialista Isabel Allende, figlia del presidente deposto dal golpe del 1973, "soprattutto perché nei primi anni della Concertación non siamo riusciti ad avanzare nell'ambito della giustizia". In effetti il cammino da compiere sembra ancora lungo, visto che in questi giorni si discute sulla proposta di porre un busto dell'ex dittatore nella galleria dei capi di Stato del palazzo presidenziale. La polemica è scoppiata dopo le dichiarazioni della ministra della Difesa, Vivianne Blantot, al giornale El Mercurio: "Per repellente che possa sembrare quest'idea a molti di noi, abbiamo fatto un accordo che gli riconosceva lo status legale di presidente", ha detto la ministra. "Sarebbe un'offesa per quanti hanno pagato con la vita la loro presenza nel palazzo de La Moneda accanto al presidente Salvador Allende l'11 settembre 1973, per difendere le istituzioni e la democrazia", ha replicato il vicepresidente del Senato, il socialista Jaime Naranjo. E il deputato democristiano Gabriel Ascencio, rispondendo alle domande del quotidiano argentino Página/12, ha affermato: "Stiamo dicendo che qualsiasi militare che si impadronisca del potere con le armi può guadagnarsi in seguito uno status legale. Questo non è ammissibile. Già è stato eccessivo che gli abbiano reso gli onori militari". Ascencio non è il solo ad avanzare tale critica. Quanti hanno sofferto sotto la dittatura fanno fatica a capire perché il governo, pur rifiutando i funerali di Stato, abbia concesso al defunto dittatore gli onori militari e abbia inviato la ministra Blantot a presenziare alle esequie. "La figlia del generale Bachelet è presidente di tutti i cileni": così Michelle Bachelet ha spiegato la sua concessione. Una concessione non tanto alla destra (che in gran parte aveva già preso le distanze dall'ex dittatore, quando erano venuti alla luce i suoi conti miliardari all'estero), quanto alle forze armate, in delicato equilibrio tra difesa corporativa e ruolo istituzionale. Le contraddizioni all'interno dell'esercito sono apparse chiare nei giorni scorsi, con la decisione dei vertici militari di espellere due ufficiali, colpevoli di aver espresso opinioni politiche: il nipote del dittatore, il capitano Augusto Pinochet Molina Pinochetito, che nell'orazione funebre aveva esaltato il golpe del 1973, e il generale Ricardo Hargreaves, che aveva dichiarato a un giornale la sua adesione alla causa pinochetista. Dopo aver reso omaggio alle spoglie di un golpista, con queste due espulsioni i militari sembrano aver lanciato un segnale di subordinazione al potere civile. Nei sopravvissuti e nei familiari delle vittime resta comunque il senso di una sconfitta: il 10 dicembre (giornata dedicata ai diritti umani), Augusto Pinochet è morto in un letto dell'Ospedale Militare di Santiago senza aver fatto un solo giorno di prigione, senza aver pagato sia pure in minima parte il suo debito. E ora si teme che verità e giustizia vengano sepolte con lui. 18/12/2006 |
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Venezuela, il trionfo di Chávez Domenica 3 dicembre il presidente Chávez è stato rieletto con ampia maggioranza (62,89% dei voti) e governerà il paese fino al 2013. Il suo principale avversario Manuel Rosales si è fermato al 37,18% dei consensi. Le operazioni di voto si sono svolte nella massima calma e hanno visto un'altissima affluenza ai seggi: oltre 500 osservatori dell'Oea (Organización de los Estados Americanos), dell'Unione Europea, del Mercosur, del Centro Carter e dell'Unione Africana hanno garantito la trasparenza delle consultazioni, vanificando i tentativi dell'opposizione di respingere il risultato sulla base di supposti brogli. Poco dopo le 22 di domenica, a scrutinio non ancora ultimato, il Consejo Nacional Electoral ha annunciato il nome del vincitore. Poi Chávez si è affacciato al balcone del palazzo di Miraflores e ha intonato l'inno nazionale. "Viva il Venezuela, viva il popolo venezuelano, viva la rivoluzione socialista", sono state le sue prime parole. "Nessuno abbia paura del socialismo che è fondamentalmente umano - ha aggiunto - che è amore, solidarietà. È un socialismo originario, indigeno, cristiano e bolivariano. Oggi comincia questa nuova epoca". È stato l'appoggio delle classi popolari alla sua Rivoluzione Bolivariana, alle politiche sociali con cui lo Stato redistribuisce le ricchezze provenienti dal petrolio, a garantire la vittoria di Chávez. Quanto a Rosales, ex governatore dello Stato di Zulia e sostenitore del tentato golpe dell'aprile 2002, la sua proposta si fondava sulla difesa a oltranza della proprietà privata e sull'apertura dei mercati agli investimenti esteri: un progetto neoliberista, sia pure corretto con qualche promessa populista verso gli strati più poveri. Conseguenza non secondaria del nuovo, indiscusso trionfo di Chávez è il clima disteso che si respira nel paese, ben diverso dalla tensione della vigilia. In una conferenza stampa due giorni dopo il voto, Chávez ha teso una mano all'opposizione, all'interno della quale - ha riconosciuto - ci sono molte differenze e non esiste una leadership definita. Una cosa ha però voluto chiarire: "Nessuno mi strapperà dalla via del socialismo. Questo punto non è in discussione". Molti oppositori sembrano disposti ad accettare l'offerta di dialogo, lasciando isolate le fazioni più intransigenti. Parole concilianti sono venute dal presidente di Fedecámeras, José Luis Betancourt; da Teodoro Petkoff; dal direttore della campagna di Rosales, José Vicente Carrasqueño; dal dirigente sindacale della Ctv, Pedro Castro. Nelle settimane precedenti le presidenziali non erano mancate le ingerenze del governo Usa. A Parigi l'avvocata Eva Golinger, statunitense di origine venezuelana autrice di due libri sui rapporti tra Washington e Caracas, aveva spiegato in una conferenza stampa: "Gli Stati Uniti stanno attaccando su tre fronti: il finanziamento della campagna del candidato dell'opposizione Manuel Rosales, il terrorismo diplomatico o l'utilizzo di strutture multilaterali per aggredire il Venezuela e la guerra psicologica", con cui si tenta di dipingere il presidente venezuelano come un dittatore legato al terrorismo. Lo stesso Chávez aveva denunciato un piano per destabilizzare il paese all'indomani del voto. "Faccio un appello perché non andiate ad annunciare che il 3 dicembre ci sono pronti i brogli, che il 4 il popolo deve scendere in piazza e darsi alla violenza e che il 5 le forze armate verranno a riportare l'ordine - aveva affermato Chávez rivolgendosi all'opposizione - Niente di tutto ciò avverrà, ne sono sicuro e noi faremo in modo che non avvenga". Il capo dello Stato si riferiva alle dichiarazioni di Manuel Rosales, che aveva parlato di un Plan V: "Venezuela in piazza a reclamare la vittoria del popolo". 5/12/2006 |
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Messico, un paese con due presidenti Felipe Calderón si è insediato il primo dicembre come capo dello Stato passando dalla porta sul retro, sotto il controllo attento delle forze armate che circondavano la sede del Congresso e con la tribuna parlamentare trasformata in trincea: deputati e senatori del Pan l'avevano occupata tre giorni prima scontrandosi con i colleghi del Prd, che si erano ripromessi di impedire la cerimonia. Entrato nell'aula alle 9,48 insieme al suo predecessore Fox, Calderón ha giurato, ha indossato la fascia presidenziale ed è uscito dopo 4 minuti e 51 secondi: un insediamento lampo. È riuscito così a rispettare il dettato costituzionale, che prevede il passaggio dei poteri davanti al Congresso riunito in seduta plenaria, ma non ha potuto evitare che agli occhi del mondo apparisse la frattura istituzionale esistente nel paese. Contemporaneamente, a due chilometri di distanza, López Obrador davanti a 50.000 persone avvertiva: "Il popolo aspetta ancora una vera democrazia". Il 20 novembre nello Zócalo della capitale, affollato di centinaia di migliaia di persone, López Obrador era stato proclamato "presidente legittimo del Messico" e aveva rivendicato il diritto alla resistenza: "Accettare le regole dell'attuale regime - aveva detto - significherebbe posporre il cambiamento democratico e rassegnarci impotenti davanti alle élites economiche e politiche che hanno sequestrato le pubbliche istituzioni". Obrador aveva poi ripetuto le sue principali linee programmatiche: opporsi all'entrata in vigore delle ultime clausole del trattato di libero commercio con Canada e Stati Uniti e garantire l'educazione e la salute pubblica. L'insediamento di López Obrador aveva avuto luogo dopo la sfilata commemorativa della Rivoluzione Messicana. La cerimonia in onore della Rivoluzione era stata quest'anno cancellata dal presidente Fox, che si era limitato a un discorso dalla residenza ufficiale di Los Pinos. A organizzare la tradizionale sfilata si era incaricato però il governo di Città del Messico, retto dal Prd. Anche l'anniversario dell'indipendenza, il 15 settembre, era stato contrassegnato da due cerimonie: una a Dolores, nello Stato di Guanajuato, dove Vicente Fox aveva presieduto l'atto ufficiale; una nello Zócalo della capitale dove - di fronte a una folla immensa - i delegati della Convención Nacional Democrática avevano proclamato "la fondazione della Quarta Repubblica", il rifiuto "dell'usurpazione" e della "repubblica simulata" di Felipe Calderón. I partiti membri della coalizione Por el Bien de Todos (Partido de la Revolución Democrática, Partido del Trabajo e Convergencia para la Democracia) avevano inoltre dato vita al Frente Amplio Progresista, con lo scopo di "promuovere la resistenza civile pacifica contro l'imposizione, la trasformazione del paese, le rivendicazioni popolari e il coordinamento unitario nel Congresso dell'Unione e nei prossimi processi elettorali". Il 5 settembre il Tepjf aveva dichiarato Calderón vincitore delle presidenziali del 2 luglio. I sette giudici del tribunale, pur riconoscendo la legittimità dei ricorsi presentati dall'opposizione contro le irregolarità avvenute prima e dopo il voto, avevano consacrato la vittoria del candidato del Partido de Acción Nacional per uno scarto di 233.831 voti (0,56%). La decisione era stata respinta da López Obrador che aveva definito Calderón "presidente illegittimo", aggiungendo: "Disconosco chi pretende di presentarsi come titolare del potere esecutivo federale senza godere di una rappresentanza legittima e democratica". E se Felipe Calderón, nel suo primo discorso come presidente eletto, aveva lanciato un appello all'unità, Obrador aveva decisamente chiuso ogni porta al dialogo. Anche il capo di governo del Distretto Federale, Alejandro Encinas, aveva affermato di non voler riconoscere per il momento il presidente eletto. Il primo settembre, per la prima volta nella storia messicana, il capo dello Stato si era ritirato dalla sede del Congresso senza leggere il suo informe, in seguito all'occupazione della tribuna da parte di un centinaio di parlamentari del Partido de la Revolución Democrática. L'opposizione protestava contro i brogli e chiedeva il ritiro del massiccio spiegamento di forze dell'ordine che presidiava il Parlamento e che aveva posto in stato d'assedio il centro della capitale. Fox aveva consegnato copia del suo sesto rapporto sullo stato del paese (l'ultimo della sua gestione) ed era tornato nella residenza presidenziale. La realtà del complotto montato contro López Obrador era venuta chiaramente alla luce a metà agosto con la diffusione, nel programma radiofonico Hoy por hoy della giornalista Carmen Aristegui, delle rivelazioni dell'imprenditore argentino Carlos Ahumada. Arrestato all'Avana nel 2004 Ahumada ammise, nel corso degli interrogatori della polizia cubana, che "la campagna per estromettere López Obrador dalla corsa presidenziale" con accuse di corruzione era capeggiata dall'ex presidente Carlos Salinas, dall'allora ministro dell'Interno (Gobernación) Santiago Creel, dal procuratore generale della Repubblica Macedo de la Concha e dall'ex candidato presidenziale del Pan Fernández de Cevallos. "È difficile che il presidente (Fox) non ne sapesse nulla", aveva aggiunto Ahumada. In tutto questo periodo la coalizione Por el Bien de Todos aveva proseguito la sua resistenza civile con i presidi sorti nelle principali vie della capitale, i cosiddetti campamentos por la democracia. Il 14 agosto la polizia era intervenuta con violenza contro un gruppo di parlamentari del Prd, che cercavano di installare un presidio di fronte alla Camera. Il giorno seguente, centinaia di agenti e militari avevano circondato la zona con blindati antisommossa: un apparato che finora era stato utilizzato solo nel settembre 2003, a Cancún, per attaccare i no global che manifestavano contro la riunione dell'Omc. Il convulso periodo seguito al voto del 2 luglio aveva comunque mostrato la forza dell'eterogenea compagine dei sostenitori di López Obrador, che in poche settimane avevano dato vita alle più grandi manifestazioni della recente storia messicana: più di un milione domenica 16 luglio, oltre il doppio quindici giorni dopo. 1/12/2006 |
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Ecuador, netta vittoria di Correa Le autorità elettorali hanno ufficialmente proclamato la vittoria di Rafael Correa, candidato di Alianza País, che nel ballottaggio del 26 novembre ha ottenuto oltre il 56% dei voti battendo il suo avversario, il magnate conservatore Alvaro Noboa. Il trionfo di Correa era apparso chiaro già nella notte successiva al voto, quando i suoi sostenitori si erano riversati nelle strade di Quito per festeggiare. Nonostante abbia rivestito il ruolo di ministro dell'Economia nel governo di transizione di Alfredo Palacio, Rafael Correa Delgado viene considerato un outsider della politica e questo lo ha sicuramente avvantaggiato in un paese dove i forajidos nel 2005 non si erano limitati a cacciare Lucio Gutiérrez, ma avevano fatto propria la parola d'ordine della rivolta argentina: ¡Que se vayan todos! 43 anni, economista con studi negli Stati Uniti, Correa si richiama alla "sinistra cristiana", non ha mai fatto mistero della sua simpatia per Chávez e si è definito "molto vicino" alla presidente cilena Bachelet. Ha promesso una profonda riforma politica, da attuarsi attraverso un'Assemblea Costituente con pieni poteri. Una riforma che lascerebbe in secondo piano il Parlamento, considerato il nido della "partitocrazia" (Alianza País, non ha neppure presentato candidati al Congresso). Sul piano economico, pur non vedendo di buon occhio la dollarizzazione in vigore dal 2000, il futuro presidente non si propone di abolirla perché convinto che porterebbe a conseguenze peggiori: si sforzerà però di promuovere la creazione di una moneta regionale sudamericana. Per quanto riguarda il debito estero (16.479 milioni di dollari, di cui 10.276,6 corrispondono al debito pubblico), intende rinegoziarlo in forma "degna, tecnica e ferma" e vuole rivedere gli accordi petroliferi con le multinazionali presenti nel paese. Ha inoltre ripetuto più volte di essere contrario al Tratado de Libre Comercio con gli Stati Uniti (le trattative, iniziate tempo fa, sono state sospese da Washington per ritorsione dopo la rottura del contratto tra il governo di Quito e la compagnia statunitense Oxy) e di non voler rinnovare l'accordo che concede agli Usa la base militare di Manta, accordo che scadrà nel 2009. Sui rapporti con la vicina Colombia, ha più volte affermato che non coinvolgerà il suo paese nel Plan Colombia sponsorizzato da Washington. Correa ha inoltre annunciato un maggiore avvicinamento al Mercosur e ha ribadito la denuncia di Chávez sulla Comunidad Andina de Naciones: la Can è stata "ferita a morte" da Colombia e Perù, che hanno negoziato un trattato bilaterale con gli Usa. Il nuovo presidente ha già presentato parte del suo nuovo gabinetto. Ministro del Governo sarà il dirigente della sinistra Gustavo Larrea, esperto in diritti umani; ministro dell'Energia Alberto Acosta, acceso critico della dollarizzazione; ministro dell'Economia Ricardo Patiño, contrario al pagamento del debito estero. A capo della compagnia statale Petroecuador sarà chiamato Carlos Pareja Yanuzzelli, colui che diede il via alla rottura del contratto con la Oxy. 30/11/2006 |
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Uruguay, in carcere l'ex dittatore L'ex dittatore Juan María Bordaberry si è costituito la mattina del 17 novembre, mentre il suo ex ministro degli Esteri, Juan Carlos Blanco, era finito dietro le sbarre la sera prima. Contro i due, il giudice Roberto Timbal aveva spiccato ordine di cattura per l'omicidio dei parlamentari Zelmar Michelini ed Héctor Gutiérrez Ruiz e dei militanti tupamaros Rosario Barredo e William Whitelaw. La decisione del magistrato era fortemente attesa dagli organismi di difesa dei diritti umani, che l'hanno salutata come il primo segno tangibile di un cambiamento di rotta. I responsabili di crimini di lesa umanità godono tuttora della protezione offerta dalla Ley de Caducidad, approvata durante la presidenza Sanguinetti e ratificata in seguito da un referendum. Una legge che neppure l'arrivo del Frente Amplio al governo ha finora cancellato. Ma qualche spiraglio si era già aperto l'11 settembre, con il rinvio a giudizio - per la prima volta nella storia del paese - di due ex poliziotti e sei ex militari (un settimo, Juan Antonio Rodríguez Buratti, aveva preferito suicidarsi quando gli agenti si erano presentati alla sua abitazione per condurlo in carcere). "L'11 settembre sarà considerata una data storica in Uruguay perché la giustizia ha iniziato il suo corso e si è spezzato quel tabù che permetteva il persistere dell'impunità", aveva detto il generale a riposo Víctor Licandro (fondatore negli anni Settanta, insieme a Líber Seregni, del Frente Amplio), alla giornalista messicana Stella Calloni. Licandro aveva anche commentato le proteste con cui alcuni militari avevano accolto l'avvio dei procedimenti giudiziari: "All'interno dell'istituzione non si è generato un anticorpo. Esiste un marcato corporativismo perché vi sono nonni, padri, figli e nipoti arroccati sulla stessa posizione, per questo si chiudono e continuano a sostenere, contro tutte le evidenze, che quello che hanno fatto durante la dittatura lo hanno fatto per salvare la patria". Sempre a settembre il comandante in capo dell'esercito, Carlos Díaz, aveva riconosciuto che nel 1976 erano stati uccisi più di venti oppositori, trasportati dall'Argentina con uno dei cosiddetti "voli della morte". Erano stati chiamati in causa non solo i vertici militari, ma i politici degli anni della democrazia. "Ci sono stati governi che non hanno indagato né posto sotto processo quanti hanno permesso simili atrocità": questa la denuncia di Guillermo Paysee, del Serpaj (Servicio Paz y Justicia) uruguayano. E il colonnello a riposo Gilberto Vázquez, tra i primi arrestati, aveva rincarato la dose accusando l'ex presidente Julio María Sanguinetti di aver ordinato la cosiddetta operación zanahoria per rimuovere e far sparire i resti dei detenuti assassinati. Un mese dopo, esattamente il 19 ottobre, il comandante dell'esercito Díaz veniva sollevato dall'incarico su ordine di Tabaré proprio per aver partecipato a una riunione con Sanguinetti e altri esponenti dell'opposizione. 17/11/2006 |
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Oaxaca, oltre cinque mesi di lotta Negli oltre cinque mesi di conflitto nello Stato di Oaxaca si contano 98 desaparecidos, 93 detenuti politici, 109 feriti e 15 morti. Lo afferma il rapporto della Commissione Diritti Umani del Senato presieduta dalla parlamentare Rosario Ibarra. Nel documento, presentato il 16 novembre, si denunciano abusi di autorità, violazioni al diritto all'assistenza medica e al libero transito, episodi di tortura, e si afferma che l'invio delle truppe federali da parte del governo Fox non ha riportato la calma, anzi ha inasprito gli animi della popolazione. Il 29 ottobre 4.500 effettivi, tra militari e agenti della Policía Federal Preventiva, erano entrati nella città di Oaxaca con l'appoggio degli elicotteri e di 12 blindati antisommossa. L'ingresso delle truppe era stato accolto dalla resistenza passiva della popolazione. All'ultimatum del governo Fox, che intimava al movimento di protesta di rimuovere i blocchi stradali e sgomberare gli edifici occupati, i militanti dell'Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca (Appo) avevano risposto rafforzando le barricate, per rallentare in ogni modo l'avanzata delle forze federali. "La Appo non consegnerà la città alla Policia Federal Preventiva. Respingiamo totalmente la sua presenza nella città di Oaxaca; non sono i benvenuti", aveva detto il portavoce Florentino López. Giovedì 2 novembre una vera e propria battaglia, con decine di feriti, aveva luogo nei pressi dell'Universidad Autónoma Benito Juárez. Migliaia di studenti, genitori e abitanti della zona rispondevano all'avanzata della Policía Federal Preventiva con pietre, petardi e rudimentali lanciafiamme. La domenica seguente una massiccia manifestazione percorreva il centro storico di Oaxaca: vi partecipavano anche i familiari degli arrestati e degli scomparsi e delegazioni provenienti da altri Stati a portare la loro solidarietà. Nella notte tra domenica 5 e lunedì 6, a Città del Messico, lo scoppio di alcuni ordigni provocava danni al Tribunale Elettorale, agli uffici del Pri e a una banca. Un coordinamento guerrigliero si attribuiva la responsabilità degli attentati, ma la Appo (Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca) prendeva le distanze dall'accaduto, ribadendo la natura pacifica della sua lotta. Il conflitto nello Stato di Oaxaca, uno dei più poveri della Federazione Messicana, inizia nel maggio scorso, quando i maestri della Sezione 22 del Sindicato Nacional de Trabajadores de la Educación scendono in sciopero per ottenere miglioramenti salariali. Il 14 giugno la lotta sindacale si inasprisce: centinaia di poliziotti, con gas lacrimogeni e proiettili di gomma, tentano di sgomberare gli scioperanti, che rispondono con bastoni e lanci di pietre forzando gli agenti a ritirarsi. Al movimento degli insegnanti si aggiungono intanto organizzazioni sociali, politiche e popolari, che costituiscono la Appo. L'obiettivo prioritario è la destituzione del governatore Ulises Ruiz Ortiz, del Partido Revolucionario Institucional, accusato di corruzione e di repressione. L'esempio dell'Appo prende piede: in luglio, in una trentina di municipi vengono instaurate amministrazioni popolari che delegittimano i sindaci eletti (in gran parte appartenenti al Pri). E fanno la loro comparsa sconosciuti gruppi guerriglieri, che il 30 agosto minacciano ritorsioni nel caso in cui le autorità ricorrano alla forza contro il movimento popolare. Di fronte a una crisi senza apparenti vie d'uscita, il governo federale accetta di trattare: in settembre Gobernación (Ministero dell'Interno), Appo e Sezione 22 del sindacato insegnanti si siedono intorno a un tavolo. Ma è un dialogo tra sordi: mentre le organizzazioni sociali pongono come punto non negoziabile la destituzione di Ruiz, Città del Messico si limita a parlare di "profonda trasformazione del governo statale". L'11 ottobre una sottocommissione del Senato Federale, composta da rappresentanti di Pri, Pan e Prd, si reca a Oaxaca per verificare la situazione. Ma qualcuno non sembra apprezzare una soluzione negoziata e le provocazioni si susseguono, facendo precipitare gli avvenimenti. Il 14 ottobre un commando armato, forse legato all'esercito, apre il fuoco contro una barricata, uccidendo un maestro e ferendone un altro. Il 18 ottobre viene ucciso un altro insegnante, mentre continuano gli attacchi a barricate e accampamenti. Di fronte a questa escalation il Senato, pur riconoscendo l'ingovernabilità esistente nello Stato di Oaxaca, decide di non proclamare la dissoluzione dei poteri: in pratica la classe politica lascia mano libera alla repressione. Il 26 ottobre gli insegnanti approvano a maggioranza la ripresa delle lezioni, anche se l'Appo avverte il governatore Ruiz: se non si dimetterà entro il 30 novembre, verrà "reso incandescente" l'insediamento del nuovo presidente, Felipe Calderón. È proprio questi a premere sul suo compagno di partito, Vicente Fox, perché risolva la questione prima del passaggio dei poteri: non vuole avere tra le mani, all'inizio del suo mandato, la patata bollente di Oaxaca. La scelta della mano dura è quasi obbligata: una destituzione di Ruiz da parte del governo centrale romperebbe l'alleanza con il Pri, alleanza fondamentale per il futuro presidente, la cui legittimità è contestata da metà del paese. Inoltre la caduta di un governatore sotto la pressione popolare potrebbe costituire un pericoloso precedente. Il 27 avvengono nuovi episodi di violenza: agenti in borghese e militanti priisti attaccano un posto di blocco dell'Appo, ferendo a morte il giornalista statunitense Bradley Will, di Indymedia. Nel corso di altri attacchi vengono uccise altre tre persone: è il pretesto che ci vuole per giustificare l'intervento. Il presidente Fox ordina l'invio sul posto, attraverso un ponte aereo, di ingenti forze federali incaricate di "ristabilire l'ordine". Durissimo il commento de La Jornada, che nel suo editoriale del 30 ottobre scrive: "Il governo di Vicente Fox giunge al suo termine come ostaggio delle frange più delinquenziali di quel partito che pretendeva di buttar fuori a pedate da Los Pinos (la residenza presidenziale), con il marchio del tradimento di un movimento popolare con cui stava formalmente negoziando, con la mania intatta di mentire e con le mani macchiate di sangue". 16/11/2006 |
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Nicaragua, il nuovo mandato di Ortega Daniel Ortega sarà il prossimo presidente del Nicaragua. La sua vittoria è stata riconosciuta dal suo più diretto avversario, l'esponente dell'Alianza Liberal Nicaragüense Eduardo Montealegre. Anche gli Stati Uniti, che avevano appoggiato Montealegre con tutti i mezzi, giungendo a minacciare un blocco delle rimesse degli emigranti nel caso di un'affermazione sandinista, hanno fatto buon viso a cattivo gioco: "Rispettiamo la decisione del popolo nicaraguense e ci congratuliamo perché è stato portato a termine un processo democratico", ha dichiarato il ministro del Commercio Usa, Carlos Gutiérrez. E l'ex presidente Jimmy Carter, che fungeva da osservatore delle consultazioni, ha reso noto che la segretaria di Stato Condoleezza Rice gli aveva assicurato (bontà sua) piena accettazione del responso delle urne. Il tentativo dell'ambasciatore statunitense Paul Trivelli di favorire un'unica candidatura della destra si era scontrato con il rifiuto di Montealegre e di José Rizo, del Partido Liberal Constitucionalista, di confluire in una lista comune. Del resto le paure di Washington appaiono infondate: nonostante l'aperto sostegno del Venezuela di Hugo Chávez, il nuovo mandato di Ortega non si preannuncia certo come una rivoluzione. Nelle sue prime dichiarazioni pubbliche il presidente eletto, che assumerà il potere il 10 gennaio, ha escluso cambiamenti radicali nella politica economica e ha promesso di rispettare l'iniziativa privata e l'economia di mercato e di onorare gli accordi con gli organismi finanziari internazionali. Non potrebbe fare altrimenti visto che, per giungere al potere, ha stretto patti con personaggi ultraconservatori come l'ex presidente Arnoldo Alemán (cui ha garantito copertura contro diverse accuse di corruzione), ha accettato come vicepresidente l'ex leader della contra Jaime Morales Carazo, infine si è avvicinato alle posizioni più retrive della gerarchia cattolica. Fino al punto di votare in Parlamento, insieme alle destre, la penalizzazione dell'aborto in ogni caso (anche quando sia in pericolo la vita della madre o quando la gravidanza sia frutto di una violenza). Con la nuova legge, che abroga una normativa in vigore da un secolo, anche le donne che ricorreranno all'aborto terapeutico e i medici che le assisteranno rischiano pesanti pene detentive. Così ha commentato questa votazione José Miguel Vivanco, direttore per l'America di Human Rights Watch: "Invece di proteggere i diritti dei cittadini che rappresentano, i partiti politici hanno utilizzato il corpo delle donne come campo di battaglia per le elezioni". Di fronte a simile trasformismo non c'è da stupirsi che molti vecchi compagni di lotta di Ortega, da Ernesto Cardenal a Sergio Ramírez, alla ex comandante guerrigliera Mónica Baltodano, abbiano parlato di tradimento degli ideali del sandinismo. I dissidenti avevano dato vita al Movimiento Renovador Sandinista, il cui leader indiscusso, l'ex sindaco di Managua Herty Lewites, poteva aspirare alla massima carica dello Stato. La morte per infarto di Lewites, agli inizi di luglio, ha rappresentato un duro colpo per le speranze dei rinnovatori: Edmundo Jarquin, candidato di ripiego, non ha ottenuto neppure il 7% dei suffragi. 8/11/2006 |
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Brasile, la resurrezione di Lula Il ballottaggio del 29 ottobre ha riconfermato presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva, che si è imposto sul suo avversario, Geraldo Alckmin, con il 60,8% dei voti. Nel periodo compreso tra il primo turno, in cui aveva riportato un vantaggio di soli sette punti percentuali (insufficienti per una vittoria immediata), e l'appuntamento del 29, Lula ha significativamente modificato il suo messaggio elettorale. Anziché sfuggire il confronto televisivo con il rivale, ne ha approfittato per delineare con chiarezza la posta in gioco: da una parte il suo governo, ortodosso in economia, ma con un forte accento sociale; dall'altra il neoliberismo e le privatizzazioni proposte da Alckmin. E non ha evitato neppure lo spinoso tema della corruzione, collocandolo nel contesto della classe politica brasiliana e ricordando che gli stessi partiti alleati di Alckmin avevano avuto un ruolo preponderante negli scandali scoperti durante la sua gestione e durante quella del suo predecessore Cardoso. Il risultato del secondo turno è stato favorito inoltre dall'appoggio di numerosi intellettuali ed ex petisti assai critici verso il governo, ma preoccupati di fronte alla minaccia di un trionfo della destra. È il caso di Marta Suplicy, che ha guidato la campagna elettorale di Lula a San Paolo. Domenica 29 si è tenuto il ballottaggio anche per i governatori di dieci Stati, sette dei quali sono stati aggiudicati a esponenti di partiti alleati di Lula. Considerando i risultati dei due turni, il presidente potrà contare in questo secondo mandato sull'appoggio di 17 governatori sui 27 complessivi. All'indomani del primo turno, nell'incontro con i giornalisti per commentare i risultati emersi dalle urne, Lula era apparso deluso per la mancata vittoria, ma pronto a ricominciare la lotta. Aveva criticato i membri del Partido dos Trabalhadores coinvolti nell'ultimo scandalo (il tentativo di acquistare sottobanco un dossier che mostra l'esponente socialdemocratico José Serra in combutta con la cosiddetta "mafia delle sanguisughe"). Aveva tentato però di assolvere il partito da lui fondato, definendolo una realtà "molto più grande" di alcuni episodi di corruzione. Resta il fatto che gli scandali hanno offuscato l'immagine di quello che un tempo si presentava come "il partito dell'etica". Domenica primo ottobre il Pt si era imposto solo in quattro dei 27 Stati in gioco: tra le perdite più brucianti San Paolo, Rio de Janeiro e Minas Gerais. Anche i dati delle presidenziali non erano confortanti: Lula aveva ricevuto 46.661.622 voti (48,61%); Alckmin 39.968.037 (41,64%); Heloisa Helena, del Partido Socialismo e Liberdade, 6.575.000 (6,85%); Cristovam Buarque, del Pdt-Df, 2.538.829 (2,64%). A voltare le spalle a Lula al primo turno era stato in particolare lo Stato di San Paolo, il più grosso collegio elettorale del paese. La senatrice Helena, espulsa dal Pt nel 2003 per essersi opposta alla riforma delle pensioni, aveva condotto una campagna molto dura contro il governo, definito "servo dei banchieri". La sinistra rimprovera a Lula le promesse tradite e le speranze deluse: la scelta di una politica neoliberista (pur corretta e "addolcita") ha posto di fatto il governo a fianco delle élites tradizionali del paese. Il capitale finanziario ha conosciuto in questi quattro anni i maggiori guadagni della sua storia, mentre i settori produttivi sono rimasti soffocati dagli alti tassi d'interesse. Quanto alla lotta alla povertà, che era stata la bandiera del Pt, i risultati sono modesti: secondo i dati della Fondazione Getulio Vargas, la popolazione povera è scesa dal 26,7 al 22,7%. In altre parole, 42 milioni di persone continuano a vivere - o meglio a sopravvivere - con l'equivalente di due dollari al giorno; un brasiliano su tre è disoccupato o campa grazie all'economia informale e nelle periferie urbane si accalcano milioni di emarginati. I programmi sociali hanno cercato di alleviare la miseria, senza però incidere sull'estrema disuguaglianza del paese. Severa l'analisi di João Paulo Gonçalves, della direzione nazionale del Movimento Sem Terra: "Lula ha sbagliato nella distribuzione della ricchezza per tre motivi. In primo luogo ha mantenuto la politica economica del suo predecessore Fernando Henrique Cardoso. Questo è stato il suo peccato capitale. In secondo luogo, non potendo contare su una maggioranza al Congresso, per poter approvare le leggi ha stretto un'alleanza con settori della società fortemente conservatori ed estremamente corrotti. E in terzo luogo, non ha un progetto per il Brasile. O meglio, il progetto di Lula è il lulismo, che esiste solo nella sua testa". Nonostante tutto, in vista del ballottaggio il leader dei Sem Terra, João Pedro Stédile, aveva ribadito la necessità di sconfiggere Alckmin, rappresentante "del ritorno al potere delle classi dominanti per promuovere in forma egemonica il modello neoliberista". Anche la politica estera, fiore all'occhiello di Lula, con Alckmin avrebbe cambiato bruscamente rotta, mandando all'aria tutti gli sforzi per una maggiore integrazione regionale e per il rafforzamento delle relazioni Sud-Sud (alleanza con India e Sudafrica, commercio con la Cina). Il recupero da parte di Lula - in questa seconda fase della campagna - dei toni e degli obiettivi di un tempo sembra dare ragione a quanti hanno scommesso, ancora una volta, sul presidente operaio. 30/10/2006 |
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Strategia della tensione in Colombia Secondo il procuratore generale Mario Iguarán, non esistono prove sufficienti per responsabilizzare la guerriglia delle Farc dell'attentato avvenuto giovedì 19 nelle vicinanze dell'Escuela Superior de Guerra a Bogotá (sedici feriti per lo scoppio di una camionetta imbottita di esplosivo). La senatrice Gloria Inés Ramírez, rappresentante della Comisión de Paz y Acuerdo Humanitario, ha avanzato l'ipotesi che l'episodio sia "un altro falso dispositivo per mantenere le risorse del Plan Colombia". Anche Jairo Ramírez, dell'Asamblea de la Sociedad Civil por la Paz, ha espresso dubbi sull'autenticità dell'attentato, troppo simile - per le circostanze in cui è avvenuto - ad analoghi episodi del passato. Quando si sta cercando una soluzione negoziata al conflitto, ha detto Ramírez, "compaiono sempre le autobombe, le provocazioni, gli attentati a bloccare il processo di pace". È puntualmente accaduto anche questa volta: subito dopo l'esplosione il presidente Uribe ha incolpato le Farc, ha decretato la sospensione delle trattative preliminari in vista di uno scambio umanitario e ha dato disposizioni all'esercito di raddoppiare le operazioni militari. Dopo le speranze suscitate dall'avvio del negoziato, che avrebbe potuto portare alla liberazione di 63 persone in mano alle Farc (tra cui l'ex candidata presidenziale Ingrid Betancourt e tre cittadini statunitensi), la decisione di Uribe è stata accolta con sgomento dai familiari dei sequestrati. "No al riscatto con azioni di forza": questa la parola d'ordine delle persone che martedì 24 sono scese in piazza a Bogotá per chiedere al governo il riavvio delle trattative. Quanto ai due mediatori nel negoziato, Carlos Lozano e Lázaro Vivero, hanno annunciato che non ubbidiranno all'ordine del capo dello Stato di sospendere le trattative. La Colombia sprofonda sempre più nella violenza, nonostante le rassicurazioni del presidente Uribe. A Carepa (dipartimento di Antioquia), nella prima metà di ottobre il dirigente del Sindicato Nacional de Trabajadores de la Industria Agropecuaria Jesús Marino Mosquera è stato assassinato mentre si accingeva ad andare al lavoro. Qualche giorno prima, a Calí, il giovane Julián Hurtado era stato ucciso nei pressi della sua abitazione. Hurtado, rappresentante studentesco nel Consiglio Accademico dell'ateneo, faceva parte di una commissione che indagava sul caso di un altro studente, Johnny Silva, colpito a morte nel 2005 da un poliziotto. Solo nell'anno in corso, superano già il centinaio i civili morti per mano della forza pubblica. Spesso si tratta di persone colpite a caso, di vittime da utilizzare come pretesto per la repressione o come dimostrazione di forza. Lo dimostra la registrazione di una telefonata tra un capitano dell'esercito e un paramilitare: l'ufficiale chiede al suo interlocutore di uccidere due cittadini qualsiasi facendoli passare per guerriglieri (il delitto è puntualmente avvenuto e ora il capitano è in carcere per omicidio aggravato). Agli inizi di settembre, dopo una denuncia comparsa sul quotidiano El Tiempo, il Ministero della Difesa aveva dovuto ammettere che l'attentato dinamitardo del 31 luglio nella capitale (bilancio: un morto e sedici feriti) era stato preparato da quattro ufficiali. L'azione terroristica avrebbe dovuto essere sventata in tempo e dimostrare così la prontezza dell'esercito nella lotta contro la guerriglia, ma qualcosa era andato storto e l'ordigno non era stato disattivato. Sulla violenza si costruiscono anche molte fortune politiche. Tre senatori sono sotto inchiesta perché accusati di legami con i gruppi paramilitari: i loro nomi sono stati trovati nell'archivio di un computer sequestrato a Ignacio Fierro Don Antonio, braccio destro di Jorge 40, il famigerato capo delle Auc (Autodefensas Unidas de Colombia). I tre parlamentari, che avrebbero ricevuto l'appoggio dei paras durante la campagna elettorale, sono Zulema Jatin, della formazione di governo Partido Social de Unidad Nacional; Dieb Maloof, di Colombia Viva e David Char, di Cambio Radical. "Buona parte della classe politica colombiana, soprattutto della regione dei Caraibi e di altre regioni del paese, costituisce la vera dirigenza del narco-paramilitarismo", ha commentato il senatore Gustavo Petro, del Polo Democrático Alternativo. 24/10/2006 |
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Bolivia, la battaglia di Huanuni Una battaglia a colpi d'arma da fuoco e candelotti di dinamite. Gli scontri di giovedì 5 e venerdì 6 ottobre a Huanuni sono iniziati con l'assalto dei minatori della Fencomin (Federación Nacional de Cooperativas Mineras) al giacimento del Cerro Posokoni, la maggiore riserva di stagno della Bolivia (all'incirca 948.000 tonnellate di minerale, valutate intorno ai 4.000 milioni di dollari). L'assalto è stato rintuzzato dai lavoratori sindacalizzati della compagnia statale Comibol (Corporación Minera de Bolivia) e la battaglia si è conclusa con un vero e proprio massacro: 16 morti e oltre 60 feriti. Gli schermi della televisione hanno mostrato case distrutte, decine di feriti per le esplosioni, file di cadaveri allineati all'obitorio dove i familiari erano chiamati al drammatico rituale del riconoscimento. Le scene di disperazione si sono ripetute domenica, al momento delle esequie: la mattina sono stati sepolti i lavoratori statali, nel pomeriggio i cooperativisti. Tutti riposano ora nello stesso cimitero. Dopo la firma di una sorta di tregua, nella zona regna una calma gravida di tensione. Il governo è accusato di aver aspettato troppo tempo prima di inviare la forza pubblica e Morales si è difeso affermando che, se lo avesse fatto, il numero dei morti sarebbe stato maggiore: "Qualcuno dice: perché il governo non ha militarizzato? Se avessi mandato truppe a Huanuni, i minatori si sarebbero scontrati con militari e agenti. Che avrebbero detto? Evo ha ucciso i minatori". Il presidente ha dovuto comunque correre ai ripari rimuovendo il ministro delle Miniere, Walter Villarroel, e sostituendolo con Guillermo Dalence, ex dirigente del sindacato minatori. La decisione segna la rottura tra esecutivo e cooperativisti: Villarroel era infatti arrivato alla guida del dicastero in seguito a un accordo pre-elettorale tra il Mas e la Fencomin. La battaglia di Huanuni è scoppiata per il controllo del Cerro Posokoni, che l'amministrazione Morales aveva diviso salomonicamente in due parti: a 120, 160, 200 metri di profondità lo sfruttamento era affidato alla Comibol; a livello della superficie e fino a 80 metri di profondità ai cooperativisti. Questi ultimi però non si dichiaravano soddisfatti e chiedevano la concessione di altri due livelli. Ma le origini del conflitto vanno ricercate oltre vent'anni fa, quando il crollo del prezzo internazionale dello stagno portò al licenziamento di quasi 20.000 operai. Molti emigrarono in cerca di lavoro, altri si dedicarono alla coltivazione della coca nella zona di Cochabamba. Altri infine crearono cooperative minerarie, in un'epoca in cui il modello neoliberista promuoveva il passaggio delle ricchezze del sottosuolo in mani private. Se in questi anni la maggioranza dei cooperativisti è sopravvissuta a stento sfruttando - con metodi artigianali - filoni poveri di minerale, alcuni si sono arricchiti e ora contrattano a loro volta lavoratori (spesso minorenni), che accettano di scendere nelle viscere della terra senza equipaggiamento e senza adeguate misure di sicurezza. Con i suoi 63.000 minatori (l'82% del paese), il settore cooperativo ha esercitato una forte influenza sugli ultimi governi, barattando il suo appoggio politico con nuove concessioni. La posta in gioco è un minerale che, con la crescita della domanda cinese, ha visto quasi raddoppiare il suo prezzo. 8/10/2006 |
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Argentina, i conti con il passato L'ex commissario Miguel Etchecolatz, uno degli uomini più potenti della dittatura militare nella provincia di Buenos Aires, è stato condannato all'ergastolo per crimini di lesa umanità. Una condanna che Etchecolatz ha accolto senza alcun segno di pentimento, dichiarandosi "prigioniero di guerra e detenuto politico". La sentenza, salutata con gioia dai familiari dei desaparecidos, menziona per la prima volta il termine "genocidio" riferendosi agli orrori del regime. Pochi giorni prima migliaia di persone avevano commemorato a Buenos Aires la tragica notte del settembre 1976 conosciuta come "la notte delle matite", quando i militari sequestrarono una decina di studenti liceali, sei dei quali scomparvero nei centri clandestini di tortura. Gli arrestati erano militanti dell'Unión de Estudiantes Secundarios e avevano sfidato la dittatura manifestando per ottenere il trasporto gratuito. I giovani desaparecidos, due ragazze e quattro ragazzi, sono diventati un simbolo della resistenza e sulla loro storia è stato pubblicato un libro, La noche de los lápices, di María Seoane ed Héctor Ruiz Núñez, da cui è stato anche tratto un film. Il 5 settembre, con una decisione storica il giudice Norberto Oyarbide aveva annullato l'indulto decretato nel 1990 dall'allora presidente Carlos Menem a favore dell'ex dittatore Jorge Rafael Videla. Il giorno prima lo stesso magistrato aveva cancellato gli indulti di cui beneficiavano gli ex ministri della giunta militare José Alfredo Martínez de Hoz e Albano Harguindeguy. Il 4 agosto, in un'altra giornata destinata a rimanere nella storia, l'ex poliziotto Julio Simón detto El Turco Julián era stato condannato a 24 anni e mezzo di prigione per il sequestro, la tortura e la scomparsa di Gertrudis Hlaczik e del marito José Poblete e per l'appropriazione della loro figlia Claudia, allora di otto mesi. Quella del Turco Julián è stata la prima condanna dopo l'annullamento delle leggi di Obediencia Debida e Punto Final. Ma se queste sentenze testimoniano la fine di un'epoca buia, il 31 agosto Plaza de Mayo è stata invasa da una manifestazione contro la criminalità che ha visto la partecipazione di ex militari responsabili di violazioni dei diritti umani. Alla testa della mobilitazione Juan Carlos Blumberg, padre di un giovane morto nel corso di un sequestro a scopo d'estorsione, che si è fatto paladino della "mano dura" contro la delinquenza. Appoggiato dalla setta Moon, Blumberg è riuscito a unire attorno a sé la destra argentina, dagli esponenti politici Mauricio Macri e Ricardo López Murphy all'ex commissario Luis Patti, all'ex piquetero Raúl Castells. 19/9/2006 |
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Cuba, "Il peggio è passato" In un messaggio al popolo cubano datato 4 settembre e pubblicato dal quotidiano ufficiale Granma, il presidente Fidel Castro ha annunciato che il momento più critico per la sua salute è stato superato. Il comunicato e le foto che lo accompagnano si aggiungono alle recenti immagini diffuse dalla televisione, che mostrano Fidel mentre riceve per la seconda volta la visita di Hugo Chávez. Nonostante le scarne notizie ufficiali, il miglioramento era apparso chiaro già durante la prima visita del presidente venezuelano. Per tre ore i due vecchi amici si erano scambiati aneddoti, racconti, regali. Alcuni momenti del colloquio erano stati trasmessi per televisione e diverse foto erano state pubblicate sul Granma: ritraevano il malato in un letto d'ospedale, ma con espressione rilassata e distesa. Il giorno prima su Juventud Rebelde, insieme ad altre immagini, era uscito un messaggio di Fidel: "Cari compatrioti e amici di Cuba e del resto del mondo: oggi, 13 agosto, sono arrivato agli 80 anni. A tutti quelli che hanno inviato auguri per la mia salute prometto che lotterò per essa". Pur in presenza di progressi considerevoli, "affermare che il periodo di recupero durerà poco e che non esiste più alcun rischio sarebbe assolutamente scorretto - aggiungeva Castro - Suggerisco a tutti di essere ottimisti e nello stesso tempo sempre pronti ad affrontare qualsiasi notizia avversa". Il líder máximo, costretto a sottoporsi a un intervento chirurgico d'urgenza, aveva delegato per la prima volta i suoi incarichi di governo e di dirigente del Partido Comunista al fratello Raúl lo scorso 31 luglio. Sull'isola il comunicato era stato accolto con sorprendente tranquillità: i cubani avevano obbedito all'invito dell'anziano leader e si erano recati a lavorare come di consueto. Solo brevi interruzioni nelle fabbriche e negli uffici per leggere e commentare il messaggio di Castro e una manifestazione di reafirmación revolucionaria nel Parque Central dell'Avana, promossa da organizzazioni sindacali, sociali e politiche, avevano marcato l'eccezionalità dell'evento. Fin dai primi commenti si faceva risaltare la calma che regnava nel paese, una chiara testimonianza - secondo Pedro Martínez Pires, direttore di Radio Nacional - che il passaggio dei poteri era programmato già da tempo. La designazione del fratello come presidente del Consiglio di Stato, comandante delle forze armate e primo segretario del Pcc rientra del resto nella legalità costituzionale, dal momento che Raúl Castro già occupava l'incarico di vice in queste istituzioni. Quanto ai particolari compiti che Fidel si era assunto nei campi della sanità, dell'educazione e dell'energia, sono stati affidati a importanti esponenti del partito e del governo. In particolare la cosiddetta revolución energética viene seguita da una troika formata dal presidente del Banco Central Francisco Soberón, dal ministro degli Esteri Felipe Pérez Roque e dal vicepresidente Carlos Lage Dávila. 5/9/2006 |
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Perù, il ritorno di Alan García Significative assenze hanno marcato, il 28 luglio, l'insediamento di Alan García Pérez: mancavano infatti l'argentino Néstor Kirchner e il venezuelano Hugo Chávez. L'assenza di Chávez è spiegabile con i duri scontri verbali che lo hanno opposto a García nel corso della campagna elettorale (il presidente venezuelano non ha mai nascosto il suo appoggio al candidato sconfitto Ollanta Humala). Anche la decisione di Kirchner di non recarsi a Lima, comunicata solo 24 ore prima, è stata letta come una presa di distanza dagli attacchi di García alla politica di Caracas. Dopo essersi collocato da solo la fascia presidenziale, senza attendere che lo facesse la presidente del Congresso Mercedes Cabanillas, il nuovo capo dello Stato ha tenuto un discorso di un'ora e mezza che i commentatori hanno trovato alquanto deludente ("disordinato, confuso e povero" è stato definito). García ha affermato di voler rinegoziare i contratti di sfruttamento con il consorzio Camisea per ottenere un abbassamento del prezzo del gas alle utenze, ma non ha fatto alcun cenno ai problemi ecologici sollevati dalla discussa costruzione del gasdotto che attraverso la foresta giunge alla costa peruviana. Ha annunciato una politica di austerità per ridurre la spesa pubblica, diminuendo in primo luogo gli appannaggi di ministri e parlamentari, e ha criticato la gestione economica del suo predecessore Alejandro Toledo, ma non ha delineato cambiamenti di fondo nel modello neoliberista. Un approccio ben diverso da quello del suo primo mandato (1985-90), quando García si scontrò con il sistema finanziario internazionale che gli rimproverava la decisione di limitare il pagamento del debito estero. La politica eterodossa di allora si concluse comunque in un fallimento, soprattutto a causa della forte corruzione in seno al gruppo di potere. Nel discorso non è mancata una sorta di "giustificazione" del comportamento delle forze armate (e delle loro ripetute violazioni dei diritti umani) nella guerra "contro la sovversione". Quanto alla politica estera, alla quale il neopresidente ha dedicato solo pochi minuti, unico punto fermo sembra essere il progetto di consolidare la Comunidad Andina de Naciones, in crisi dopo il ritiro del Venezuela. La cerimonia è stata comunque l'occasione per un miglioramento dei rapporti, storicamente difficili, tra Lima e Santiago. La presidente cilena Michelle Bachelet si è infatti trattenuta in Perù un giorno in più per assistere, come invitata d'onore, alla locale sfilata militare. Salita sul palco ufficiale, è stata accolta da García con un galante baciamano e ha poi sorpreso gli astanti intonando l'inno ufficiale peruviano: una scena ampiamente ripresa da tutte le telecamere. È la prima volta che i due paesi sono governati contemporaneamente da esponenti di partiti appartenenti all'Internazionale Socialista, anche se il Partido Aprista Peruano non mostra certo un orientamento progressista, mentre il Partido Socialista de Chile, dopo la tragica parentesi della dittatura di Pinochet, si è spostato sempre più al centro. Il neopresidente peruviano non nasconde comunque il suo sogno di costruire un blocco latinoamericano alternativo a quello rappresentato da Venezuela-Bolivia-Cuba. Non è dato sapere se riuscirà nel suo intento, ma è certo che a tale scopo l'alleanza con Santiago appare indispensabile. Alan García torna al potere dopo la sua prima esperienza del quinquennio 1985-90, conclusasi tra accuse di corruzione, violazioni dei diritti umani e il paese in preda a un'inflazione galoppante (i prezzi erano aumentati fino a 33.000 volte) e una violenza politica in continua crescita. Nonostante questo saggio di malgoverno, nel ballottaggio del 4 giugno il leader del Partido Aprista Peruano ha ottenuto la vittoria grazie al voto del ceto medio-alto, che ha voluto così far fronte alla "minaccia Humala", l'ex militare nazionalista considerato vicino a Chávez e a Morales. Ad assicurare il trionfo di García sono stati gli elettori di Lima (un terzo del totale), che al primo turno si erano espressi a favore della candidata della destra Lourdes Flores, e quelli della costa settentrionale. Per Ollanta Humala si sono pronunciati invece in modo massiccio i dipartimenti del sud del paese: Ayacucho, Arequipa, Puno, Cuzco, Apurímac e Huancavelica. Il partito di Humala ha ottenuto la maggioranza relativa nel Congresso (45 seggi), mentre il Partido Aprista Peruano figura al secondo posto con 36 parlamentari. Seguono Unidad Nacional, la coalizione di Lourdes Flores, con 17 seggi, Frente del Centro (5), Perú Posible (2), Restauración Nacional (2). García non potrà dunque fare a meno del voto della destra in Parlamento. A condizionare ancora di più il suo operato, l'appoggio ricevuto per il ballottaggio dall'ex presidente Fujimori. Nel corso della campagna elettorale Humala aveva denunciato il "patto di impunità" tra García e Fujimori, un patto confermato anche dalla presenza, nell'entourage dell'attuale vincitore, di numerosi ex collaboratori dell'uomo forte del passato regime, Vladimiro Montesinos. Quanto al futuro vicepresidente, l'ammiraglio a riposo Luis Giampietri, non si è distinto solo nel periodo Fujimori: nel 1986, durante la prima presidenza di Alan García, diresse l'assalto militare al penitenziario di El Frontón, durante il quale furono massacrati centinaia di prigionieri politici. Anche la composizione del futuro gabinetto mostra un chiaro spostamento a destra. La designazione di Luis Carranza a ministro dell'Economia ha suscitato le congratulazioni degli organismi finanziari internazionali e dei grandi gruppi privati, ma ha trovato critici i sindacati, che premono per il ripristino dei diritti dei lavoratori cancellati dal regime Fujimori: una delle tante promesse della campagna elettorale che García pare aver dimenticato. Carranza, già viceministro con Toledo, aveva promosso all'epoca rigide misure monetariste per mantenere i conti all'attivo (a costo di un aumento della povertà e della disoccupazione) e si era poi dimesso per contrasti con il titolare del dicastero dell'Economia, il neoliberista Pedro Pablo Kuczynski, da lui accusato di incremento eccessivo delle spese sociali. Dichiaratamente neoliberiste sono anche la nuova ministra del Commercio Estero, Mercedes Aráoz, e quella dei Trasporti, Verónica Zavala (sono sei le donne con incarichi di governo, la maggior rappresentanza femminile nella storia del paese). Il gabinetto sarà guidato dal segretario generale del Pap, Jorge del Castillo, e conterà tra i suoi membri anche un esponente dell'Opus Dei, Rafael Rey, che dopo aver appoggiato Lourdes Flores nella prima tornata elettorale, si è avvicinato a García in occasione del ballottaggio. In controtendenza con questa impronta conservatrice vi è la presenza al dicastero dell'Interno di Pilar Mazzetti, che come ministra della Sanità nel governo Toledo venne duramente attaccata dagli ambienti cattolici per aver difeso la pillola del giorno dopo. Intanto nel paese si registrano manifestazioni e blocchi stradali contro il Tratado de Libre Comercio firmato dal governo di Lima con gli Stati Uniti. Il 28 giugno il trattato è stato ratificato a sorpresa dal Parlamento, grazie anche ai voti apristi. "Quello che è avvenuto nel Congresso è stato vergognoso perché il Tlc è stato approvato senza consentire alcun dibattito, facendo ricordare le pratiche del governo di Fujimori - ha dichiarato il leader del Partido Socialista Javier Diez Canseco - Il comportamento di García è penoso, non è stato capace di mantenere la sua parola (durante la campagna elettorale aveva promesso di rinegoziare il trattato con gli Usa). García rappresenta il continuismo neoliberista rispetto al governo di Toledo, ma con un incremento della repressione perché l'aprismo sta già promuovendo leggi per aumentare le pene contro chi protesta nelle piazze". "Toledo e García, la stessa porcheria" è stato lo slogan gridato da circa 5.000 dimostranti che hanno marciato fino alla sede del Congresso, sotto la guida del segretario generale della Confederación Nacional Agraria, Antolín Huáscar. Secondo uno studio del Grupo de Análisis para el Desarrollo, il settore agrario perderà tra i 100 e i 160 milioni di dollari per l'ingresso nel paese di prodotti statunitensi che godono delle sovvenzioni del governo di Washington. Oltre il 60% del costo di questo trattato ricadrà sui contadini delle Ande, i più poveri del Perù. E non è tutto: con l'accordo sottoscritto il governo di Lima non potrà adottare alcun provvedimento che danneggi le imprese statunitensi, come imporre nuove tasse o rinegoziare contratti; le compagnie Usa non saranno sottoposte alla giustizia nazionale; mentre le autorità statunitensi potranno negare l'ingresso ai prodotti peruviani per ragioni sanitarie, le autorità peruviane non potranno fare lo stesso. 29/7/2006 |
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Mercosur, Fidel protagonista del vertice C'erano proprio tutti a Córdoba, in Argentina, al vertice del Mercosur che si è chiuso il 21 luglio: l'argentino Kirchner, il brasiliano Lula da Silva, l'uruguayano Tabaré Vázquez, il paraguayano NicanorDuarte e il venezuelano Hugo Chávez come nuovo socio a pieno titolo. Accanto a loro Michelle Bachelet ed Evo Morales in rappresentanza dei due Stati associati (Cile e Bolivia), oltre a Fidel Castro in qualità di "invitato speciale". Il leader cubano si è trasformato nel grande protagonista dell'evento, firmando con il Mercosur un accordo di cooperazione che costituisce una boccata d'ossigeno per l'isola, messa a dura prova dal lungo embargo statunitense e dal recente raffreddamento dei rapporti con l'Europa. Per le nazioni sudamericane l'accordo con Cuba non sarà rilevante sul piano economico, ma è un'affermazione di indipendenza politica nei confronti di Washington. Con l'avvicinamento dell'Avana, il Mercado Común del Sur si avvia così a diventare, da semplice patto commerciale, uno strumento di integrazione politica di respiro continentale. È questa anche l'ispirazione della Declaración de Córdobache ha concluso l'incontro. Il documento sottolinea "i progressi dei lavori preliminari all'istituzione del Fondo para la Convergencia Estructural del Mercosur(Focem), che costituisce un passo avanti significativo nel trattamento delle asimmetrie, nella promozione della coesione sociale e nel rafforzamento del processo d'integrazione", accoglie con favore la proposta di Buenos Aires di "creare un Banco de Desarrollo del Mercosur per finanziare progetti di infrastruttura e consolidare una strategia finanziaria per la regione" e vede con soddisfazione l'adesione di Uruguay, Paraguay e Bolivia al progetto di Gran Gasoducto del Sur. Prima della conclusione si è tenuto il passaggio delle consegne: Lula ha sostituito Kirchner nel ruolo di presidente pro tempore dell'organismo. Nell'ambito del vertice si è svolto uno storico colloquio tra Michelle Bachelet ed Evo Morales. "Abbiamo avuto un dialogo aperto, senza escludere alcun tema", ha dichiarato Morales al termine dell'incontro. "Abbiamo ratificato l'impegno ad avanzare insieme con la disposizione a dialogare", gli ha fatto eco Bachelet. Certo il governo cileno non può parlare apertamente di cessioni territoriali alla Bolivia, per non rischiare in patria accuse di "svendita della sovranità nazionale". Alla vigilia del vertice la dichiarazione del viceministro degli Esteri di Santiago, Alberto van Klaveren, secondo il quale nel colloquio tra i due capi di Stato non ci sarebbero stati temi tabù, aveva suscitato le proteste irate della destra. In una conferenza stampa il senatore dell'Unión Democrática Independiente (Udi), Hernán Larraín, era arrivato a dire: "Mai il Cile ha accettato di porre sul tavolo del negoziato questo argomento". Un'affermazione inesatta: lo stesso Pinochet, nel 1975, per combattere l'isolamento in cui si trovava il regime, aveva firmato un accordo con il dittatore boliviano Hugo Banzer, offrendogli uno sbocco al mare a nord di Arica. Il patto era poi saltato per l'opposizione del Perù, il cui territorio sarebbe stato coinvolto in questo eventuale "baratto". 22/7/2006 |
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Cile, le ragioni del rimpasto Mostrando abilità politica e un forte decisionismo, la presidente Michelle Bachelet ha condotto in porto senza grossi traumi il suo primo rimpasto di governo. Tre i ministri destituiti: il titolare dell'Interno (nonché capo di gabinetto) Andrés Zaldívar, il responsabile dell'Istruzione Martín Zilic e la ministra dell'Economia Ingrid Antonijevic, che saranno sostituiti rispettivamente da Belisario Velasco Barahona, Yasna Provoste Campillay e Alejandro Ferreiro. Sul piano delle alchimie politiche i cambiamenti beneficiano il Partido Demócrata Cristiano (Pdc) ai danni del Partido por la Democracia (Ppd). I tre nuovi ministri infatti sono tutti democristiani, mentre tra i "defenestrati" figura Ingrid Antonijevic, del Ppd: un modo per far digerire alla Dc il siluramento di un personaggio del calibro di Zaldívar. La decisione di procedere a un rimpasto è legata a una serie di problemi che il governo ha dovuto affrontare nei suoi primi mesi di vita, problemi ereditati dalle precedenti amministrazioni, ma che pure hanno portato la neopresidente a un calo di consensi del 10%. Il detonatore della crisi pare sia stata l'accoglienza poco calorosa ricevuta da Michelle Bachelet a Chiguayante (Concepción), in occasione della visita alle zone colpite dalle recenti inondazioni. La popolazione responsabilizza del disastro il governo, che ha consentito all'impresa spagnola Endesa di costruire le gigantesche centrali idroelettriche di Ralco e Pangue, nell'Alto Bio Bío: sembra ormai accertato che le decisioni tecniche adottate dai dirigenti delle centrali, di fronte all'ingrossamento dei fiumi per le piogge, abbiano contribuito ad accrescere il numero delle vittime. Di tutt'altro tenore le ragioni che hanno portato all'uscita di scena della ministra dell'Economia, Ingrid Antonijevic, alla quale è stata rimproverata la "rivoluzionaria" proposta di regolamentare i prezzi del gas. Quello energetico è un tema scottante in Cile, grande consumatore del gas importato dall'Argentina (ma in realtà proveniente dalla Bolivia, paese con cui è in corso un'annosa controversia territoriale). A far scoppiare il caso la decisione di Buenos Aires di applicare un'imposta addizionale alle esportazioni, per compensare gli aumenti fissati dal governo Morales e per proteggere allo stesso tempo il crescente consumo interno. Mentre i media cileni urlavano al "tradimento argentino", la ministra Antonijevic scatenava le ire delle compagnie ipotizzando un controllo dei prezzi. Il gas viene importato dall'Argentina al Cile attraverso contratti con imprese private, sia locali che transnazionali. Il risultato è che la rete di distribuzione in Cile deve rifornirsi a prezzi fino a sette volte superiori rispetto a quelli praticati alla fonte. A loro volta le imprese di distribuzione, grazie al regime di libertà delle tariffe, si incaricano di recuperare "adeguati" profitti scaricandone il peso sui consumatori finali. Un sistema che risale alla seconda metà degli anni Novanta (al potere c'erano Menem a Buenos Aires ed Eduardo Frei a Santiago) e che non sarà modificato a breve: il nuovo titolare dell'Economia non sembra affatto intenzionato a cambiare modello. A intaccare non poco la popolarità presidenziale vi è stata infine la lunga agitazione studentesca, con l'errata gestione della vicenda da parte del ministro Zilic e la selvaggia repressione delle proteste, ordinata e rivendicata dal capo di gabinetto Zaldívar. I momenti più rilevanti di questo lungo periodo di agitazione si erano registrati il 19 maggio, quando l'occupazione dell'Instituto Nacional e del Liceo de Aplicación aveva dato il via a un'ondata di azioni analoghe, e il 30 maggio, quando gli scontri con la polizia avevano portato all'arresto di oltre 800 manifestanti e al ferimento di decine di giovani. Dopo una serie di tira e molla tra le parti, i pingüinos, come vengono soprannominati gli alunni delle medie superiori, avevano lanciato un ultimatum, minacciando uno sciopero sociale se le loro richiese non fossero state soddisfatte. La stessa Michelle Bachelet si era allora incaricata di prendere in mano la situazione. Prima disponendo la destituzione del comandante delle forze speciali, colonnello Osvaldo Jara, responsabile della brutale repressione del 30 maggio. Poi presentando, con un messaggio radiotelevisivo, le sue controproposte. In un primo tempo la risposta degli studenti era stata negativa: lunedì 5 giugno lo sciopero aveva visto l'adesione di circa un milione di giovani tra liceali e universitari e aveva dimostrato che la base d'appoggio su cui potevano contare si era ampliata, con il sostegno attivo di docenti, lavoratori, organizzazioni sociali. In seguito la presidente Bachelet era riuscita a disinnescare temporaneamente la miccia. Tra le proposte per risolvere il conflitto, la creazione di un consiglio di 74 membri (di cui dodici rappresentanti degli studenti) sulla riforma dell'educazione. La designazione di questo consiglio (e una certa stanchezza) avevano portato al compromesso, anche se gli studenti non si erano dichiarati entusiasti di una rappresentanza così minoritaria. La mobilitazione dei liceali aveva comunque mostrato la vitalità del movimento, partito da richieste economiche quali la gratuità dei trasporti e degli esami d'accesso all'università, ma che aveva presto ampliato i suoi obiettivi attaccando la famigerata Loce (Ley Orgánica Constitucional de Enseñanza), con cui la dittatura aveva introdotto nel settore dell'istruzione una logica di mercato. Bersaglio della protesta erano in particolare due provvedimenti legati alla Loce: il trasferimento della scuola pubblica alle amministrazioni locali e il sistema di finanziamento attraverso sovvenzioni. Un sistema che penalizza l'educazione pubblica, mentre in parallelo innumerevoli istituti privati ricevono fondi statali senza sottostare ad adeguati controlli. Il miglioramento della qualità dell'istruzione figurava tra le quattro direttrici del programma presentato il 21 maggio da Michelle Bachelet nel suo primo messaggio al Congresso, accanto alla riforma delle pensioni, ai provvedimenti a favore di una maggiore competitività delle piccole e medie imprese, alla costruzione di nuovi quartieri più accoglienti e vivibili. "Abbiamo l'impegno di arrivare al 2010 con un paese più moderno", aveva dichiarato la presidente, soffermandosi in particolare sulla necessità di assicurare pensioni dignitose e sicure: "Vogliano un sistema previdenziale esteso a tutti i lavoratori. Un sistema in grado di servire allo stesso modo impiegati e braccianti, professionisti e microimprenditori. Un sistema che tenga conto delle diverse realtà del nostro paese. Perché la sicurezza sociale è un diritto di tutte e di tutti". Bachelet aveva poi ribadito che nel suo governo non vi sarebbero state discriminazioni di sesso né esclusioni di alcun tipo: "Senza la presenza attiva delle donne non potremo sconfiggere la povertà ed essere un paese più competitivo". Aveva infine affrontato il tema dei diritti umani: "Niente più giustifica l'ingiustificabile - aveva detto - La memoria di migliaia di persone non ammette punto final". 15/7/2006 |
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Lo Stato cileno contro i Mapuche La "questione mapuche" è tornata recentemente all’attenzione della cronaca per il lungo sciopero della fame attuato da quattro detenuti, tre uomini e una donna, rinchiusi nella prigione di massima sicurezza di Angol. Dopo 63 giorni di digiuno, i quattro avevano sospeso una prima volta la loro protesta, riprendendola poi "perché il governo non ha tenuto fede ai suoi impegni". Hanno ora ripreso ad alimentarsi (le loro condizioni di salute erano ormai allarmanti), in attesa dell’approvazione in Parlamento di un progetto di legge presentato dal senatore socialista Alejandro Navarro, che modificando i requisiti per la concessione della libertà condizionata consentirebbe loro di lasciare il carcere. Alla base della decisione di ricorrere allo sciopero della fame vi era la richiesta di una revisione del processo. Un processo condotto con testimoni dal volto coperto e conclusosi con pesanti condanne in virtù dell’applicazione di una legge antiterrorismo risalente al periodo di Pinochet. L’arbitrarietà di questa procedura risulta evidente se si pensa che la legislazione del regime militare è stata espressamente rispolverata per contrastare le rivendicazioni indigene: come ha denunciato il presidente della Camera, Antonio Leal, "non è possibile che a un giovane che a Santiago lancia una bomba molotov contro un’auto dei carabineros si applichi la Ley de Control de Armas, e nella IX Región, a un mapuche che fa lo stesso, si applichi la Ley Antiterrorista". Il reato di cui i quattro detenuti sono accusati è infatti quello di "incendio terrorista". Si riferisce alla distruzione di una proprietà della Forestal Mininco, data alle fiamme nel dicembre 2001. Oltre a dover scontare dieci anni e un giorno di carcere, i quattro sono stati condannati a versare una somma altissima, al di fuori della loro portata, come risarcimento all’impresa forestale "danneggiata" dall’incendio (la stessa impresa che aveva usurpato le terre della comunità). Con l’applicazione della legge antiterrorismo si attua una vera e propria "criminalizzazione" del movimento indigeno. Una situazione che suscita da tempo le proteste degli organismi internazionali. La Commissione per i Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite ha dichiarato la sua "profonda preoccupazione per l’applicazione di leggi speciali nel contesto delle attuali tensioni per le terre ancestrali nelle zone mapuche". Human Rights Watch ha invitato il governo di Santiago "a una revisione completa e imparziale dei procedimenti". E la Federazione Internazionale per i Diritti Umani, in un recente rapporto, ha parlato di "violazione del diritto al giusto processo". Del resto il Cile è uno dei pochi Stati del continente a non aver ratificato il trattato internazionale sui diritti dei popoli indigeni. Manca insomma un quadro giuridico adeguato per proteggere la popolazione autoctona, che rappresenta il 4,5% del totale. Di questi, la stragrande maggioranza è costituito dai Mapuche, la "gente della terra" secondo la traduzione letterale. Protagonisti di una strenua resistenza prima contro i conquistadores spagnoli, poi contro lo Stato cileno, i Mapuche vengono piegati solo nel 1883 con la cosiddetta "guerra di pacificazione", in realtà un massacro che non risparmia donne e bambini. La sconfitta significa la riduzione del territorio indigeno da 10 milioni a 500.000 ettari, assegnati con contratti di proprietà che per i nativi non significano nulla. Il resto delle terre passa in gran parte in mano a coloni stranieri: un fenomeno favorito dal governo centrale, che vede in esso un indice di "modernità". Un’inversione di tendenza si registra con la presidenza di Salvador Allende e con l’avvio, all’inizio degli anni Settanta, della riforma agraria. Ma il golpe dell’11 settembre 1973 riporta indietro l’orologio della storia. Con il progetto di assimilazione forzata, attuato con la connivenza di alcuni dirigenti della comunità, si accentuano emarginazione e discriminazione. La situazione non migliora di molto con il ritorno della democrazia. La Costituzione non riconosce l’aspetto multietnico del paese e non fa alcun cenno all’autodeterminazione del popolo mapuche, che nel frattempo assiste impotente alla distruzione dell’ecosistema da parte delle transnazionali del legname. Le piantagioni di pini ed eucalipti, destinate alla produzione di cellulosa, soppiantano la foresta tradizionale, portando all’impoverimento del suolo, all’inquinamento dell’aria e all’avvelenamento dell’acqua. Nell’impossibilità di trarre sostentamento da terreni minuscoli e resi improduttivi, molti mapuche lasciano i villaggi d’origine, andando ad accrescere la moltitudine di disperati delle periferie urbane. A Temuco, Concepción, Santiago, si scontrano con altre forme di discriminazione: per ottenere lavori sottopagati e poco qualificati sono spesso indotti a "cilenizzare" il proprio nome, a nascondere la propria identità culturale. Il risveglio avviene negli anni Novanta. Il movimento, che in un primo tempo si limita alla protesta, di fronte al silenzio e all’indifferenza del governo passa all’azione, occupando le terre appartenute agli antenati e cercando di opporsi allo strapotere delle transnazionali. Per tutta risposta le autorità fanno ricorso, come abbiamo visto, alle leggi della dittatura, che trasformano in "terroristi" i capi della comunità. Nel 1994 due di essi, Pascual Pichun e Aniceto Lorin, sono imprigionati per una disputa su un terreno: passeranno più di un anno in carcere in attesa di giudizio. Verranno poi scarcerati per mancanza di prove, ma negli anni seguenti decine di altri leader finiranno dietro le sbarre o saranno costretti alla clandestinità. La loro lotta si scontra con interessi consolidati: la crescita economica cilena, tanto invidiata in America Latina, si fonda sull’esportazione delle ricchezze minerarie, del legname, del salmone d’allevamento. Un’economia basata sullo sfruttamento del sottosuolo e sulla privatizzazione di foreste e coste non può certo tollerare che la popolazione autoctona tenti di difendere le risorse naturali, tanto più dopo la firma del trattato di libero commercio con gli Stati Uniti. Negli ultimi tempi la comunità mapuche ha portato la sua battaglia anche sul piano istituzionale. Per garantirsi l’accesso al mare ha redatto - avvalendosi della collaborazione di specialisti - un progetto di legge che nel novembre 2005 è stato sottoposto all’esame dei deputati. Decine di membri della comunità hanno percorso fino a mille chilometri per assistere alla storica seduta nella sede del Parlamento a Valparaíso. Grande è stata però la delusione quando è bastata l’approvazione di due emendamenti al testo per snaturare completamente la proposta. Nelle recenti consultazioni presidenziali, che hanno visto la vittoria di Michelle Bachelet, aveva tentato di presentarsi come candidato Aucan Huilcaman, membro del Consiglio di Tutte le Terre, una delle più importanti istituzioni indigene. Aucan non sperava certo di diventare presidente, ma la sua campagna elettorale avrebbe permesso di porre all’attenzione dei media i problemi dei Mapuche, totalmente assenti dal dibattito politico (del resto nessun rappresentante indigeno siede in Parlamento). All’inizio gli organi di stampa hanno mostrato un certo interesse, anche se concentrato sugli aspetti folcloristici: l’arrivo a cavallo di Aucan nella capitale, ad esempio, ha conquistato le prime pagine dei giornali. Poi tutto è finito nel dimenticatoio e nessuno si è curato di spiegare al paese perché il nome di Huilcaman è sparito dall’elenco dei candidati. Come indipendente, Aucan avrebbe dovuto riunire 36.000 firme, che andavano convalidate da un notaio. L’operazione sarebbe venuta a costare all’incirca 285.000 euro, una cifra enorme per la comunità mapuche. Inoltre la maggior parte dei notai si è rifiutata di collaborare o ha frapposto difficoltà di ogni tipo. Alla scadenza prevista, solo un decimo delle firme raccolte era stato convalidato. Huilcaman ha fatto allora appello al mondo politico, ricordando come una situazione simile si fosse verificata nel 1992, quando a causa di un errore la partecipazione dei candidati democristiani alle elezioni era stata messa in forse. In quell’occasione una procedura d’urgenza in Parlamento aveva permesso - in nome della democrazia - di superare le formalità burocratiche. In questo caso, invece, i parlamentari si sono limitati a concedere ad Aucan alcuni giorni in più, trascorsi i quali la sua candidatura è stata definitivamente cancellata. Chiudendo gli spazi all’interno delle istituzioni e con la repressione di ogni forma di protesta, il governo cileno è finora riuscito ad assicurare relativa stabilità alla regione meridionale del paese. Gli interessi degli investimenti stranieri sono garantiti. Ma la questione mapuche resta una spina nel fianco e rende evidenti i limiti della transizione democratica: il mancato riconoscimento dell’identità culturale e il mancato rispetto dei diritti della minoranza indigena. 30/5/2006 |
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Colombia, la dignità della sconfitta Alvaro Uribe è stato rieletto presidente per il periodo 2006-10 conquistando il 62% dei consensi, al termine di una giornata elettorale contrassegnata da un forte astensionismo (oltre il 50%) e da ripetute denunce di brogli. In molte aree agricole del paese i seggi erano stati installati unicamente nei capoluoghi e questo ha impedito di fatto a migliaia di persone, in gran parte indigeni, di esercitare il proprio diritto al voto. Inoltre sono state segnalate irregolarità in diversi municipi della costa atlantica, controllati dai gruppi paramilitari. Ad assicurare il successo di Uribe, il più fedele alleato di Washington nella regione, è stata senza dubbio la sua politica di "mano dura" con la guerriglia, la sua insistenza sul tema della "sicurezza". Questo discorso è riuscito a sedurre ben sette milioni di elettori, nonostante gli scarsi risultati della gigantesca strategia militare messa in piedi in questi anni dal governo con l'aiuto dei consiglieri Usa. In particolare le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia appaiono più attive che mai e il loro impegno a non boicottare il voto (impegno assunto anche dall'Eln) non è stato certo dettato da una condizione di debolezza. Del resto qualche segno della loro presenza le Farc lo hanno dato anche durante il voto, con una serie di azioni tra cui il sequestro di sedici giudici elettorali nei pressi della frontiera con il Panama. Ma nel complesso, in un paese in cui la violenza è endemica, si può parlare - come hanno fatto i comunicati ufficiali - di una consultazione svoltasi in relativa calma. La vera novità di questo voto non è comunque la riconferma - per la prima volta nella storia colombiana - di un presidente in carica (Uribe aveva potuto ricandidarsi solo grazie a una riforma costituzionale). Il dato rilevante è il risultato del raggruppamento di sinistra Polo Democrático Alternativo (Pda) di Carlos Gaviria, che si è piazzato al secondo posto con il 22% dei consensi, scalzando il Partido Liberal di Horacio Serpa (11,83) e imponendosi come primo partito d'opposizione. Secondo l'analista politica Josefa Serna, "il paese è passato dal tradizionale confronto tra liberali e conservatori a un'aperta competizione tra sinistra e destra". Ed Elizabeth Ungar ha commentato che il liberalismo dovrà ora affrontare il dilemma di lanciarsi a un'opposizione aperta o "di consegnare le chiavi del partito al presidente eletto" (giunto al potere nel 2002 alla guida di un gruppo liberale dissidente). Intanto Gaviria, che ha commentato il dato del 28 maggio con una frase di Borges: "Questa sconfitta ha una dignità che la rumorosa vittoria non merita", ha già preannunciato i suoi programmi per il futuro. Scartando l'ipotesi di presentarsi candidato a sindaco di Bogotá nel 2007, ha dichiarato: "Mi dedicherò al rafforzamento del Polo Democrático come principale forza politica nazionale", in grado di competere con successo nelle presidenziali del 2010. Un obiettivo non irraggiungibile, visto che in soli quattro anni la sinistra ha quadruplicato i suoi voti. L'importanza del risultato conseguito dal Polo è stata ribadita anche dal responsabile della campagna elettorale, Daniel García-Peña, secondo il quale il Pda potrà esercitare un ruolo determinante nella vita del paese, "sempre che riesca a consolidare la sua unità". Nel Polo confluiscono infatti le tendenze più diverse, dai maoisti ai comunisti ortodossi, dagli ex guerriglieri ai socialdemocratici fino ai liberali di sinistra: un raggruppamento eterogeneo, che si è finora mantenuto coeso grazie alla grande capacità di mediazione di Gaviria. La scommessa è quella di trasformare questa composita alleanza in un partito: un passaggio che potrebbe avvenire già nei prossimi mesi. 29/5/2006 |
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Bolivia, "È finito il saccheggio" Evo Morales ha scelto una data simbolica, il primo maggio, per annunciare a sorpresa - con la nazionalizzazione degli idrocarburi - il recupero "della proprietà, del possesso e del controllo totale e assoluto" delle risorse energetiche. "È finito il saccheggio delle transnazionali", ha affermato nel suo messaggio alla nazione, chiedendo alla popolazione di mobilitarsi contro qualsiasi tentativo di sabotaggio da parte delle compagnie petrolifere internazionali. L'articolo 4 del decreto supremo 28.701 stabilisce la nuova distribuzione del valore della produzione di gas naturale da attribuirsi allo Stato e alle imprese: dal precedente 50/50 si passa all'82% per lo Stato e al 18% per le compagnie straniere. L'articolo afferma esplicitamente che questo 18% garantisce ai privati la piena copertura di tutti i costi di produzione. La ripartizione 82/18 (esattamente opposta a quella che il paese conobbe nel periodo di maggior saccheggio, quando era lo Stato a doversi accontentare del 18%), è stata definita sulla base di numerosi studi realizzati da esperti boliviani, venezuelani, messicani ed europei. Questi lavori, ha spiegato il vicepresidente boliviano Alvaro García Linera, dimostrano che le imprese concessionarie dei megagiacimenti di San Alberto e San Antonio (la spagnola Repsol-Ypf, la brasilana Petrobras e la francese Total) "hanno già recuperato il denaro investito e ora quasi tutto ciò che ottengono è guadagno. Con il 18% che toccherà loro a partire da adesso avranno un guadagno oscillante tra il 15 e il 19%, che si situa intorno alla media continentale". "Anche se rimanessero con un 10 anziché con un 18% - ha aggiunto il ministro degli Idrocarburi Andrés Soliz Rada - continueranno a godere di guadagni simili a quelli di altre zone". Le imprese straniere, alle quali il decreto concede 180 giorni per sottoscrivere nuovi contratti, non hanno comunque visto di buon occhio la fine della cuccagna e i rispettivi governi si sono affrettati a sostenere le loro ragioni. Brasilia ha immediatamente definito il provvedimento "un gesto non amichevole", anche se poi i rapporti con La Paz si sono distesi grazie all'incontro di Puerto Iguazú. Qui, dopo una riunione di tre ore a porte chiuse, Morales, Lula, Kirchner e Chávez hanno dichiarato che i malintesi erano stati risolti. Il presidente boliviano ha garantito l'approvvigionamento di gas ai paesi vicini e sono stati fissati incontri bilaterali per stabilire i prezzi. La preoccupazione brasiliana non deve sorprendere: dalla Bolivia proviene il 51% del gas consumato nel paese, percentuale che sale al 75% nell'area di San Paolo, il maggior centro produttivo. La nazionalizzazione ha posto Lula in una posizione difficile: da una parte non può attaccare frontalmente una decisione legittima dello Stato boliviano, dall'altra deve fare i conti con gli interessi nazionali. A chi gli chiedeva "maggior durezza", il presidente brasiliano ha ricordato che "la Bolivia è il paese più povero del Sud America e ha bisogno di aiuto, non di arroganza", anche se poi non ha risparmiato una battuta polemica, segnalando che "non era necessario circondare Petrobras con l'esercito" (riferendosi all'ordine di Morales di occupare militarmente i campi petroliferi). Quanto a Madrid, come prima reazione ha espresso "la più profonda preoccupazione" per la decisione di La Paz. In seguito una missione economica spagnola si è incontrata con Morales e García Linera e al termine della riunione, definita "franca, cordiale e positiva", è giunta l'assicurazione che tra i due governi "c'è buona sintonia". Insomma si tratterà, per ora non ci sono rotture. La Repsol-Ypf opera in Bolivia attraverso Andina (impresa di cui controlla circa il 50% del pacchetto azionario) e ha investito dal 1997 oltre 1.360 milioni di dollari. Nel marzo scorso Andina era finita sotto indagine da parte della giustizia boliviana: due suoi dirigenti erano stati arrestati ( e poi liberati dietro cauzione) per contrabbando ed evasione fiscale. Se il decreto di nazionalizzazione inquieta le compagnie straniere, incontra un ampio appoggio nella popolazione, come testimoniano tutti i sondaggi. Del resto il provvedimento rientrava nelle promesse elettorali di Morales. I boliviani hanno vissuto un primo maggio di festa, sottolineato a La Paz dal coro dell'Universidad Mayor de San Andrés, che in Plaza Murillo, proprio di fronte al Palacio Quemado, ha intonato l'Internazionale. Con la Bolivia si allarga la mappa dei paesi latinoamericani che stanno cambiando le regole del gioco in campo energetico. Già il presidente venezuelano Chávez aveva imposto alle compagnie la creazione di imprese miste con lo Stato azionista di maggioranza e aveva aumentato royalties e imposte. In Ecuador è stata approvata una legge che destina allo Stato il 50% dei profitti extra ottenuti dopo la firma dei contratti di sfruttamento. In Argentina nel 2005 al rialzo dei prezzi sul mercato interno, imposto dalle transnazionali del petrolio, ha risposto il vittorioso boicottaggio lanciato dal presidente Kirchner con l'aiuto dei piqueteros (che hanno occupato decine di distributori). In direzione opposta sembra andare invece il Messico, dove la compagnia petrolifera di Stato Pemex comincia ad ammettere la partecipazione di capitale straniero: un processo che molti temono possa portare alla privatizzazione. 6/5/2006 |
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Vecchie e nuove forme di integrazione Gli avvenimenti delle ultime settimane potrebbero ridisegnare la mappa dell'integrazione regionale. Profonde crisi stanno minando Comunidad Andina de Naciones e Mercosur, mentre all'orizzonte si profilano nuovi blocchi politico-economici come i Tcp (Tratados Comerciales de los Pueblos) o il megaprogetto di Gasdotto del Sud. I problemi in seno al Mercosur sono di vecchia data e consistono in due ordini di problemi: da un lato le asimmetrie economiche tra i soci maggiori, Brasile e Argentina, dall'altro le ricorrenti rimostranze dei soci minori, Paraguay e Uruguay, che schiacciati dai due "grandi" minacciano di cercare sbocchi commerciali alternativi (magari stringendo accordi bilaterali con gli Stati Uniti, come prevede di fare Montevideo). Quanto alla Can, la sua crisi è precipitata dopo l'annuncio che Caracas intende ritirarsi dall'alleanza. L'attacco alla Comunidad Andina è stato sferrato, con la consueta franchezza, da Hugo Chávez in occasione dell'incontro svoltosi il 19 aprile ad Asunción con il presidente paraguayano Duarte, l'uruguayano Tabaré Vázquez e il boliviano Morales. La riunione aveva l'obiettivo di discutere del gasdotto che dovrebbe convogliare il gas boliviano verso l'Uruguay passando per Puerto Casado, in Paraguay. Ma ogni questione economica è passata in secondo piano dopo il discorso del presidente venezuelano, che parlando della Comunidad Andina ha detto: "L'hanno uccisa. Non esiste più. La Can serve alle élites, alle transnazionali, ma non serve agli indios, ai neri, ai bianchi o ai poveri. Non serve al nostro popolo e addirittura lo danneggia". A decretarne la morte, ha affermato Chávez, sono stati il presidente peruviano Toledo e il colombiano Uribe: sottoscrivendo trattati di libero commercio con gli Stati Uniti hanno appoggiato la strategia di Washington che mira alla "disintegrazione" della regione. Alla voce di Chávez si è unita quella del presidente boliviano Evo Morales. Il bersaglio polemico di Morales è stato soprattutto Toledo, "che dice di rappresentare i popoli indigeni. Con questo trattato firmato con gli Usa, Toledo tradisce il movimento indigeno non solo del Perù, ma dell'intera America Latina". Nonostante tutto, però, La Paz non lascerà per ora la Comunidad Andina: una tale scelta comporterebbe un costo economico troppo alto. Anzi Morales ha chiesto a Chávez di riconsiderare la sua decisione. E anche Ollanta Humala, il candidato peruviano alle presidenziali che si è sempre dichiarato contrario al Tlc, ha deplorato la decisione venezuelana. Intanto Caracas promuove nuove forme di unione continentale. Il 29 aprile i governi di Bolivia, Cuba e Venezuela hanno firmato all'Avana un accordo che sancisce l'ingresso di La Paz nell'Alba, l'Alternativa Bolivariana para las Américas lanciata proprio dal presidente Chávez, e pone le basi di un Tratado de Comercio de los Pueblos (Tcp) tra le tre nazioni. L'accordo consentirà il libero commercio dei prodotti nazionali (compresa la pianta di coca, uno dei capisaldi dell'economia boliviana). Il Venezuela si è impegnato tra l'altro a comprare tutta la soia boliviana. rassicurando così i produttori di Santa Cruz che vedono precluso il tradizionale mercato colombiano. Con la firma del Tlc tra Bogotá e Washington, infatti, la Colombia verrà invasa da soia statunitense (concorrenziale perché sovvenzionata dall'amministrazione Usa). Sempre Chávez aveva partecipato tre giorni prima a San Paolo, insieme all'argentino Kirchner e al brasiliano Lula, a un vertice sul tema del Gasdotto del Sud, che allaccerà Puerto Ordaz in Venezuela con Buenos Aires. Nel corso di quell'incontro i tre capi di Stato avevano deciso di invitare tutti i paesi della regione ad unirsi al progetto. Il Gasdotto del Sud si rivelerà un piano troppo ambizioso e troppo costoso, come sostiene qualcuno, o rappresenterà "la locomotiva di un processo nuovo di integrazione", come afferma convinto il presidente venezuelano? 30/4/2006 |
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Uruguay, luci e ombre del governo Tabaré A poco più di un anno dall’insediamento del presidente Tabaré Vázquez, avvenuto il primo marzo 2005, il bilancio del governo della coalizione di sinistra Frente Amplio presenta un’alternanza di luci e ombre. Tra le ombre, soprattutto il conflitto sorto con l’Argentina dopo il via libera dato da Tabaré alla costruzione di due grandi impianti di cellulosa a Fray Bentos, sulle rive del fiume Uruguay che divide i due paesi. Un problema a prima vista minore, ma che coinvolge le prospettive di sviluppo del paese e potrebbe avere ripercussioni sulla sua collocazione internazionale. Il deterioramento dei rapporti tra Buenos Aires e Montevideo ha scatenato in Uruguay un clima di esacerbato nazionalismo, alimentato da un secolare "senso di inferiorità" nei confronti del grande vicino. I termini della controversia sono presto detti. Da una parte gli argentini (in particolare gli abitanti di Gualeguaychú, cittadina a soli 25 chilometri dal luogo in cui stanno sorgendo i nuovi complessi), denunciano i rischi di inquinamento ambientale e di danni alla salute e protestano bloccando i ponti che congiungono i due paesi. Dall’altra gli uruguayani si attendono dai due stabilimenti un rilancio economico e la creazione di nuova occupazione. Operai metallurgici, dell’edilizia, dei trasporti difendono a spada tratta il progetto delle due imprese, la spagnola Ence (Empresa Nacional de Celulosa de España) e la finlandese Botnia, che parlano di investimenti record per 1800 milioni di dollari e di 1,5 milioni di tonnellate di cellulosa che verranno prodotte ogni anno. Come ha spiegato ai giornalisti di Tierramérica il sindacalista Omar Díaz, si prevedono 5000 posti di lavoro nella fase della costruzione e in seguito 700 impieghi stabili, quasi 2000 addetti nell’indotto e 3000 nei servizi collegati, oltre al probabile insediamento nei dintorni di nuove fabbriche di carta. C’é un "ma", fa rilevare l’associazione ecologista uruguayana Grupo Guayubira: i posti di lavoro guadagnati nell’industria verrebbero persi nel settore turistico, che nella regione impiega un migliaio di persone, senza contare le ripercussioni negative sull’allevamento delle api, sulla pesca e sull’agricoltura biologica. La voce del Grupo Guayubira è però isolata: la società uruguayana sta vivendo un clima da "unità nazionale", che vede schierati dietro il governo economisti ed esponenti politici, intellettuali, artisti, organi di stampa. La stessa centrale sindacale Pit-Cnt, dopo aver respinto il progetto di Ence e Botnia nel suo Congresso dello scorso novembre, lo appoggia ora in maniera compatta. A favore delle scelte governative si sono pronunciati ex presidenti neoliberisti come Julio María Sanguinetti e Luis Alberto Lacalle, ma anche gran parte dei rappresentanti del Frente Amplio. Gli ex tupamaros Eleuterio Fernández Huidobro e Mauricio Rosencof, ad esempio, hanno usato espressioni particolarmente pesanti nei riguardi dell’esecutivo argentino, accusato di chiudere un occhio di fronte ai blocchi stradali e alle proteste anti-cellulosa. E un senatore di sinistra, Jorge Saravia, è giunto a proporre l’addestramento militare degli studenti liceali, perché "da questo momento in poi il panorama della regione comincia a complicarsi". Atteggiamenti che lasciano poco spazio a un serio dibattito e hanno fatto perdere di vista i problemi di fondo. Ha tentato di delinearli, in un lucido articolo, il giornalista uruguayano Raúl Zibechi. "Tutta la produzione di cellulosa degli impianti di Botnia ed Ence sarà esportata nel primo mondo - scrive Zibechi - Gli uruguayani consumano una media di 22 chili di carta all’anno, mentre i finlandesi ne consumano 380. Il 70% della cellulosa che si produce nel mondo è destinato all’imballaggio nei paesi sviluppati e solo una piccola parte al consumo diretto di carta. In tal modo i paesi centrali stanno trasferendo la parte più inquinante, e che utilizza meno manodopera della catena produttiva, verso i paesi periferici. Gli impianti che si stanno installando in Uruguay saranno i più grandi dell’America Latina e produrranno il doppio di cellulosa degli undici stabilimenti funzionanti in Argentina. Così come l’Argentina si è trasformata in grande produttrice ed esportatrice di soia, coltivazione devastante dal punto di vista ambientale e sociale, in Uruguay il modello foreste-cellulosa implica, come aveva già avvertito Eduardo Galeano, un approfondimento del modello neoliberista". In effetti Galeano era stato tra i primi a lanciare l’allarme: l’anno scorso aveva avvertito il presidente Tabaré, in procinto di approvare l’installazione, che la sua decisione poteva "implicare l'avvelenamento del fiume, rendere le acque putride e seccare la terra: e non si tratta di frutto dell'immaginazione, ma del triste insegnamento che ci hanno lasciato le fabbriche di cellulosa realizzate nei paesi vicini, in Cile come in Argentina". Parole al vento: il governo di Montevideo non solo ha continuato per la sua strada, ma ha portato al limite della rottura le relazioni con Buenos Aires, rompendo agli inizi di aprile le trattative con il paese vicino. Una resa incondizionata all’atteggiamento arrogante della Botnia, che si era rifiutata di sospendere la costruzione degli impianti per consentire una valutazione di impatto ambientale e aveva negato agli ambientalisti informazioni sul suo sistema di produzione. Dietro la decisione di Montevideo vi è la necessità di rispettare l’Accordo sulla protezione degli Investimenti che l’Uruguay ha sottoscritto con la Finlandia. L’accordo, che impegna lo Stato a indennizzare le imprese finlandesi per eventuali modifiche alle condizioni di investimento, venne firmato dall’allora presidente Batlle, ma l’attuale amministrazione non ha creduto bene impugnarlo. La controversia verrà dunque portata in ambito internazionale: l’Argentina si appellerà alla Corte Internazionale dell’Aia, l’Uruguay ha già chiesto la riunione del Consiglio del Mercosur, da cui spera una condanna per i blocchi stradali alla frontiera. Con i soci del Mercosur, ora chiamato in causa, Montevideo non ha in questo momento rapporti idilliaci. In gennaio il ministro dell’Economia, Danilo Astori, aveva ventilato l’ipotesi di un Tratado de Libre Comercio tra Uruguay e Stati Uniti. La dichiarazione, peraltro subito smentita dal governo, aveva provocato non poca tensione all’interno del blocco sudamericano. Il ministro degli Esteri di Brasilia, Celso Amorim, aveva ricordato all’Uruguay che la firma di un accordo bilaterale con gli Usa lo avrebbe messo automaticamente fuori dal Mercosur. Nonostante lo stesso Tabaré Vázquez abbia in seguito nuovamente rassicurato gli alleati, la tentazione di un patto commerciale con Washington fa ogni tanto capolino nella politica di Montevideo. I sostenitori del Tlc affermano che in tal modo verrebbero abolite le imposte sulle carni uruguayane, di cui gli Stati Uniti costituiscono il maggior importatore. Ma c’è qualcosa di più: una sorta di desencanto nei confronti del Mercosur, accusato di fare soltanto gli interessi dei due soci maggiori (Brasile e Argentina), trascurando le economie minori. L’Uruguay non pensa a un taglio netto con gli alleati, ma vorrebbe godere di una più ampia libertà d’azione nei suoi contatti con il resto del mondo, specie con gli Stati Uniti. Insomma, un orientamento ben diverso da quello che ci saremmo aspettati dalla collocazione ideologica di Tabaré Vázquez. Anche sul piano interno, le scelte del ministro Astori non si discostano molto da quelle dei suoi predecessori. Certo, qualche timida riforma c’è stata: un aumento dei fondi destinati all’istruzione, una crescita dei salari e dei sussidi destinati alla fascia più disagiata della popolazione. E qualche risultato si è visto, anche grazie a un recupero dell’economia (cresciuta lo scorso anno del 6,6%): secondo quanto riportato agli inizi di aprile dal quotidiano di Montevideo La República, nel 2005 si è registrata - per la prima volta da sei anni a questa parte - una diminuzione nel numero dei poveri. Rispetto al 2004 sono circa 80.000 in meno, un calo di quasi tre punti percentuali (dal 32,6 al 29,8%). Il miglioramento lascia però immutate le enormi disparità esistenti tra i ceti privilegiati e quanti fanno fatica a sopravvivere. Basta un solo dato per fotografare la situazione: il 55,7% dei bambini sotto i 6 anni vive in famiglie povere. Di fronte a questa sostanziale continuità con i governi conservatori, la sinistra all’interno del Frente Amplio ha già mostrato non poche resistenze e l'eventuale firma di un Tratado de Libre Comercio con Washington potrebbe provocare un vero e proprio terremoto. Una spaccatura era già stata rischiata in seguito all’approvazione dell’accordo con gli Stati Uniti sulla protezione degli investimenti. Per non parlare dell’aspro dibattito suscitato dalla decisione del governo di non sospendere le tradizionali manovre Unitas con la marina statunitense (manovre che il Frente aveva criticato quando era all’opposizione). A questo proposito l’ex tupamaro José Mujica, ora ministro dell’Agricoltura e dell’Allevamento, intervistato nell’ottobre scorso, aveva affermato: "Rispetto a operazioni come la Unitas, il presidente ha preso la decisione di non introdurre innovazioni per due ragioni: perché ormai manovre del genere non servono più a niente e perché è certo che saranno le ultime di questo tipo. Saranno le ultime non perché non piacciono a noi, ma perché non sono utili neppure agli Stati Uniti: sono una specie di retaggio storico cui vogliono porre fine. E avendo metà Uruguay votato regolarmente, negli ultimi anni, a favore di tali manovre, il presidente non ha voluto arrivare a una clamorosa rottura con l'opposizione". Un esempio di realpolitik che ha attirato su Mujica le critiche dei suoi ex compagni di lotta. Dopo tante speranze riposte nel primo governo di sinistra della storia uruguayana, prevale la delusione, tanto più che la maggioranza assoluta di cui il Frente Amplio gode in Parlamento permetterebbe una politica più coraggiosa. Un altro tema che ha fatto molto discutere, dentro e fuori la coalizione, è la depenalizzazione dell’aborto. Il cattolico Tabaré Vázquez si oppone con forza, dicendosi pronto a porre il veto su qualsiasi iniziativa di legge che contempli l’interruzione volontaria della gravidanza. Alla vigilia dell’8 marzo, il quotidiano El Observador usciva con un articolo dal titolo: "Vázquez minaccia di sciogliere le Camere se legalizzano l’aborto". Il giorno seguente il presidente cercava di smorzare la sua posizione, ma è risaputo che intende avvalersi di ogni mezzo in suo potere per impedire l’introduzione dell’aborto, nonostante un sondaggio del 2004 indichi che gli uruguayani favorevoli sono il 63%. Forse uno dei pochi aspetti in cui si registrano significativi passi avanti è quello dei diritti umani. Qui il cambiamento rispetto al passato è tangibile: dopo un lungo braccio di ferro con le forze armate, gli scavi nei terreni delle caserme hanno portato alla luce alla fine del 2005 i primi resti di oppositori politici. Questi ritrovamenti hanno dimostrato la falsità della versione ufficiale, che per anni aveva reso quasi tabù la parola desaparecidos, negando che in Uruguay fossero avvenuti gli orrori dell’Argentina. La ricerca della verità era stata a lungo paralizzata dal referendum del 1989, che approvando la Ley de Caducidad aveva contribuito a garantire l’impunità ai militari. "Risulta tragicamente paradossale - scriveva l’editoriale del quotidiano La República dopo il primo ritrovamento - che un fatto tanto doloroso come la scoperta di un cadavere possa significare una luce di speranza, una breccia che si apre nel muro di occultamento eretto da dirigenti politici compiacenti per proteggere i terroristi di Stato". E alla fine di marzo la società civile ha accolto con vero sollievo la decisione di un tribunale di riaprire la causa contro l’ex presidente Juan María Bordaberry e contro l’ex ministro dell'Interno Juan Carlos Blanco. I due sono accusati di aver ordinato l’assassinio - avvenuto nel 1976 a Buenos Aires - dei parlamentari Zelmar Michelini ed Héctor Gutiérrez e dei militanti tupamaros William Whitelaw e Rosario Barredo. Quattro casi emblematici dei crimini di una dittatura che ha giocato un ruolo non secondario nella tristemente famosa Operación Cóndor. 8/4/2006 |
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Paraguay, un paese a sovranità limitata Agli inizi di marzo il territorio del Paraguay è stato teatro di manovre militari congiunte (ufficialmente si è trattato di "azioni civiche" a favore della popolazione) realizzate da truppe statunitensi e soldati paraguayani. Un chiaro segnale di minaccia nei confronti del nuovo governo boliviano di Evo Morales. In Paraguay gli Usa si muovono ormai come a casa propria. Nel maggio dello scorso anno il Congresso di Asunción ha concesso alle truppe statunitensi l’ingresso e la libera permanenza nel paese fino al dicembre 2006 (termine prorogabile automaticamente). Ai soldati Usa è stata inoltre garantita la piena immunità: di qualunque reato siano accusati, non dovranno risponderne né davanti ai tribunali nazionali, né davanti alla Corte Penale Internazionale. "Con l’immunità e l’insediamento permanente di corpi di sicurezza statunitensi in Paraguay (l’Fbi sta già installando un ufficio regionale) pochi specialisti dubitano che i comandi delle forze speciali Usa, esperte in ogni tipo di azione compresi sabotaggi e altro, possano attraversare, ad esempio con passaporti paraguayani, la permeabile frontiera con la Bolivia", scrive la giornalista Stella Calloni sul quotidiano di Città del Messico La Jornada. I cedimenti di fronte ai diktat statunitensi hanno mostrato la sostanziale debolezza del presidente Nicanor Duarte Frutos. Nonostante Duarte sia un esponente del Partido Colorado, lo stesso raggruppamento di Stroessner, i suoi primi mesi di governo avevano fatto sperare in timide aperture. Speranze destinate ben presto a cadere: il Paraguay rimane un paese a sovranità limitata, al quale Washington ha affidato il compito di avamposto militare per il controllo della regione. In pratica lo stesso ruolo svolto dall’Honduras negli anni Ottanta per arginare il governo sandinista e la guerriglia salvadoregna. Le infrastrutture sono già pronte: l’aeroporto militare di Mariscal Estigarribia, con la sua pista lunga 3.800 metri, può consentire l’atterraggio di aerei Galaxy e B52 e si trova a poco più di 200 chilometri dal confine boliviano. Un’altra area da tenere sotto controllo è quella della Triple Frontera (tra Paraguay, Argentina e Brasile), assai appetibile non solo per le sue ricchezze in petrolio e gas naturale, ma per il cosiddetto Acuifero Guaraní, tra le maggiori riserve mondiali di acqua potabile. Prendendo spunto dalla presenza di una forte comunità di origine araba, dopo l’11 settembre l’amministrazione Bush ha denunciato più volte l’esistenza nella zona di cellule di Al Qaeda. Tra le "prove" citate dalla propaganda Usa, il ritrovamento in Afghanistan - nelle abitazioni di sospetti terroristi - di manifesti turistici delle cascate dell’Iguazú. A questi argomenti risibili si sono aggiunti qualche tempo fa gli accenni a misteriosi collegamenti con l’attentato del 1994 contro la sede dell’Asociación Mutual Israelita Argentina di Buenos Aires (85 morti): un colombiano di origine araba, che avrebbe avuto contatti telefonici con i suoi complici nella Triple Frontera, costituirebbe il legame con Iran e Siria, indicati dalla Cia e dal Mossad come mandanti dell’attentato. In realtà la zona è tristemente famosa fin dai tempi delle dittature del Cono Sur: fu infatti un passaggio obbligato dell’Operación Cóndor, il coordinamento repressivo ideato da Augusto Pinochet, con la complicità tra gli altri del paraguayano Stroessner. In Cile ora qualcuno comincia a pagare per gli orrori di quegli anni; invece Alfredo Stroessner, che impose al Paraguay una brutale dittatura durata 35 anni, continua a vivere il suo esilio dorato in Brasile. A proteggerlo vi sono i cosiddetti barones de Itaipú, arricchitisi grazie alla corruzione e all’enorme giro di affari legato alla costruzione dell’omonima diga. Qualche mese fa l’avvocato Martín Almada, che nel '92 scoprì proprio ad Asunción gli Archivi del Terrore, ha definito la sua patria "un paese carcere dimenticato". La battaglia per la verità e la giustizia, ha detto Almada, "si scontra da una parte contro ostacoli e interessi che permettono l’impunità, dall’altra con una situazione economica, politica e sociale che si aggrava sempre più, poiché permangono le cause che hanno trasformato questo paese in uno dei più poveri al mondo". 1/4/2006 |
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Cile, la squadra di governo Adriana Delpiano, ex ministra del governo Lagos, svolgerà le funzioni di first lady nel periodo di presidenza Bachelet. In particolare la Delpiano, che era stata titolare del Servicio Nacional de la Mujer e viceministro per lo Sviluppo Regionale, presiederà le fondazioni per gli aiuti sociali che facevano capo alla moglie del presidente Lagos. Formalmente assumerà la carica di direttrice dell'Area Socioculturale della Presidenza, recentemente creata da Michelle Bachelet. La neopresidente ha così respinto le altre soluzioni proposte: l'affidamento dell'incarico di first lady a uno dei suoi tre figli o alla madre, Angela Jeria. È solo un esempio della nuova situazione venutasi a creare in Cile con l'ascesa, per la prima volta nella storia del paese, di una donna al vertice dello Stato. E se una presidentessa non costituisce un'assoluta novità nel continente, lo è la composizione della squadra di governo di Michelle, che vede una perfetta parità numerica (dieci e dieci) tra uomini e donne. Sono affidati a donne Ministeri importanti quali la Difesa (Vivianne Blanlot Soza, Ppd), l'Economia (Ingrid Antonijevic Hahn, Ppd), la Sanità (María Soledad Barría, Partido Socialista), oltre alla Secretaria General de la Presidencia (Paulina Veloso Valenzuela, Partido Socialista) e la parità si estenderà a tutti i livelli dell'amministrazione pubblica. Altro aspetto rilevante è la presa di distanza dai partiti tradizionali della coalizione di maggioranza (la Concertación de Partidos por la Democracia) che, pur vedendosi rappresentati nel nuovo gabinetto secondo le rispettive quote di potere, non hanno potuto "piazzare" i nomi previsti. Personaggi nuovi, che "no repiten el plato", sono stati designati dalla neopresidente, che ha puntato apertamente su un governo di tecnocrati. Ma forse l'elemento che più ha sorpreso in Cile (mentre è passato quasi inosservato all'estero) è il peso che nella compagine ha assunto la Fundación Expansiva, centro accademico ideologicamente affine alla Concertación, sorto con il proposito di influire sulle politiche pubbliche. Al di là dei tre dicasteri affidati a membri di Expansiva (Difesa, Tesoro e Opere Pubbliche), l'influenza di questo gruppo si estende a tutto il gabinetto Bachelet e molti lo accusano di comportarsi come un vero e proprio partito. Del resto l'idea delle fondazioni think tank, mutuata dagli Stati Uniti, ha incontrato grande successo nel paese. Ogni esponente politico che si rispetti ne ha creata almeno una: si va dalla Fundación Futuro di Sebastián Piñera alla Fundación La Vaca di Joaquín Lavín (i due ex candidati della destra), dalla Fundación Frei di Eduardo Frei Ruiz-Tagle alla Fundación Mercator del miliardario del Ppd Fernando Flores, per citarne solo alcune. Qualcuno a Santiago già teme che i tecnocrati della Fundación Expansiva finiscano per riproporre - con qualche aggiustamento - la linea economica neoliberista dell'epoca di Lagos. 20/3/2006 |
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In scena Marcelo Quiroga Nato a Buenos Aires nel 1956, César Brie è un artista che non può essere ancorato a un luogo particolare. A metà degli anni Settanta giunge dalla natia Argentina a Milano, allora ricca di fermenti politici e culturali, dove vive tra l'altro l'esperienza della Comuna Baires. In seguito si trasferisce in Danimarca, per lavorare con l'Odin Teatret di Eugenio Barba. Poi il ritorno in America Latina, e precisamente in Bolivia, dove nell'agosto 1991 a Yotala, nei pressi di Sucre, fonda il Teatro de los Andes. "Ci proponiamo di formare un attore-poeta nel senso etimologico del termine: artefice, creatore. Colui che crea e che fa - questa la poetica del Teatro de los Andes - Tentiamo di unire nelle nostre opere le riflessioni sullo spazio scenico, sull'arte dell'attore e sulla necessità di raccontare storie, di ricordare, di tornare in sé. Ci proponiamo un teatro che potrebbe chiamarsi dell'umorismo e della memoria. Siamo professionisti nel senso antico di professare le nostre motivazioni, di confessarle in pubblico. Ed è il rapporto con il pubblico che determina il nostro lavoro: togliere il teatro dai teatri e portarlo dov'è la gente, nelle università, nelle piazze, nei villaggi, nei luoghi di lavoro, nelle comunità. Cercare un nuovo pubblico per il teatro e creare un nuovo teatro per questo pubblico. Vogliamo costruire un ponte tra la tecnica teatrale che possediamo (e che potrebbe definirsi occidentale) e le fonti culturali andine che si esprimono attraverso la musica, le feste e i rituali. Il contatto, l'incontro e il dialogo sono indispensabili per il nostro lavoro culturale. La mescolanza di razze, culture, usi, le migrazioni creano sempre nuove forme espressive e musicali. Anche se si sono perse cose antiche, ciò che è nato dall'incontro e dall'unione è la forma con cui l'uomo di oggi si esprime: figlio della sua condizione e delle sue esperienze, con la memoria aperta al passato e la mente proiettata verso il futuro. Quest'uomo è il soggetto e l'oggetto del nostro lavoro". A César Brie, in questi giorni a Milano per presentare al Teatro dell'Elfo due spettacoli (Otra vez Marcelo e Fragile), chiediamo di narrarci come è nato il Teatro de los Andes. -Con i soldi risparmiati in quattro anni avevo comprato una casa abbandonata e una camionetta per trasportare attori, oggetti di scena, luci, ecc. Con questa base, ero convinto che se avessimo fatto un buon teatro avremmo avuto un pubblico, altrimenti sarebbe stata una buona occasione per cambiare mestiere. Dopo gli anni trascorsi in Europa, per me era importante trovare un linguaggio più legato alla realtà latinoamericana e un modo diverso di affrontare i problemi estetici che il teatro pone. Da allora siamo molto cresciuti. Rappresentiamo le nostre opere non solo nei luoghi deputati al teatro, ma dove il teatro non arriva mai: nei palazzetti dello sport, all'aria aperta, dove capita. Viaggiamo con un equipaggiamento ridotto, così da poter lavorare anche in località dove non c'è la luce elettrica: abbiamo spettacoli che rispecchiano maggiormente questa scelta di povertà e spettacoli che sono più complessi. E ci proponiamo di distruggere quelli che io chiamo "gli automatismi culturali" del paese, di spezzare l'enorme divisione sociale esistente, sia con l'eterogenea composizione del nostro gruppo, sia con il nostro modo di porci di fronte alla gente. -Godete di sovvenzioni pubbliche o di sostegni privati? -Siamo un gruppo indipendente, senza alcun sostegno o sovvenzione, viviamo solo del nostro lavoro artistico e dei nostri spettacoli. Finora siamo riusciti a sopravvivere. Sono sicuro che il giorno in cui comincerò a fare un brutto teatro, il pubblico mi farà capire che devo chiudere bottega. Al contrario di certe avanguardie, per le quali il numero degli spettatori non conta, io sono fortemente interessato al rapporto con il pubblico: voglio raggiungere molte persone, toccarle nel profondo e seminare inquietudini, interrogativi. -Avete notato un'evoluzione nell'atteggiamento del pubblico verso le vostre proposte? -La prima volta che ho presentato uno spettacolo al Teatro Municipale di La Paz, un bell'edificio ottocentesco, c'erano diciotto spettatori, di cui sette giornalisti e cinque amici. Nello stesso luogo, tre anni dopo c'erano all'esterno i bagarini che vendevano i biglietti. Dunque qualcosa era cambiato. Ora abbiamo un nostro pubblico fedele, le sale sono sempre piene. I primi spettacoli erano di taglio comico, due satire: il Colón di Altan, messo in scena adeguandolo al contesto boliviano, e Ubú en Bolivia, adattamento dell'Ubu Roi di Jarry. Questi lavori hanno aperto la strada, permettendoci di proporre in seguito opere come Las Abarcas del Tiempo, La Iliada, En un sol amarillo, Otra vez Marcelo o Fragile. Dunque una vena più seria, senza perdere però quest'idea del grottesco che è centrale nel mio lavoro, l'alternanza - senza soluzione di continuità - tra il comico e il tragico. Questo crea uno sfasamento negli spettatori: con termini tratti dalla scherma si potrebbe dire che il comico fa loro abbassare la guardia, consentendoci di colpirli poi con il tragico. -Otra vez Marcelo, uno degli spettacoli che proponete in questi giorni in Italia, è dedicato alla figura dello scrittore e dirigente politico Marcelo Quiroga Santa Cruz, assassinato durante il golpe militare di García Meza nel 1980. Com'è stata accolta in Bolivia quest'opera? I boliviani ricordano ancora chi era Marcelo Quiroga? -Marcelo è un mito in Bolivia: ci sono strade con il suo nome, busti dedicati a lui. Quando Evo Morales ha assunto il potere, ha chiesto un minuto di silenzio per tutti i martiri indigeni: da Manco Inca a Tupac Amaru, da Bartolina Sisa a Tupac Katari. Accanto a questi ha ricordato tre bianchi: Che Guevara, padre Espinal e Marcelo Quiroga Santa Cruz. E la legge contro la corruzione e per l'indagine sulla provenienza delle fortune, attualmente in discussione in Parlamento, porta proprio il nome di Marcelo Quiroga. Se la sua figura è nota, i suoi scritti sono praticamente sconosciuti, così come le circostanze esatte della morte. Per questo con il mio spettacolo mi sono posto due obiettivi: raccontare la vergognosa beffa fatta alla famiglia nella ricerca dei suoi resti (ai familiari è stato negato persino il corpo, che non è mai stato ritrovato), e recuperare il pensiero politico di Marcelo. Un pensiero estremamente attuale, centrato sull'esercizio della democrazia, la difesa della sovranità nazionale e la salvaguardia delle risorse naturali non rinnovabili. Quanto ai responsabili del delitto, in Bolivia non si può dire pubblicamente che è stato Banzer a farlo uccidere, perché si rischia il carcere. Il figlio stesso di Quiroga è stato minacciato: "Non la processiamo perché lei è un congiunto, comprendiamo il suo dolore, però..." In Italia posso pronunciare apertamente il nome del mandante, in Bolivia lo faccio solo intuire, ma la gente lo capisce benissimo. -Accanto all'aspetto politico, viene affrontato il tema del rapporto tra Marcelo e la moglie... -Ho voluto raccontare la vicenda d'amore tra Marcelo e la moglie Cristina: una storia straordinaria, di quelle che si leggono solo sulle riviste rosa. Sempre uniti, fedeli l'una all'altro. Lei lo ha accompagnato in ogni istante, lo ha appoggiato in tutte le sue decisioni, ha riordinato le sue carte e i suoi archivi. Ed è l'unica che non abbia mai pianto parlandomi di Marcelo perché, a 25 anni dalla sua morte, il marito continua a sederle accanto, a "viverle dentro". La figura di questa donna mi è cresciuta tra le mani mentre preparavo lo spettacolo: mi sono accorto un po' alla volta che stava assumendo un ruolo centrale. Oggi ha una settantina d'anni, cammina a fatica con l'aiuto del deambulatore ed è molto malata: il crollo fisico è venuto al termine della sua lunga battaglia per ottenere che l'ex dittatore García Meza, responsabile di aver dato l'ordine di uccidere Marcelo, fosse processato e condannato. Sono passato a salutarla prima di venire in Italia: l'ho trovata seduta al computer, intenta a correggere il romanzo che sta scrivendo. 18/3/2006 |
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Bolivia, un mese di governo Morales Nel suo primo mese di governo Evo Morales ha inviato al suo paese e alla comunità internazionale una serie di messaggi "forti". Innanzitutto la designazione dei ministri, tra i quali figurano il leader della Federación de Juntas Vecinales della città di El Alto, Abel Mamani (il leader delle lotte contro la compagnia idrica francese Suez), a capo del nuovo Ministero delle Acque, e l'ex parlamentare Andrés Soliz Rada (fautore di una nazionalizzazione "dura") al dicastero degli Idrocarburi. Ministro degli Esteri è stato nominato l'intellettuale quechua David Choquehuanca, che ha subito sottolineato l'importanza, per i nuovi diplomatici, della conoscenza di una delle lingue indigene. Quattro le donne nella compagine governativa: Nila Heredia alla Sanità, Alicia Muñoz al Governo, Celinda Sosa allo Sviluppo Economico e Casimira Rodríguez alla Giustizia. Particolarmente importante la nomina di quest'ultima, dirigente delle lavoratrici domestiche, una delle categorie più sfruttate ed emarginate. Ambasciatore a Washington è stato designato Sacha Llorenti, attivista dei diritti umani, che dovrà ottenere l'estradizione dell'ex presidente Sánchez de Lozada, accusato del massacro dell'ottobre 2003. Morales ha inoltre realizzato significativi cambiamenti ai vertici della polizia e dell'esercito, sia con l'obiettivo dichiarato di creare nelle forze armate una mentalità più vicina al popolo, sia per epurare i comandanti invischiati nello scandalo dei 28 missili consegnati agli Usa per essere distrutti. Ufficialmente i missili dovevano essere disattivati perché "obsoleti": in realtà furono gli statunitensi a premere in tal senso, prevedendo la vittoria della sinistra alle presidenziali. L'avvicendamento degli alti comandi non è stato indolore e il malumore dei generali silurati e dei loro familiari è diventato visibile durante la cerimonia ufficiale. Morales non è parso preoccupato e nel suo discorso si è assunto "la responsabilità delle trasformazioni che il popolo sta chiedendo". La lotta alla corruzione, obiettivo prioritario del governo, non ha risparmiato i dirigenti di servizi pubblici quali l'esattoria e le dogane, che sono stati sostituti da nuovi funzionari. Il neopresidente ha anche affrontato la scottante questione della coca. E lo ha fatto chiamando, alla guida dell'organismo incaricato di combattere la droga (ribattezzato Viceministero della Coca e dello Sviluppo Integrale), proprio un ex cocalero, Felipe Cáceres. Per non lasciar adito a dubbi, davanti a un massiccio concentramento di contadini del Chapare Morales ha annunciato l'avvio di una campagna per la cancellazione della coca dalla lista delle sostanze considerate velenose dalle Nazioni Unite. Si è poi preso la soddisfazione di passare in rassegna, come capo dello Stato, le forze della Unidad Móvil de Patrullaje Rural, le stesse che lo avevano arrestato negli anni Novanta come dirigente cocalero. La sfida del nuovo governo è quella di proseguire la lotta al narcotraffico, ma senza rinunciare alla coltivazione: "cocaina zero, non coca zero". Nelle zone andine il mercato legale della foglia è in espansione: è utilizzata per il consumo tradizionale, ma anche per la fabbricazione di innumerevoli prodotti, dalle medicine alle bevande, dai saponi alla gomma da masticare. Tanti piccoli produttori guardano ora alla battaglia di Evo con la speranza di benefici economici per tutta la regione. Le interviste raccolte in un articolo di María Amparo Lasso, apparso su Tierramérica del 21 gennaio, mostrano chiaramente questa realtà. "La nostra bibita non è una droga, è leggermente stimolante come un caffè, ma molto più salubre per i minerali e le vitamine che contiene", afferma David Curtidor a nome dei produttori colombiani di Coca Sek. E Lida Marín, dirigente della peruviana Enaco (Empresa Nacional de la Coca), rivela che cloridrato di cocaina a fini medicinali viene già inviato regolarmente in Giappone e in Belgio e che a breve inizierà l'esportazione in Sudafrica di 153.000 bustine di tè di coca. Del resto, lo conferma la stessa Marín, tra i clienti della Enaco figura la Coca-Cola, che effettua i suoi acquisti tramite la statunitense Stepan Company. Al problema della coca si lega quello dei rapporti con Washington che, per un accordo bilaterale, presta assistenza finanziaria, materiale e tecnica (finalizzata alla "lotta alla droga") e mantiene una base militare a Chimoré, nel cuore del Chapare. Nel tentativo di evitare per quanto possibile uno scontro diretto con l'amministrazione Bush, Morales ha dichiarato che non intende espellere la Dea, l'agenzia federale antinarcotici degli Stati Uniti: i funzionari stranieri, ha affermato, "hanno il diritto di rimanere nel nostro paese finché rispettano la dignità e la sovranità nazionale". La decisione non ha incontrato il favore dei cocaleros, che avevano chiesto al capo dello Stato la cacciata dal Chapare della Dea e di altre agenzie Usa come la Cia. Come questa, altre scelte di Morales hanno scatenato non poche critiche. La designazione di Walker San Miguel come ministro della Difesa è stata oggetto di dure polemiche per il ruolo svolto dallo stesso San Miguel nella capitalizzazione della Empresa Nacional de Ferrocarriles e in quella poco trasparente del Lloyd Aéreo Boliviano (la linea aerea un tempo orgoglio del paese, poi finita nelle mani del discusso imprenditore Ernesto Asbún). Ma il capo dello Stato ha dimostrato, proprio in quest'ultima vicenda, che nonostante la presenza di San Miguel nel suo governo intende garantire la salvezza della linea aerea e perseguire i responsabili dell'attuale crisi. Forti discussioni ha suscitato anche il progetto divendita degli enormi giacimenti di ferro e di manganese di El Mutún, alla frontiera con il Brasile, progetto che il governo Morales ha ereditato dal suo predecessore. Il ministro della Pianificazione, Carlos Villegas, ha annunciato recentemente il rinvio di 90 giorni dell'apertura delle buste con le offerte delle transnazionali e la modifica dei termini del contratto. Nei termini originali l'estrazione del minerale avrebbe comportato seri rischi ambientali, perché si prevedeva l'uso di carbone vegetale come combustibile. Con le nuove condizioni di vendita vengono garantiti allo Stato maggiori introiti, viene decisa la costruzione in loco di un impianto siderurgico (con l'impiego di lavoratori locali) e la sostituzione del carbone vegetale con il gas naturale. 22/2/2006 |
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Gli attacchi di Washington La segretaria di Stato Usa, Condoleezza Rice, ha invitato a creare un "fronte unito" contro il presidente Chávez, presentato come "una sfida alla democrazia" e un "pericolo" per la regione a causa dei suoi rapporti con il governo dell'Avana. La Rice ha reso noto di aver chiesto a Brasile, Spagna e Unione Europea di "fare attenzione" a quanto sta avvenendo in Venezuela, insistendo sulla "cattiva influenza" di Caracas in America Latina. Il tentativo Usa di isolare Caracas facendo appello tra gli altri al Brasile (che pure ha un governo progressista) si richiama, ancora una volta, alla divisione tra "buoni" e "cattivi" su cui Washington fonda i suoi rapporti con la sinistra del continente. Di fronte al grande cambiamento politico in atto in America Latina, gli sforzi statunitensi mirano a impedire il consolidarsi di un blocco anti-Usa e a far fallire il progetto di integrazione continentale di cui il presidente venezuelano è fautore. La base teorica ricorda i contenuti del libro di Teodoro Petkoff Dos Izquierdas (Caracas 2005), in cui l'esponente politico venezuelano (che dimenticato il suo passato di ex guerrigliero milita ora nell'opposizione antichavista) distingue una sinistra moderata e pragmatica e una "sinistra borbonica", retrograda e manichea. I rappresentanti della prima sono il brasiliano Lula e il cileno Lagos, mentre nella seconda troviamo Hugo Chávez e Fidel Castro. Contro questo tentativo di isolamento Chávez ha reagito raddoppiando gli appelli all'unità latinoamericana: ne è un esempio la lettera inviata alla presidente eletta del Cile, Michelle Bachelet. Una lettera affettuosa e quasi "lirica", con cui Chávez sembra voler chiudere il periodo di freddezza tra i due paesi, conseguente alla gaffe della diplomazia cilena nell'aprile del 2002 (quando Lagos riconobbe la legittimità del governo golpista). "Non ci sono soluzioni nazionali di fronte al mare di problemi che affliggono la Nostra America e l'umanità intera", si legge nel messaggio, che conclude con un invito a visitare Caracas: "Abbiamo molto da parlare, molto da lavorare per il Cile, per il Venezuela e per la Nostra America (...) per continuare ad avanzare nella strada del consolidamento e dell'approfondimento della democrazia". Gli attacchi di Condoleezza Rice al governo venezuelano erano stati preceduti da quelli del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, che qualche giorno prima aveva paragonato Chávez a Hitler. "Leader populisti riescono ad attrarre le masse e ci sono elezioni come quella di Evo Morales in Bolivia. E c'è Hugo Chávez in Venezuela con molto denaro a disposizione proveniente dal petrolio. Si tratta di una persona legittimamente eletta, come Adolf Hitler fu eletto legittimamente e poi consolidò il suo potere, e ora Chávez lavora con Fidel Castro e con il signor Morales e altri. Questo mi preoccupa". Contemporaneamente il direttore dei servizi segreti nazionali (nonché ex ambasciatore Usa in Messico, in Honduras, in Iraq), John Dimitri Negroponte, riferiva al Congresso che "figure populiste radicali in alcuni paesi dimostrano poco rispetto per le istituzioni democratiche". In cima alla lista c'è ancora il presidente venezuelano. Se Chávez fosse rieletto, aveva detto Negroponte, "appare pronto a utilizzare il suo controllo del Parlamento e di altre istituzioni per continuare a soffocare l'opposizione, ridurre la libertà di stampa e trincerarsi dietro provvedimenti tecnicamente legali, ma che di fatto limitano la democrazia". Caracas, aveva aggiunto Negroponte, sta cercando di ampliare le relazioni economiche, militari e diplomatiche con l'Iran e la Corea del Nord e ci si aspetta che rafforzi i suoi legami con l'Avana, mentre ha ridotto la cooperazione con Washington nella lotta contro il narcotraffico. Quanto alla Bolivia, "la vittoria di Evo Morales riflette la mancanza di fiducia del pubblico nei partiti politici e nelle istituzioni tradizionali". Il neopresidente "sembra aver moderato le sue promesse iniziali di nazionalizzare l'industria degli idrocarburi e di interrompere lo sradicamento della coca. Ma il suo governo continua a inviare segnali confusi sulle sue intenzioni". Se i segnali sulle intenzioni di Morales sono "confusi", a detta di Negroponte, quelli del governo di Washington sono invece chiarissimi. Hugo Chávez è additato come il "nemico numero uno". A Morales viene concesso il beneficio del dubbio, nella speranza di evitare un consolidamento di quello che la Casa Bianca chiama "asse del male". In questa luce va letta la telefonata che il primo febbraio George W. Bush ha fatto a Evo Morales, congratulandosi per il risultato elettorale ed esprimendo la sua disponibilità "a un dialogo costruttivo" tra i due paesi. Nel frattempo il responsabile della lotta contro la droga dell'ambasciata Usa in Bolivia, William Francisco, proclamava il suo appoggio all'orientamento del nuovo governo di La Paz: "La guerra per noi non è contro la coca, ma contro la cocaina. Sappiamo che voi utilizzate la coca da epoca millenaria per le sue proprietà terapeutiche; noi intendiamo aiutarvi solo a combattere il narcotraffico". Più che l'espressione di due diverse linee politiche, queste parole esprimono il ricorso, da parte di Washington, al classico metodo del bastone e della carota: da una parte avvertimenti e larvate minacce, dall'altra mano tesa (e promesse di aiuti) a chi sia disposto a prendere le distanze dalle "cattive compagnie". 17/2/2006 |
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Haiti, Préval è il nuovo presidente René Préval è stato dichiarato vincitore delle elezioni presidenziali del 7 febbraio. La proclamazione giunge dopo cinque giorni di proteste dei suoi sostenitori e di scontri con le forze dell'Onu, che hanno provocato anche la morte di un manifestante. Le voci di frodi erano alimentate dai controversi dati ufficiali: nel corso della settimana, lo schiacciante vantaggio attribuito a Préval subito dopo il voto era andato via via diminuendo, scendendo sotto il 50% (risultato che avrebbe comportato un nuovo turno elettorale). "Haiti è di nuovo sull'orlo di un'esplosione sociale per il chiaro tentativo di un'élite politica di ignorare il massiccio trionfo ottenuto dal candidato René Préval nelle esemplari consultazioni di martedì. Due dei giudici del Conseil Electoral Provisoire hanno denunciato la manipolazione dei risultati elettorali, mentre questo organismo ha annullato in serata una conferenza stampa nella quale avrebbe dovuto rendere pubblici i dati definitivi. Il responsabile del Consiglio Elettorale ha fornito i risultati del voto senza rivelarne la provenienza e senza consultare gli altri membri di questo tribunale. Vi sono ragioni per credere che sia in atto un piano per disconoscere la vittoria assoluta del candidato Préval e forzare la celebrazione del ballottaggio", aveva scritto il quotidiano della Repubblica Dominicana El Nacional. E lo stesso candidato aveva denunciato pubblicamente l'esistenza di "brogli ed errori". Denunce che avevano trovato clamorosa conferma con la scoperta di migliaia di schede gettate nelle discariche. Tra accuse e smentite, e nel timore di più gravi disordini, la Missione di Stabilizzazione dell'Onu e le autorità elettorali elaboravano alla fine una soluzione di compromesso: l'attribuzione dei voti in bianco, in maniera proporzionale, a ognuno dei candidati. In tal modo René Préval si è assicurato la maggioranza assoluta ed è stato proclamato formalmente eletto. Tra i principali artefici di questa soluzione, che sbarrava la strada ai candidati di Washington, figura il governo brasiliano (a capo della missione delle Nazioni Unite): il consigliere di Lula per la politica estera, Marco Aurélio Garcia, aveva affermato chiaramente che Brasilia considerava il riconoscimento della vittoria di Préval come il mezzo migliore per allentare la tensione nel paese. 63 anni, agronomo, René Préval è stato primo ministro di Aristide nel 1991. Nonostante si sia poi sforzato di prendere le distanze da quell'esperienza, creando anche una nuova organizzazione politica (Lespwa, la speranza), continua ad essere considerato il politico più vicino al deposto presidente. La domenica precedente le elezioni centinaia di persone, provenienti soprattutto dai quartieri poveri di Port-au-Prince, avevano urlato a gran voce: "Préval, non possiamo più aspettare, fai tornare Aristide". Per affrontare il voto del 7 febbraio, Préval non si era comunque accontentato del sicuro appoggio degli emarginati; aveva incontrato i principali esponenti della borghesia assicurandosi il loro sostegno, o almeno la loro neutralità. Del resto durante la sua precedente gestione (è stato presidente dal 1996 al 2001) aveva attuato puntigliosamente le riforme imposte dal Fondo Monetario Internazionale e appoggiato la privatizzazione di numerose imprese statali. Martedì 7 gli haitiani erano accorsi in massa ai seggi, per un'elezione rinviata quattro volte e che vedeva in lizza ben 33 candidati. Un gruppo eterogeneo tra cui figurava un trafficante d'armi, un ex comandante dell'esercito, un killer e uno degli esponenti della sanguinosa rivolta del 2004 (apertamente appoggiato da un leader degli squadroni della morte). La lentezza delle operazioni di voto aveva costretto gli elettori ad aspettare per ore in fila. E non erano mancati gli episodi di violenza: un poliziotto e un civile uccisi a Gros-Morne in seguito a un alterco; una persona morta per asfissia e un'altra stroncata da un infarto nella capitale, a causa dell'intervento della polizia che tentava di contenere le proteste per le lunghe attese. Al termine della giornata i rappresentanti delle Nazioni Unite, dell'Oea e dei paesi della missione di stabilizzazione si erano comunque detti soddisfatti. "Questo popolo vuole la pace, vuole la tranquillità e per questo è andato a votare e si è sacrificato tanto", aveva affermato con entusiasmo il segretario generale dell'Oea, il cileno Insulza. Diversa la posizione degli osservatori europei: Johan Van Hecke, membro della delegazione dell'Unione Europea, aveva dichiarato: "Una popolazione che si è dimostrata tanto motivata avrebbe meritato elezioni meglio preparate e meglio organizzate". 16/2/2006 |
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"Così conobbi il Che" Polo Torres Guerra e sua moglie, Juana González Sánchez, sono una sorta di leggenda a Cuba: furono tra i primi contadini ad appoggiare i guerriglieri sulla Sierra Maestra, aiutandoli con la loro conoscenza dei luoghi e fornendo loro cibo e riparo. In visita in Italia, Polo - soprannominato Capitan Descalzo per la sua abitudine di camminare a piedi nudi - ricorda con semplicità quei momenti straordinari, rievoca l'incontro con i ribelli, le conquiste della Rivoluzione, il ritorno al lavoro della terra dopo l'esperienza all'Avana, il giorno in cui ricevette la drammatica notizia della morte del Che. Sotto la dittatura di Batista - "Nelle campagne vivevamo molto male: non avevamo scuole, non avevamo assistenza sanitaria né medicine. La terra era in mano ai latifondisti, proprietari di enormi estensioni. Questi terreni erano lasciati in gran parte incolti, ma se noi cercavamo di coltivare un piccolo pezzo di terra, dopo aver faticato tanto, alla stagione del raccolto ci buttavano fuori. Quando sono arrivati i guerriglieri abbiamo visto che si comportavano bene e che il loro obiettivo era combattere il governo per creare migliori condizioni di vita per il popolo. Per questo noi contadini ci siamo uniti a loro. Pian piano donne e uomini si sono uniti ai ribelli, mettendo a loro disposizione tutto quello che possedevano. Fu una vera adesione di massa". L'incontro con il Che - "Un giorno, tornando a casa, due ribelli mi sorpresero: mi fermarono, mi tolsero il machete e mi portarono dal Che. Quando fui di fronte a lui, ordinò che mi restituissero il machete e mi chiese il nome. Poi mi spiegò perché era là sulla Sierra Maestra e io gli dissi che già da diversi giorni li cercavo per unirmi a loro. Li invitai nella mia casa per mangiare qualcosa e accettarono. Mangiarono moltissimo, poi li guidai in un luogo sicuro dove accamparsi per la notte. Di nuovo a casa, insieme a Juana preparai altro cibo. Ma la mattina dopo, quando tornai all'accampamento, il Che in tono severo mi disse: 'Polo, mi hai sabotato'. Preoccupato gli chiesi: 'Che cosa è successo?' 'Mi hai rovinato gli uomini, adesso chi non vomita ha la diarrea'. Però mangiarono ancora e conservarono un po' di scorte per il viaggio". Non era solo un combattente - "Dal primo incontro con il Che, ho capito dal suo modo di parlare che non era cubano. Ho pensato subito che venisse per fare del bene, per aiutarci e così è stato. Era guerrigliero, ma non solo questo: era medico, curava bambini e anziani, era anche un grande organizzatore. Basta guardare tutto quello che ha fatto costruire a La Mesa: un'armeria, un ospedale, una panetteria, un magazzino per le merci che si andavano raccogliendo per i contadini e per i guerriglieri, una prigione, una calzoleria, una selleria, una sartoria, una fabbrica di sigari, un'officina per lavorare il legno e costruire i calci dei fucili, una scuola. Si pubblicò persino un giornale, El Cubano Libre. Insomma io lo vedo come l'uomo che illumina il continente, l'uomo di cui avevamo bisogno. Attraverso il Che e attraverso Fidel abbiamo visto che potevamo sperare in un cambiamento totale e questo cambiamento lo abbiamo avuto". Le conquiste della Rivoluzione - "Prima ancora della vittoria era cominciata la distribuzione delle terre ai contadini e la concessione di crediti. E il miglioramento si vede: adesso la maggior parte della terra è in mano ai contadini; abbiamo medici, ospedali, scuole, abbiamo fatto enormi passi avanti. Ora, se un bambino è malato, alla madre viene dato uno stipendio sufficiente perché possa curarlo. E se c'é un anziano che non ha chi si prenda cura di lui, lo Stato provvede a pagare qualcuno che lo assista. I progressi che abbiamo fatto sono immensi". L'esperienza all'Avana - "Circa un mese dopo il trionfo della Rivoluzione, il Che mi mandò a cercare. Andai alla capitale, alla Fortaleza de La Cabaña dove c'era il Comando del Che, che mi propose di studiare, di rimanere lì a dirigere un'azienda agricola oppure di entrare nell'esercito. Ma la vita in città non mi piaceva e nel vedere i soldati che marciavano tutti i giorni, uno due, tre, quattro, uno, due, tre, quattro, mi sembrava che buttassero via il tempo quando c'era tanto da fare. Il Che si rese conto del mio desiderio di tornare a casa e mi diede un permesso di 14 giorni per rivedere la mia famiglia, ma io allungai il periodo... A La Mesa vidi i campi di caffè fioriti, sembrava che un grande lenzuolo coprisse le colline, così decisi di non ritornare più in città. Io amo i campi: il mio desiderio è di morire lavorando la terra". La notizia della morte del Che - "Quando avvenne la morte del Che io non possedevo ancora una radio. C'era un signore che mi conosceva ed era amico di un mio vicino. Venne da Manzanillo al luogo dove mi trovavo e disse: 'Polo, hanno ucciso il tuo capo'. Io mi sentii venir meno, ma non volevo credergli, mi aggrappavo alla speranza che non fosse vero. Andai al partito e chiesi a un signore anziano: 'È vero?' Rispose: 'Sì, Fidel ha parlato ieri sera, hanno ucciso il Che. Io piansi, ma non solo io, tutto il popolo pianse per quella morte". 27/1/2006 |
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Libertà di stampa sotto attacco in Messico Tempi bui per la libertà d'espressione in Messico. Durante il periodo di presidenza Fox gli attacchi ai lavoratori dell'informazione si sono moltiplicati, facendo balzare il paese ai primi posti nel mondo per numero di giornalisti uccisi. Dal 2000 ad oggi venti giornalisti sono caduti sotto i colpi dei killer e altre decine hanno subito aggressioni di ogni tipo. Solo nello scorso anno sono stati assassinati il cronista di Radio Max, Hugo Barragán Ortiz; il giornalista di Vallarta Milenio, José Reyez Brambila; il direttore del quotidiano La Opinión di Poza Rica, Raúl Gibb Guerrero; la conduttrice di Stereo 91, Dolores Guadalupe García Escamilla. Ad accomunare tutti questi delitti, come gli altri sedici degli anni precedenti, la totale impunità dei responsabili: mandanti e autori materiali non hanno ancora un nome. Anche senza arrivare all'omicidio, il potere usa ogni mezzo per far tacere la stampa. Un caso emblematico è quello della giornalista Lydia Cacho Ribeiro, arrestata a metà dicembre sotto l'accusa di calunnia e diffamazione nei confronti dell'imprenditore di Puebla Kamel Nacif Borge. Nel suo libro, Los demonios del edén, el poder detrás de la pornografía, Lydia Cacho aveva documentato la rete internazionale di pedofili in cui era implicato l'albergatore di Cancún Jean Succar Kuri, attualmente in carcere negli Stati Uniti. Succar era riuscito a più riprese a sottrarsi alla giustizia messicana grazie alla protezione di potenti personaggi della finanza e della politica. Tra questi la giornalista citava appunto l'industriale Kamel Nacif, detto "il re dei jeans", corredando le sue affermazioni con dati e testimonianze. L'industriale ha risposto con un'azione legale contro questo attentato alla sua "rispettabilità" (peraltro messa in dubbio da tante sue dipendenti, che lo accusano di molestie sessuali). Di fronte alla denuncia del magnate la magistratura di Puebla ha agito con efficienza e solerzia, ordinando l'immediato arresto della Cacho (tra numerose irregolarità segnalate dalla difesa). Ma la mossa di Nacif Borge si è ben presto trasformata in un boomerang. La persecuzione giudiziaria contro Lydia Cacho ha avuto vasta eco in tutto il paese, suscitando la protesta di migliaia di persone e di decine di organizzazioni della società civile. E il 17 gennaio la giornalista, che nel frattempo era stata scarcerata dietro cauzione, è stata assolta dall'imputazione di calunnia, anche se rimane in piedi l'accusa di diffamazione. Una prima vittoria, dunque, contro lo strapotere del denaro. Resta il fatto, come ha commentato il quotidiano La Jornada, che il caso ha rivelato "un mondo alla rovescia", dove "le anatre sparano alle doppiette, il delitto è una virtù e le leggi puniscono l'onestà. Solo nel mondo alla rovescia si procede contro un giornalista colpevole di aver documentato il suo reportage. Le leggi sulla stampa in vigore in Messico sono talmente anacronistiche da risultare inefficaci. In molte parti del paese la legge punisce allo stesso modo chi diffonde notizie false e chi rivela fatti veri". Una situazione ideale per chi vuol mettere il bavaglio alla libertà d'informazione. 26/1/2006 |
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Presenze e assenze a La Paz Undici capi di Stato dell'America Latina hanno presenziato, domenica 22 a La Paz, all'investitura del primo presidente indigeno della Bolivia. Non potevano naturalmente mancare quelli che lo stesso Evo Morales ha definito "i miei fratelli maggiori": il brasiliano Lula, l'argentino Kirchner e il venezuelano Chávez. Dei referenti politici di Morales era assente solo Fidel Castro, che ha inviato a rappresentarlo il vice Carlos Lage. "Fidel non ha potuto venire, ma non si può dire che non sia presente - ha detto Lage in un discorso alla folla in festa - Vedo Fidel in ognuno di voi". In carne e ossa erano invece presenti il colombiano Uribe, il peruviano Toledo e il cileno Lagos. Particolarmente significativa la presenza di quest'ultimo: erano 28 anni che un capo di Stato cileno non assisteva all'insediamento di un presidente boliviano. Lagos e Morales hanno avuto un colloquio prima della cerimonia ufficiale, concordando i tempi di "un avvicinamento, senza esclusioni e con realismo" tra i due paesi. I rapporti diplomatici tra La Paz e Santiago furono interrotti nel 1978 per controversie territoriali e da parte boliviana sussiste il reclamo di uno sbocco al mare, strappatogli dal Cile nella guerra del 1879. Ma l'assenza più pesante è stata quella messicana. Il presidente Vicente Fox aveva già fatto sapere che non sarebbe intervenuto, prendendo a pretesto il contemporaneo invito fatto da Morales al leader zapatista Marcos. Come ha sottolineato il ministro degli Esteri Derbez, "l'invito avrebbe dovuto essere rivolto al governo, che rappresenta in questo momento lo Stato messicano, e non a gruppi specifici". La vera ragione del rifiuto è però economica. Il Messico si era da tempo proposto come acquirente del gas boliviano e come ponte verso il mercato statunitense (secondo un vecchio progetto dell'ex presidente Sánchez de Lozada). Ora il nuovo governo di La Paz ha fatto sapere che non se ne farà nulla. Punto sul vivo, durante una trasmissione radiofonica il presidente messicano ha esclamato, con la signorilità che lo contraddistingue: "Allora il gas lo consumino sul posto o se lo mangino!" Provocando le proteste di Morales, che ha ammonito: "Non cerchi di umiliare me o il mio popolo per difendere gli interessi del suo paese". Se, viste le premesse, l'assenza di Fox era scontata, quella zapatista ha colto tutti di sorpresa. Il subcomandante Marcos l'ha spiegata affermando: "Noi non ci mettiamo in relazione con i governi, ma con i popoli". Parole che hanno suscitato critiche tra gli stessi simpatizzanti dell'Ezln. Il quotidiano messicano La Jornada ha scritto nel suo editoriale: "La dirigenza zapatista ha respinto l'espresso invito di Evo motivandolo con ragioni di purismo che in certe occasioni la fanno apparire ostaggio della sua stessa ideologia". Risponde sullo stesso giornale un articolo di Pablo González Casanova, che riporta quanto detto dallo stesso Marcos, impegnato in questi giorni nella Otra Campaña: "Non stiamo girando per vedere la Bolivia o l'America Latina; stiamo girando per vedere la storia del nostro paese e la nostra gente". Resta il sospetto che non si sia compreso fino in fondo il valore della vittoria di Morales per l'intero continente. 24/1/2006 |
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Da Michelle a Evo: il potere cambia volto Non è la prima donna ad assumere la presidenza in America Latina, come hanno erroneamente affermato alcuni giornali. Per rimanere nella regione sudamericana, vanno ricordate prima di lei l'argentina Isabelita Perón (1974) e la boliviana Lidia Gueiler (1979). Ma Michelle Bachelet, che nel ballottaggio del 15 gennaio si è imposta con grande distacco sul suo avversario, l'imprenditore di destra Sebastián Piñera, rappresenta una svolta per il Cile e per l'intero continente. Nella sua elezione la questione di genere riveste notevole importanza: la vittoria alle presidenziali è stata resa possibile soprattutto grazie al voto delle cilene, che nelle precedenti consultazioni si erano dimostrate inclini a scelte conservatrici. Michelle stessa aveva detto nel 2002, presentandosi a generali e comandanti in capo nella nuova veste di ministro della Difesa: "Sono socialista, agnostica, separata e donna...", mettendo l'accento sulla novità della sua presenza ai vertici delle forze armate in un paese tradizionalmente machista e ultracattolico. E non ha mancato di far risaltare la "differenza" anche durante la prima conferenza stampa all'indomani del ballottaggio. A chi le chiedeva come avrebbe fatto a seguire i figli, ora che doveva assumere l'impegno di capo dello Stato, ha risposto: "Se al mio posto ci fosse stato un uomo, mi sarebbe piaciuto sentirgli rivolgere questa stessa domanda. La mia sfida è che in futuro facciate una domanda simile anche ai maschi". Parole che hanno suscitato lo spontaneo applauso delle giornaliste presenti. Anche Evo Morales non è il primo presidente indigeno del continente latinoamericano. Lo statista messicano Benito Juárez era di origine india, ma il suo pensiero e le sue azioni politiche erano quelle di un liberale dell'epoca. L'attuale presidente peruviano Alejandro Toledo è un neoliberista laureatosi negli Stati Uniti. Morales invece è il primo ad assumere il potere senza tagliare i legami con la cultura d'origine. Questo il significato più profondo della cerimonia che il 21 gennaio si è svolta nella suggestiva cornice del sito precolombiano di Tiwanaku. Qui Evo Morales, scalzo per essere in contatto diretto con la Pachamama (la Madre Terra) e vestito con gli abiti tradizionali, ha chiesto forza alle divinità andine e ha ricevuto i simboli del potere indigeno. Una riaffermazione che la storia della Bolivia è iniziata ben prima dell'arrivo degli spagnoli. La fedeltà di Morales alla propria identità non è venuta meno neppure durante il lungo viaggio che, prima dell'insediamento, lo ha portato in otto paesi di quattro continenti. La sua chompa, il maglione di lana d'alpaca indossato durante gli incontri con ministri e capi di Stato, ha suscitato critiche e ilarità nella stampa conservatrice europea. Il quotidiano della destra spagnola Abc è giunto a scrivere che un maglione simile non lo si usa neppure "per andare con il furgone al mercato". Ben diversa l'opinione del Premio Nobel per la Letteratura, il portoghese Saramago, che ha definito "storica" la chompa di Morales. Secondo Saramago, le critiche all'abbigliamento di Evo dimostrano solo "la stupida superbia" dei popoli cosiddetti civili. 22/1/2006 |
Latinoamerica-online.it a cura di Nicoletta Manuzzato |